Titolo: Caleidoscopio
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: GerIta (LudwigxFeliciano), Spamano (AntonioxLovino); altri personaggi e alter coppie compariranno nei capitoli a seguire.
Rating: Arancione
Parte: 5/?
Avvertimenti: AU (Alternative Universe); Tematiche Delicate; Yaoi e Lemon (nei capitoli successivi)
Riassunto: L’equilibrio della Confederazione Siderale era garantito da tempi immemori dall’Asse, il primogenito della famiglia Vaticana Vargas; l’Asse era il cardine su cui ruotava tutto l’universo conosciuto.
Per questo quando nacquero i gemelli del signor Vargas vi fu grande timore: era risaputo che i gemelli erano uno spirito diviso in due corpi, e un ragazzo con lo spirito a metà non avrebbe mai potuto reggere il destino della Confederazione. E, per un bene maggiore, occorreva affrontare dei sacrifici: il più turbolento dei gemelli venne abbandonato a morire su un pianeta desertico.
Ma nessuno aveva considerato il legame profondo che incatenava i due fratelli.
Entrambi avrebbero fatto precipitare anche il cielo, pur di ricongiungersi con il consanguineo.
Dal quarto capitolo: “Si chiedeva se il sole del Figlio del Cielo sarebbe riuscito a sciogliere il ghiaccio che lo opprimeva, o se sarebbe stato il suo gelo a spegnere il fuoco dell’Asean.”
Note: I banner della storia sono opera di Calu-tan<3
Capitolo Cinque: Cuore d’Inverno
Era nato il giorno più freddo del mese più gelido sul pianeta più artico.
Del suo pianeta natale ricordava lo spesso tappeto di neve e il pungente mantello dell’inverno perenne. Ivan Braginski aveva visto la luce su Siberia, uno dei mondi all’estrema periferia della Confederazione, quindi uno dei più lontani dalla calda luce del Palazzo di Quarzo.
Aveva trascorso l’infanzia lavorando nelle steppe di ghiaccio assieme alle due sorelle. Avrebbe dimenticato quel periodo, se non fosse stato per i calli scolpiti dal lavoro sulle sue dita. Avrebbe scordato anche le sorelle, se non gli avessero regalato la sciarpa che ancora gli riscaldava il collo. La maggiore l’aveva sferruzzata, e la minore l’aveva ricamata con un motivo a forma di cristalli di neve.
Tuttavia, ad eccezione dei rari ricordi che spuntavano fragili come i primi bucaneve dalla coltre dicembrina, il suo passato era un lago ghiacciato: freddo e cupo, senza possibilità di scorgerne il fondo.
L’ultima memoria che conservava della sua famiglia, era il nonno che si chinava su di lui, porgendogli una mazza ferrata grande quattro volte il nipote ormai adolescente. Rammentava la mano ruvida che gli premeva uno strano marchingegno sul petto, e le ultime parole del nonno: “Diventa di ghiaccio, Ivan. E uccidi il tuo passato”.
Poi la puntura di mille aghi che si infiggevano nel suo cuore, e subito dopo un gelo doloroso gli aveva azzannato il petto con la brutalità di un orso delle montagne; aveva sentito il muscolo cedere, spaccarsi in un diluvio di sangue, e lo aveva sentito battere qualche secondo dopo, ottenebrato dal gelo incastrato nel suo petto.
Era caduto in ginocchio, le mani tremanti appoggiate sulla mazza ferrata. Aveva stretto le dita sull’impugnatura e, con una forza che non sapeva di possedere, l’aveva fatta roteare sulla testa.
Poi, solo una sensazione viscosa sulle dita. Tra le onde scure del lago che era la sua memoria, alcune erano sporcate di rosso. Aveva ucciso qualcuno, quel giorno. Era una sensazione indelebile nella sua anima, anche se non ricordava chi. Ma non aveva più visto né il nonno e né le sorelle da allora.
Era salito sulla Fortezza Errante e aveva cominciato il suo viaggio come Custode dei Cancelli. Forse glielo aveva detto il nonno, forse era predestinato a quella carica, ma, anche se non ricordava chi gli avesse dato il permesso di salire su quel palazzo sbuffante, sapeva di essere nel giusto. Conosceva l’esatta ubicazione delle stanze, anche se nessuno gliela aveva mai spiegata. E sapeva di essere solo. Non si era sorpreso dell’eco tombale dei suoi passi su quelle pareti di metallo in movimento. Si era recato in bagno e lì aveva aperto il cappotto, orrendamente macchiato di sangue. E lo aveva visto. Immobile, aggrappato al suo petto come un ragno di zaffiro e ferro, il misterioso marchingegno spandeva le sue zampette metalliche sulle sue costole, facendo riposare il suo ventre di vetro sullo sterno del giovane. Ivan aveva fissato quella pietra luminescente e l’aveva sfiorata, ritraendo le dita subito dopo: era così gelata da far male, e aveva sentito scorrere sotto i suoi polpastrelli l’ululato del vento di Siberia.
Aveva battuto le palpebre, perplesso, e si era stupito del colore dei suoi occhi. Fino a quella mattina erano azzurri, eredità e vanto della famiglia Braginski. Ma quelle che lo fissavano immote erano due iridi violacee come le punte terminali dell’aurora boreale.
