Titolo: Tsuki ha Miteiru - E la luna stava a guardare...
Fandom: Gintama
Personaggi: Gintoki Sakata/Shinsuke Takasugi
Rating: Rosso
Avvertimenti: Lemon; One-shot
L’argento era il colore predominante della stanza.
C’erano i suoi capelli, scompigliati dalle dita dell’amante; e c’era la luce lunare, che colava su ogni cosa come un velo liquido. Pareva riversarsi con particolare ingordigia sulla pelle scoperta di Takasugi, delineando ogni muscolo teso sotto di lui.
Gintoki coprì il compagno con il suo corpo, sottraendolo ai raggi lunari. Poteva vedere il suo amante in pochissime occasioni, e non era disposto a condividerlo con nessuno, nemmeno con l’astro notturno.
Takasugi lo fissò dal materasso, l’occhio verde screziato dai riflessi opalescenti della luna. Il criminale lo allontanò da sé con un sospiro rassegnato e lo rimproverò, con la sua voce bassa:
«Sei distratto, Gintoki. A cosa stai pensando?»
Il samurai fissò il compagno, incredulo. Ancora non si spiegava come Takasugi potesse distanziarsi e parlare tranquillamente durante il sesso. Evidentemente aveva un controllo migliore del suo della zona pelvica.
Gintoki grattò i riccioli argentati, piegando le labbra in uno sbuffo.
Poteva dirgli che era geloso di quella specie di chitarrista che si rivolgeva sempre a lui con esagerata confidenza - chiamandolo semplicemente per nome, senza neanche un suffisso -; e Takasugi lo avrebbe guardato come se fosse impazzito. Poteva dirgli che non gli piaceva nemmeno il mondo in cui la bionda lo corteggiava - Takasugi si sarebbe potuto accorgere che preferiva le morbidezze di una donna alle ruvidezze di un uomo -; e lui lo avrebbe fissato con pietà. Non voleva essere apostrofato dall’occhio implacabile del criminale, per cui temporeggiò:
«Non ero distratto…»
Takasugi impiegò meno di un secondo per recuperare la sua pipa, lasciata accanto al futon, e puntarla sotto il mento di Gintoki.
«Ricordati che hai la testa vuota. Se all’improvviso tenti di stiparla di pensieri, potresti esplodere.»
Il criminale portò lo sguardo sul capo del samurai, atterrato bruscamente sulla sua spalla. Mantenne la pipa in equilibrio tra due dita, con impeccabile eleganza, e notò:
«La tua testa vuota è troppo pesante per sostenerla con il collo?»
Le braccia del compagno gli strinsero la vita, e la bocca dell’uomo si schiuse sulla sua clavicola.
Gintoki aveva sognato tantissime volte di tornare ai tempi in cui erano insieme. C’era la guerra, ma c’era anche una persona sempre disposta a curare le sue ferite. La stessa persona che poi li aveva abbandonati, scegliendo un cammino di emarginazione.
Lo strinse più forte a sé, per sentire il cuore del compagno battere contro il suo.
Anche Katsura era diventato un terrorista, ma non era altrettanto preoccupato per lui: Zura riusciva sempre a trovare il modo di non essere solo. Takasugi, invece, era una persona dotata della rara capacità di isolarsi anche in mezzo a un oceano di persone. La cosa che lo faceva più soffrire, nella lontananza del compagno, non era l’abbandono sanguinoso che li aveva divisi: Gintoki si tormentava continuamente chiedendosi se Takasugi stesse soffrendo la solitudine. Era una persona di sentimenti profondi, anche se perennemente mascherati da un ghigno di superbia, e abbastanza orgoglioso da non permettere agli altri di aiutarlo. Ricordava ancora tutte le acrobazie che si era inventato ai tempi del Joui per soccorrerlo in modo che la fierezza del compagno potesse accettare il suo aiuto.
«Shinsuke.»
