Titolo: Caleidoscopio
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: GerIta (LudwigxFeliciano), Spamano (AntonioxLovino); RoChu; PruCan; altri personaggi e altre coppie compariranno nei capitoli a seguire.
Rating: Arancione
Parte: 12/?
Avvertimenti: AU (Alternative Universe); Tematiche Delicate; Yaoi e Lemon (nei capitoli successivi)
Riassunto: L’equilibrio della Confederazione Siderale era garantito da tempi immemori dall’Asse, il primogenito della famiglia Vaticana Vargas; l’Asse era il cardine su cui ruotava tutto l’universo conosciuto.
Per questo quando nacquero i gemelli del signor Vargas vi fu grande timore: era risaputo che i gemelli erano uno spirito diviso in due corpi, e un ragazzo con lo spirito a metà non avrebbe mai potuto reggere il destino della Confederazione. E, per un bene maggiore, occorreva affrontare dei sacrifici: il più turbolento dei gemelli venne abbandonato a morire su un pianeta desertico.
Ma nessuno aveva considerato il legame profondo che incatenava i due fratelli.
Entrambi avrebbero fatto precipitare anche il cielo, pur di ricongiungersi con il consanguineo.
Dal dodicesimo capitolo: "Sono pronto a gettarmi nella fucina della guerra, affinché ci si possa incontrare ancora."
Note: I banner della storia sono opera di Calu-tan<3
Capitolo Dodici: il Mago dell’Ovest
Arthur si appoggiò alla poltrona come se le sue ossa fossero diventate d’acqua.
Carriedo aveva portato Lovino Belial, quella mattina, perché rispettasse gli accordi: aveva ricondotto alla sanità mentale tutti i marinai che si trovavano internati a causa sua. Poi, la notizia: Francis era stato giustiziato.
Arthur premette le dita sulle tempie, accigliato. Perché il Vaticano non gli aveva parlato di quell’esecuzione? Temeva che avrebbe fatto qualcosa per sabotarli?
Il Mago dell’Ovest strinse un pugno e lo abbatté sul bracciolo della poltrona.
Avevano sempre usato i suoi poteri ricattandolo con la salvezza della sua patria. E lo avevano ingannato, facendogli credere che il Marauder fosse ancora in vita.
Non poteva mettere in pericolo Britannia, ma poteva restituire il tradimento al Vaticano. Aiutando l’ultimo Carriedo, avrebbe fatto in qualche modo ammenda per l’eccidio del suo popolo.
Si diresse verso la cassaforte, nascosta dietro il quadro del Leone Incoronato. Vi passò sopra la mano in modo che le pietre incastonate riconoscessero la sua aura, e, quando la porta d’acciaio si schiuse, afferrò con cura l’unico monile lì conservato: un non ti scordar di me di cristallo, sottile come un fiocco di neve. Lo avvolse in un panno, badando di non incrinare nemmeno un petalo, e si preparò al successivo incantesimo. Pronunciò una litania secca, e si portò esattamente davanti allo specchio; allungò la mano verso il suo riflesso, che fece lo stesso. Strattonò le dita della creatura al di là dello specchio, e un secondo se stesso ruzzolò fuori dalla superficie riflettente.
«Che maniere!» si lamentò il secondo Arthur, rialzandosi stizzito.
«Non abbiamo tempo da perdere. Cambiati» lo spronò bruscamente l’originale, e gli indicò un paravento spartano in un angolo della camera. La sua copia si avviò fumando indignazione, e obiettò:
«Cos’è questa palandrana antidiluviana?»
«Una palandrana antidiluviana» confermò Arthur. «È l’unico indumento di Avalon che mi resta.»
«Un magnifico esemplare di muffa su tessuto» commentò l’altro, spostando il mantello grezzo con la punta del piede.
«Non è ammuffito» il Mago dell’Ovest gli gettò addosso una casacca e un paio di pantaloni. «Non puoi stare con l’uniforme da capitano.»
«Creerebbe confusione negli uomini?» la copia si tolse bruscamente i vestiti dalla testa e si nascose dietro il paravento per infilarseli.
«No. Ti renderebbe troppo riconoscibile. Stai per salpare con la Reina de la Oscuridad.»
Una testa color paglia sbucò dal paravento, inviperita.
«Come sarebbe a dire?»
