Berwald e Tino si dimostrarono professionali e precisi come sempre, sebbene il loro paziente fosse una persona sgradita: il più piccolo dei due analizzò la lesione dell’Accordatore, e spiegò al collega che tipo di protesi occorresse. Berwald si ritirò in uno stanzino - la cui entrata era coperta da una pesante tenda di velluto blu - per alcuni minuti, durante i quali i presenti furono allietati dai suoni di seghe elettriche, tonfi e allacciature meccaniche.
L’omone riemerse esibendo un’impeccabile riproduzione di una mano umana: le giunture erano state ricreate con molle avvolte da una pasta di gomma morbida, le ossa di metallo e gli ingranaggi installati per permettere alle dita artificiali di muoversi correvano sotto il rivestimento di pelle sintetica, per evitare che i meccanismi prendessero polvere o ruggine.
«L’allacciamento farà male» avvertì Berwald con la sua voce baritonale, e sistemò gli occhiali prima di procedere alla congiunzione. Roderich contrasse tutto il volto quando gli aghi della protesi gli penetrarono la carne per allacciarsi ai muscoli e alle ossa.
Il Gunsmith lanciò un’occhiata eloquente al binomio addetto ai traffici magici: la protesi non era nulla, senza i loro pasticci sovrannaturali. Mathias accettò quell’onere: la nuvola scura scesa sul volto di Norge non prometteva nulla di buono, e non avrebbe costretto il suo compagno a lavorare controvoglia.
Si inginocchiò di fianco al suo ex-padrone, estrasse una fiala di liquido iridescente dal tascapane e la versò con dovizia sul punto di congiunzione: un sottile sfrigolio si propagò nell’aria, mentre la carne di fondeva completamente alla nuova appendice meccanica.
Roderich non emise un suono per tutto il tempo. Nel lungo svenimento seguito alla sua mutilazione, aveva rivissuto tutti i crimini perpetrati nel nome del Vaticano: l’Accordatore lo aveva fatto senza scrupolo e senza rimorso, ma l’Hellsing aveva sofferto per ogni singola goccia di sangue. Il ricordo che più lo tormentava, era quello della sua gente che si dibatteva nelle bocche dei demoni. E il viso di Elizabeta, che lo guardava con l’ombra di un sorriso nonostante lui le avesse appena squarciato il petto con la sua musica, come se fosse sicura che un giorno Roderich sarebbe tornato.
Quel giorno era venuto. Ma non c’era più nessuno ad aspettarlo.
«Come stai?»
Roderich testò la mobilità del nuovo arto per dissimulare un sorriso. No, qualcuno c’era. Il più tenace e testardo di tutti gli Hellsing.
«Mi occorrerà qualche giorno per imparare a muoverla correttamente» valutò, atono.
Gli occhi dei Gunsmith saettavano dall’Accordatore a Gilbert ai loro colleghi, incerti sul da farsi. Avevano compiuto il loro dovere, ma erano restii all’idea di permettere a quell’individuo di lasciare la loro casa. Caina era il giusto posto per quell’essere, o una delle altre due Prigioni.
La stigmate di argento, che si stava ossidando man mano che il potere dell’Accordatore scemava, bruciava sulla sua mano sinistra. Roderich la nascose con il nuovo arto, e pronunciò il duo discorso con enorme fatica.
«Anche se mi rendo conto che le scuse non sono sufficienti per rimediare a quanto ho fatto… mi dispiace profondamente di avervi arrecato tanto dolore» ogni vita che aveva strappato sembrava gravargli come uno spettro sulle spalle, opprimendogli il respiro. Prese un lungo fiato prima di proseguire: «Sono stato manipolato dal Vaticano. Mi hanno impiantato un potere che non era mio e che… non sono riuscito a controllare.»
I Gunsmith dirottarono la loro attenzione verso Gilbert, che confermò:
«Non era in lui quando ha liberato i demoni sul nostro pianeta. È tornato cosciente solo quando gli ho tagliato la mano, sul ponte della Reina de la Oscuridad.»
I Gunsmith annuirono all’unisono, e si fissarono un’ultima volta prima di emettere il loro verdetto.
«Il peso di ciò che hai fatto ti perseguiterà per tutta la vita» sentenziò Norge.
«E questa sarà la tua punizione» avvalorò Berwald.
«Non c’è bisogno di infleggertene un’altra» placò Mathias.
«Hai il nostro perdono» lo rincuorò Lily.
«Ma vedi di rigare dritto» ringhiò Vash.
Gilbert sembrò sollevato quanto Roderich nell’udire quella dichiarazione di clemenza. Era certo che fosse dovuta più alla venerazione che i Gunsmith nutrivano per lui che alla sincera volontà di perdonare il colpevole, ma non aveva importanza.