Il nome gli fuggì dalle labbra prima che riuscisse a trattenerlo. Takasugi non si irrigidì, né sembrò particolarmente contento di udire il suo nome.
«Erano anni che non mi chiamavi così» fu il suo commento atono, pronunciato con la pipa ancora in mano.
Gintoki gli afferrò il polso e condusse gentilmente la sua mano verso il pavimento, finché non sentì l’imboccatura di metallo appoggiarsi al suolo. Riportò la mano del compagno, libera da qualunque orpello, sul suo petto.
Non era semplice avere un criminale come amante: in tre secondi netti Gintoki si ritrovò improvvisamente steso di schiena sul futon, con il bacino stretto tra le cosce di Takasugi e il viso del compagno a pochi centimetri dal suo.
«Stai ancora pensando al passato?» il ghigno di chi sapeva di avere ragione solcò le labbra del ricercato.
«Non stavo pensando al passato. Pensavo a te» capitolò Gintoki, tentando di ignorare le nudità dell’uomo premute sul suo bacino.
La risata bassa di Takasugi scosse lievemente le spalle del criminale.
«Sei proprio stupido a pensare quando hai la persona in carne e ossa davanti a te» lo insultò, raffinato.
Gintoki strinse le mani sulle anche dell’amante, fissando le gambe e l’inguine a malapena celati dalle lenzuola scomposte.
La luna ritagliò una marea di riflessi argentati sui capelli scuri del suo compagno, e si incuneò nella conca lasciata dall’orbita vuota. Il samurai sfiorò quelle bende, memoria del giorno in cui aveva perso l’occhio.
Ricordava di aver passato giorni interi nell’ospedale del campo, al fianco del giovane, alleviando la lunga convalescenza con la sua presenza. Era stato con lui anche nelle settimane successive: parlando, scherzando e abbracciandolo.
Il passato gli mancava anche per quella distensione perduta: quando erano sotto la custodia del sensei, e perfino sotto le armi, avevano sempre trovato il tempo di chiacchierare o di sfidarsi. Avevano perso quella calma: dovevano vedersi di nascosto, assaggiarsi velocemente e separarsi, senza nessuna garanzia di vedersi di nuovo.
Takasugi premette il bacino sul suo, allacciandogli le braccia alle spalle.
Sempre con l’ansia di dover fare tutto in fretta perché lui sarebbe potuto sparire da un momento all’altro.
Gintoki riuscì a strappargli un ansito sottile quando gli sfiorò il collo con la lingua. I succhiotti erano banditi, almeno nei punti visibili: la loro relazione doveva rimanere segreta. Ma quella sera aveva voglia di infrangere le regole, anche se questo avrebbe scatenato la disapprovazione del compagno: schiuse le labbra a lato della gola, succhiando la pelle finché non si macchiò di rosso.
Takasugi portò una mano sul punto violato, quando Gintoki si allontanò. Chiuse l’occhio e scosse la testa, come se avesse a che fare con un bambino inspiegabilmente capriccioso.
Il criminale si avvicinò a lui con la sinuosità di un serpente, e aprì le labbra sul suo collo con estrema lentezza, in modo che Gintoki fosse consapevole di ogni minimo movimento. Ricambiò l’effrazione dell’amante, ma personalizzò il finale: il samurai trasalì quando i denti di Takasugi si strinsero sotto la sua mascella.
Il ghigno insondabile del ricercato si allargò quando Gintoki lo afferrò bruscamente, quasi volesse incidergli le dita nella carne. Il criminale sembrava divertirsi enormemente quando riusciva a fargli perdere il controllo. Gli era sempre piaciuto vedere come il compagno rispondesse puntualmente alle sue provocazioni; adorava avere il dominio della situazione.
Takasugi insinuò una mano nei capelli dell’uomo, solcando con le dita le ciocche ribelli. La luce della luna sembrava quasi sporca, in confronto all’argento della sua chioma.