«Non posso abbandonare Britannia, ma non sopporto di essere in debito con un pirata: andrai con lui e lo aiuterai a ritrovare il Marauder.»
La copia stava per reclamare, ma la sua bocca rimase aperta a metà.
«Il Marauder non può morire» recitò in un soffio.
«Oh, finalmente la condivisione di pensiero si sta completando» si complimentò Arthur. «Saresti stato un doppio molto scarso se fossi rimasto con la testa vuota.»
«Questo mi avrebbe reso solo più simile all’originale» replicò piccato l’altro, stringendo la cintura dei calzoni.
«Riconosco il mio sarcasmo spietato» notò il Mago dell’Ovest. «Sei una copia ben riuscita, se non altro.»
Il secondo Arthur uscì dal paravento, completamente vestito. L’originale approvò con un cenno del capo: gli abiti da boscaiolo nascondevano a dovere le loro somiglianze, e il largo cappuccio della palandrana di Avalon celava il viso identico a quello del Britanno.
«Vai» comandò Arthur, e gli porse il minuscolo orpello, ben fasciato nel panno soffice. «Non voglio che quel pirata avanzi altre pretese assurde, in futuro.»
La sua copia sollevò il cappuccio ombroso, e due occhi uguali ai suoi lo scandagliarono mentre l’altro lo accusava amaramente:
«La condivisione di pensieri si è completata. Non è per non avere un debito con il pirata che mi stai mandando» soppesò il fiore di cristallo e intonò: «“Mi riconoscerai in qualunque forma?”»
«Vai» tagliò corto Arthur. La sua copia non aggiunse altro, e lasciò la stanza.
Nelle menti di due maghi si affollarono le stesse memorie.
Il dolore e la dolcezza non furono dimezzati, anche se passarono per due cuori diversi.
***
Arthur aveva appena compiuto la maggiore età, a quell’epoca.
Merlino, suo nonno, lo prendeva in giro dicendo che gli erano cresciute solo le ossa, e non il resto: non aveva un grammo di carne su quelle membra rachitiche. Ma la sua gracile forma fisica non aveva compromesso i suoi poteri: accorrevano da tutta Faerie per acclamare i successi dell’ultimo rampollo degli Avalon. Era il gran cerimoniere nelle feste di paese, dove faceva comparire dal nulla suntuosi banchetti e strumenti musicali che suonavano da soli. La gente si divertiva, e Arthur rideva con loro.
Avrebbe dovuto essere così anche Beltaine.
Il nonno Merlino lo prese sulle gambe, e gli comunicò il loro progetto: erano convinti che esistessero altri mondi, oltre a Faerie, e avevano intenzione di inviare lui, Arthur, ad esplorarli. Sarebbe stato un enorme passo avanti per il loro mondo: avrebbero potuto studiare nuovi popoli, forse nuove razze, e avrebbero potuto intrattenere proficui scambi commerciali.
Arthur aveva accettato: essere il primo Avalon esploratore era un onore come non avrebbe mai sperato di riceverne. Avevano poi deciso il giorno della sua partenza: Beltaine, quando l’ultimo fuoco si fosse spento.
Avevano festeggiato e banchettato, come sempre: il Mago dell’Ovest ricordava ancora il calore del fuoco scoppiettante nei falò e quello del sidro giù per la gola, le musiche celtiche e le danze, il tappeto di fiori caduti dalle ghirlande con cui le giovani si erano addobbate i capelli e l’odore turbinante di dozzine di portate servite sullo stesso tavolo.
Merlino gli aveva drappeggiato quella vecchia palandrana addosso, cimelio del capostipite degli Avalon; l’unico decoro di quella mantella era il simbolo del melo, l’albero sacro per la loro famiglia, ricamato in oro all’interno del tessuto, in modo che non fosse visibile all’esterno.
Arthur aveva salutato tutti con un plateale gesto della mano, ed era saltato nel portale aperto per lui dal nonno.
Se avesse saputo cosa lo aspettava, non avrebbe mai intrapreso quel viaggio.
Si era trovato in un mondo folle e tenebroso, pieno di gente troppo indaffarata per parlare con il ragazzino straniero, un pianeta pieno di odori strani e pungenti, di rumori striduli e di cieli carichi di nuvole. Su Faerie non era così: il cielo non era mai sprovvisto di un raggio di sole, e sul volto della gente non mancava mai il sorriso.