L’Hellsing si grattò la nuca e domandò all’unica donna presente:
«Lily… hai ancora quella cosa che ti avevo lasciato?»
Lei annuì, e sparì dietro una tenda di colore rosa. I Gunsmith attesero in silenzio che la donna facesse ritorno; Roderich non articolò una parola, anche se la sua bocca si spalancò per la sorpresa.
Lily aprì la custodia dalla forma inconfondibile, e l’uomo ringraziò di essere già seduto, altrimenti le sue ginocchia sarebbero venute meno.
Le dita della mano sana tremarono visibilmente nell’accarezzare le corde e il legno dello strumento. Le sue forme erano ancora levigate, e le corde perfettamente tese: quella donna si era presa cura del suo violino come si conveniva.
«Dove lo hai trovato?» riuscì a buttare fuori, quando ottenne di nuovo il controllo delle parole.
«Dove lo avevi lasciato» Gilbert evitò di specificare che lo aveva trovato vicino al corpo di Elizabeta, dove l’Accordatore lo aveva fatto cadere quasi si trattasse di pattume.
Roderich accarezzò lo strumento con devozione, prima di sollevarlo dalla custodia imbottita. Lo girò delicatamente, ed ebbe conferma che si trattava proprio del suo violino; in caratteri arabescati, era stato inciso un titolo: “Il diamante della battaglia”.
«Cosa hai fatto, in tutti questi anni?» chiese Lily a Gilbert, cercando di distogliere l’attenzione generale dal musicista troppo commosso per parlare.
L’Hellsing prese fiato e coraggio prima di rispondere:
«Mi sono ripreso il pianeta, anche se adesso è solo una landa gelata. Ho creato il mio fratellino minore. Sono stato rinchiuso a Caina nove anni. E…» Gilbert esitò prima di aggiungere l’ultima parte. «Ho incontrato una persona.»
Roderich ingoiò le lacrime per prestare attenzione al racconto del suo figlio adottivo, e i Gunsmith si sistemarono a semicerchio intorno a lui.
«E questa persona dov’è, adesso?» lo spronò dolcemente Lily.
Una saetta di dolore trafisse il volto spavaldo dell’Hellsing, che annunciò:
«Non so dove sia.»
I presenti lessero nell’espressione contrita dell’uomo il significato sottinteso di quelle parole: la persona da lui amata era morta.
Prima che Lily o chiunque altro potesse provare a consolarlo in qualche modo, Gilbert sfoderò il suo ghigno più plateale e proclamò:
«Ma so cosa sta facendo. Mi aspetta. Non è ovvio? Quando gli ricapita di trovare una persona meravigliosa come me?» il suo sorriso assunse una sfumatura più seria mentre concludeva: «Mi aspetta sempre. E un giorno lo ritroverò. Ma prima… devo fare il mio mestiere.»
«Ma i demoni si sono estinti. Tu li hai fatti estinguere» gli ricordò Norge.
«Sono rimasti i peggiori: uomini con il cuore da diavolo» Gilbert fece scivolare appena la scimitarra fuori dal fodero, in modo che emettesse un sottilissimo stridio metallico. «Solo dopo averli estirpati potrò andare da lui.»
Il suo discorso sarebbe stato commovente, se solo non fosse stato troncato sul finale da un tremendo frastuono di fronte al portone.
«Oh, ho dimenticato di avvisarvi» si ricordò Gilbert. «Anche Antonio e la sua ciurma hanno bisogno di farsi dare una revisionata alle armi.»
Vash chiuse gli occhi per evitare di rotearli al cielo: avrebbero passato la notte in officina per sistemare l’equipaggiamento di tutta la Reina.
I Gunsmith si diressero velocemente all’entrata per accogliere i nuovi visitatori; solo Norge rimase, e si accostò all’Hellsing, bisbigliandogli:
«Quando attaccherete il Vaticano, avvisateci. Combatteremo insieme a voi.»
«Non siete guerrieri.»
«No, ma siamo armaioli. E credimi, Gilbert, quando sferrerete il vostro attacco, vorrete avere l’Elfo al vostro fianco.»
«L’Elfo?»
«È il nome in codice» Norge se ne andò senza ulteriori spiegazioni.
Gilbert scosse la testa: quel giovane con i capelli di platino era sempre stato enigmatico. Solo Mathias riusciva a strappargli qualche parola in più.
Si mise a sedere di fianco al padre adottivo, che esordì pacato:
«Non ho molto da raccontare di questi anni in cui siamo stati separati. Ma sembra che tu abbia molto da narrare, invece.»