Arcuò la bocca nel suo solito sorrisetto sghembo, sentendo l’impazienza del samurai crescere tra le sue gambe. Spinse le sue labbra su quelle del compagno, prima che questo lo attirasse sulla sua erezione.
Gli graffiò la schiena, con il preciso intento di lasciargli dei segni rossi per le giornate a venire, e gli morse le labbra prima di lasciarsi baciare di nuovo. Voleva che ci fosse qualcosa di visibile che ricordasse a Gintoki di quella e di tutte le altre notti che avevano condiviso, quando lui fosse stato lontano.
Gli sarebbe piaciuto vivere l’amante, e non limitarsi a qualche assaggio occasionale. Gli sarebbe piaciuto vedere se anche la mattina poteva essere argentata come la notte, se condivisa con il suo compagno. Ma aveva scelto la sua strada, tanto tempo prima. Era una strada troppo stretta e tortuosa per essere percorsa in due, e troppo ripida per voltarsi indietro: le vertigini lo avrebbero ucciso.
Doveva continuare ad andare avanti, anche se la solitudine rendeva più amara la nostalgia.
Gli circondò le spalle con le braccia e si accostò al suo orecchio per fargli risuonare ogni gemito direttamente nel timpano: sentì Gintoki fremere a ogni ansito, e aumentare l’intensità delle spinte.
Come sempre, il compagno era fin troppo prevedibile quando erano in intimità insieme.
Takasugi accolse i movimenti dell’amante, anche quando questi si fecero quasi violenti; le sue gambe tremarono nell’accogliere il compagno fino in fondo, e ghignò tra i gemiti nel sentire i denti dell’uomo torturargli l’orecchio. Era la rivincita di poco prima, per il segno del morso sul collo.
In risposta, Takasugi gli graffiò con forza le spalle e gli leccò le labbra, prima di farlo sussultare spingendosi su di lui.
Gintoki lo abbracciò, affondando il viso nel suo collo, e lo strinse spasmodicamente quando si rilasciò dentro di lui.
La luna li accarezzò mentre riprendevano fiato, il criminale adagiato sul samurai, le membra ancora sussultanti per l’amplesso.
Takasugi fu il primo a recuperare il suo contegno; dipinse sulle labbra e sugli occhi il solito ghigno, e annunciò:
«Il tempo per amoreggiare è finito.»
Si rialzò, a dispetto delle gambe tremanti e del coccige in fiamme, recuperò il suo kimono e cominciò a rivestirsi in silenzio. Gintoki non emise un fiato mentre Takasugi stringeva l’obi e si chinava con cautela per riappropriarsi della sua pipa.
«Alla prossima» lo salutò brevemente, avviandosi verso la porta.
Un fruscio di lenzuola, e le braccia dell’uomo improvvisamente gli cinsero il petto. La mano di Gintoki corse a prendere la sua, e la condusse a lato, in modo da stendere il braccio del compagno. Arrotolò la manica del kimono, e tracciò un percorso sensuale dal polso alla spalla morbida del criminale. Takasugi si voltò nel suo abbraccio, e si protese per catturare la lingua del suo amante in un bacio.
Due strade così diverse potevano incontrarsi solo per brevi crocicchi, annegati dalla luce della luna e mai baciate dai raggi del sole.
Il bacio si sciolse con un suono acquoso, e le sue braccia persero il calore di Takasugi.
«Alla prossima» sussurrò Gintoki, poco prima che la porta si chiudesse dietro il suo amante.
Avrebbe avuto qualche graffio e un marchio rosso sul collo a fargli compagnia fino al successivo incontro. E ricordi, una marea di ricordi. E il fantasma dell’assenza.
Ognuno di noi è libero di scegliere il proprio cammino, senza eccezioni.
Ma sarebbe così bello se due strade diverse potessero incontrarsi per un intervallo più lungo di un crocevia…