Arthur girò per le strade per giorni e giorni, in cerca di una minima cosa che potesse piacergli in quel posto, ma non riusciva a trovare un solo dettaglio gradevole: gli pareva di vivere in un mondo soffocato da un manto di polvere. I cibi gli parevano insipidi se non disgustosi, i rumori troppo forti, gli odori troppo penetranti, la gente troppo gretta e il cielo troppo triste.
Estrasse dunque dalla tasca la verga che il nonno gli aveva dato, e la spezzò come era stato istruito. Non c’era nulla che quel pianeta potesse insegnare o offrire a Faerie.
Ma le estremità della verga rimasero immobili nelle sue mani: niente fumo, niente scintille. Niente casa.
In quel giorno, gli Avalon scoprirono che si poteva approdare in un mondo parallelo, ma non si poteva fare ritorno.
***
Lo incontrò cinquant’anni dopo, quando si era abituato a quel mondo come ci si abitua al dolore di un dente guasto.
La sua divisa sfarzosa fendeva l’aria grigia come un faro, con il blu intenso della giacca di sartoria e il rosso infuocato dei pantaloni alla zuava. Procedeva con un’andatura indolente ed elegante, come se non volesse affaticare gli stivali scuri. Esaminava lentamente il mondo con gli astuti occhi azzurri, e un accenno di sorriso aleggiava sulle sue labbra. Di tanto in tanto portava dietro le orecchie i capelli biondi, lievemente ondulati, e accarezzava la barba curata.
Arthur non si sentì intimorito quando quelle iridi furbe si posarono su di lui.
Agli occhi dell’umano, doveva apparire come un normale ragazzo prossimo a uscire dall’adolescenza. Aveva scoperto, tempo addietro, che i suoi ritmi di crescita erano molto diversi rispetto a quelli degli abitanti di quel mondo: occorrevano tre generazioni umane perché il suo viso apparisse invecchiato di un paio di anni. Era stato costretto a trasferirsi ogni volta in cui la sua età immobile avrebbe potuto tradire le sue origini aliene.
«Non sei di qui, vero, ragazzo?» domandò l’uomo, con un accento arrotondato.
«No signore» confermò neutro Arthur. «Abito qui solo da qualche anno.»
Lo sconosciuto puntò una mano sul muro alle sue spalle, e insinuò con un ghigno malizioso:
«E da quanto hai abbandonato il tuo mondo?»
Rise dello sguardo spinoso che gli lanciarono quegli occhi verdi, e si pizzicò la barba bionda mentre lo rassicurava:
«Non agitarti, piccolo. Sono un Marauder: sono abituato a vedere cose che gli altri non vedono. In particolare, sono bravo a riconoscere le creature che non sono di questo mondo.»
Il viso dell’uomo si avvicinò al suo a tal punto che Arthur lo respinse schiaffandogli una mano in faccia.
«Non sei di questo mondo, ma sei troppo materiale per essere un fantasma» lo sconosciuto si allontanò sorridendo. «Sei un alieno?»
«Bada ai tuoi affari» replicò secco lui, voltandosi.
«Oh, posso anche farlo» l’uomo gli appoggiò una mano sulla spalla, che il giovane si scrollò di dosso bruscamente. «Ma dopo tu rimarresti da solo. Di nuovo» c’era il veleno di chi sa di pungolare un tasto dolente nelle sue parole. «Non credo che molte persone ti abbiano rivolto la parola, negli ultimi cinquant’anni.»
Prima che il ragazzo potesse chiedergli come faceva a sapere che era lì da cinque decadi, l’uomo stese il braccio con gesto teatrale e indicò l’acciottolato.
«In fondo a questa strada c’è un albero di melo. Mi troverai lì nei prossimi giorni. Nel caso avessi voglia di parlare con qualcuno. Sempre che la tua lingua non si sia atrofizzata, in tutto questo tempo» aggiunse, con un ghigno che il giovane trovò semplicemente insopportabile.
«Puoi anche mummificarti, sotto quell’albero di mele» tranciò la conversazione Arthur, voltandogli le spalle.
L’uomo lo osservò placido mentre spariva lungo la strada. Voltò il viso come se stesse parlando con una persona alle sue spalle e mormorò, raffinato:
«Lo so, Jeanne. Verrà. Nemmeno un alieno è fatto per vivere da solo per sempre.»
Parte Due