Roderich si appoggiò il violino sulle gambe e lo invitò, con la riservatezza cortese che lo aveva sempre distinto.
«Ti ascolto.»
Gilbert nascose un sorriso dietro uno sbuffo irriverente. La gentilezza di suo padre, a distanza di tanto tempo, era talmente bella da far male.
«C’era questo ragazzo…» cominciò.
«Come si chiamava?»
«Matthew. O, almeno, io lo chiamavo così…»
E decenni di lontananza si srotolarono nel lunghissimo racconto di Gilbert.
***
Ivan fissò con odio l’angolo del corridoio.
L’Hellsing era sceso nella Fortezza Errante quella mattina, per avvisarli che si sarebbero fermati sul pianeta dei Gunsmith. Il Custode aveva accettato la cosa con un silenzio tombale: la sua mazza ferrata non aveva bisogno di essere revisionata, e lui non sentiva la mancanza dei suoi ospiti.
Gilbert gli aveva indirizzato un’occhiata critica, e aveva commentato:
«Non permetti mai a Yao di uscire?»
Gli occhi ametista si erano abbattuti sull’Hellsing, mentre il gigante tuonava:
«Non ha bisogno di uscire.»
Le sopracciglia argentate di Gilbert si erano curvate nel biasimo, mentre la bocca arrogante lo accusava:
«Sembra più un tuo prigioniero che un tuo ospite.»
«Non preoccuparti di cose che non ti competono, Hellsing.»
L’ammonimento di Ivan risuonò cupo tra le mura mobili della Fortezza, e Gilbert alzò le braccia in segno di resa.
«Come vuoi. Ricordati solo che i prigionieri, prima o poi, scappano. Io sono la prova vivente.»
Non sapeva cosa avesse spinto l’Hellsing a fargli quel discorso. Forse era convinto che tutti dovessero vivere un amore come il suo, fatto di libertà e fiducia. Non gli pareva che lo sterminatore avesse ottenuto un gran risultato: il suo amato era morto suicida.
Preferiva tenere Yao segregato anziché perderlo. Inoltre, aveva fiducia nell’Asean, ma non nel resto del mondo: ci sarebbe stato sicuramente qualcuno pronto a rubarglielo o a sporcarlo, là fuori. Non lo avrebbe permesso: Yao era il suo sole personale. Suo soltanto.
Come evocato dai suoi pensieri, il Figlio del Cielo emerse dalla sua camera, e lo chiamò:
«Ivan. C’è qualcosa che ti turba?»
Il Custode non aveva ancora capito come Yao riuscisse a indovinare le sue espressioni anche quando erano impaludate dalla sciarpa. Non rispose alla sua domanda: si avvicinò a lui e strinse quel corpo tanto più piccolo del suo con le braccia forti.
L’Asean rimase qualche istante fermo, prima di circondargli il collo con le braccia.
«Va tutto bene?» domandò, allarmato dal gelo insolitamente pungente che trapelava dal cappotto dell’uomo.
«Tra pochi giorni approderemo a Chugoku» gli ricordò Ivan. «Come ti fa sentire? Tornare a casa, intendo.»
Sentì le braccia di Yao scivolare lungo le sue finché le mani affusolate gli circondarono i gomiti.
«C’è una cosa che devo raccontarti, Ivan» ammise il Figlio del Cielo. «Voglio che tu sappia esattamente chi dovremo affrontare.»
Il Custode dei Cancelli gli fece cenno di proseguire. Il racconto di Yao cominciò così:
«C’è stato un ragazzo, un tempo, che consideravo come un figlio…»
***
Il signor Vargas tamburellò le dita sulla scrivania, indeciso.
Era orgoglioso di Feliciano, il suo figlio perfetto che a breve sarebbe diventato il perno della Confederazione. Tuttavia, non poteva ignorare le ansietà del precedente Asse riguardo al suo successore.
Fissò di nuovo il biglietto su cui il vecchio aveva scritto la sua proposta.
Gli occhi si appuntarono sulla frase terminale.
E se il suo potere potesse essere staccato dal corpo?
Capitoli precedenti:
Capitolo Uno: Uno Scettro in mezzo al Cielo Capitolo Due: Sangue sull’Argento Capitolo Tre: L’Auspicio Capitolo Quattro: Il Custode dei Cancelli Capitolo Cinque: Cuore d’Inverno Capitolo Sei: Prigione Caina Capitolo Sette: Hellsing Capitolo Otto: Belial Capitolo Nove: Il Confine del Mondo Capitolo Dieci: Hispaňa Capitolo Undici: L'Accordatore Capitolo Dodici: Il Mago dell’Ovest Successivo:
Le Mani del Diavolo