Ivan aveva lavato velocemente il cappotto e, con molta più cura, la sciarpa: riusciva ancora a vedere le dita delle sorelle graffiate dal lungo lavoro di cucito e i loro volti incavati dalla gioia, ed erano l’unico barlume di calore in quella fortezza fredda come il cristallo sul suo cuore.
Si era gettato sulle spalle il cappotto ancora bagnato, e si era avvolto il viso con la sciarpa per poi accomodarsi su una strana poltrona frutto del lavoro di un ingegnere e non di un arredatore.
Aveva squadrato il soffitto alto, le finestre in movimento, la porta chiusa e il camino spento.
Non c’erano voci a riempire la stanza, non c’era nessuno da salutare dalla balaustra, e non vi era essere che potesse aprire la porta e chiedergli se era triste.
Si era rintanato nei suoi stessi vestiti, fissando il camino che non si sarebbe acceso da solo.
«Fa freddo…» si era lamentato.
***
Lo vide durante il suo terzo mese di viaggio.
Aveva smesso di chiedersi perché certe azioni gli venissero spontanee, o perché avesse sempre freddo nonostante il vestiario pesante, o, ancora, perché ogni giorno fosse sempre più difficile ricordare i volti dei suoi familiari.
Il ragno che succhiava avido il tepore dal suo corpo aveva tutte le risposte, ma non le avrebbe condivise con lui.
Dopo qualche settimana, Ivan si era stancato di quello stillicidio: il marchingegno non avrebbe parlato, e nessuno poteva fornirgli le risposte che cercava. Con il passare dei giorni, era diventato sempre più accondiscendente verso gli impulsi che improvvisamente muovevano il suo corpo e sempre più distaccato nei confronti del mondo esterno. Perfino i banditi che uccideva per impedire di portare scompiglio nella Confederazione non gli apparivano più come esseri umani. Ai suoi occhi, erano solo bambole incapaci di scalfirlo: non provava il minimo rimorso o pietà quando calava la mazza ferrata su di loro. Al contrario, avvertiva una punta di soddisfazione, perché il marchingegno sapeva che quello era il suo compito, per il bene della Confederazione.
Accadde il giorno in cui i serbatoi della fortezza si svuotarono completamente, e costrinsero Ivan a fare scalo a Chugoku, il pianeta dominante del Sistema Asean. Era un mondo piuttosto florido, grazie all’ottimo clima e alle abbondanti risorse naturali, per cui non sarebbe stato un problema trovare del carburante.
Manovrò la Fortezza in modo da attraccare a Beijin, la capitale, dove sicuramente avrebbe trovato più fornitori.
Il destino, o semplicemente la casualità, volle che in quell’esatto momento per la via principale sfilasse la processione imperiale. Ivan non aveva mai visto nulla di simile, quindi non capì perché la gente si fosse improvvisamente divisa ai due lati della strada, o per quale motivo tutti i negozianti si fossero precipitati sui marciapiedi già gremiti, ritardando la sua partenza: non poteva chiedere rifornimenti a un negozio vuoto.
Si abbassò dunque su un nativo e gli domandò cosa stesse succedendo. La sua notevole altezza e l’imponente mazza ferrata appoggiata sulla sua spalla sciolsero la lingua dell’uomo a una velocità pazzesca.
«Il Figlio del Cielo scende a fare visita alla città, signore. Accade solo una volta all’anno» farfugliò l’Asean.
Ivan tamburellò le dita sull’impugnatura della mazza, contrariato. Il marchingegno sapeva che il Figlio del Cielo rappresentava per il Sistema Asean ciò che l’Asse era per la Confederazione: il portatore di equilibrio, nonché la persona più dotata in quanto a magia. Tuttavia, l’Asse si limitava a pregare e vivere da eremita, mentre il Figlio del Cielo svolgeva anche le funzioni di un regnante, occupandosi del suo popolo e del suo impero.
I suoi occhi viola si dirottarono verso la volta celeste. Non era del tutto impari: in fondo, il Figlio del Cielo doveva occuparsi di una rete di pianeti, mentre l’Asse era responsabile dell’intera Confederazione. Era giusto che il primo svolgesse qualche altro ruolo.
Riappoggiò le sue iridi ametista sulla strada quando avvertì la gente inchinarsi in tutta fretta come se la testa fosse diventata un peso troppo grande da sostenere.
Il ragno sul suo petto inviò una seconda informazione al suo cervello: il Figlio del Cielo era considerato il Sole del Sistema Asean e, allo stesso modo con cui un uomo non poteva fissare l’astro diurno a occhi nudi, così ai civili non era concesso ammirare il volto del Figlio del Cielo. Ma lui non era atterrato a Chugoku per inchinarsi: era venuto solo per ottenere benzina, e non aveva intenzione di umiliarsi per un regnante straniero.
Fu così che vide da una prospettiva agevolata la portantina di legno di ciliegio rosso avanzare maestosa lungo la via. Man mano che la processione avanzava, i dettagli della parata diventavano sempre più nitidi: i draghi scarlatti che si attorcigliavano in ricami preziosi sulle tuniche dei ragazzi che reggevano sulle spalle il peso esiguo del sovrano; le insegne militari sulla divisa del Samurai che marciava a lato della portantina, e l’occhio di rubino incastonato sull’estremità dell’elsa della sua spada; i fiori amaranto sparsi sui cuscini vermigli che costituivano il giaciglio del sovrano.
Poi, Ivan aveva alzato lo sguardo sull’uomo colpevole del suo ritardo. Aveva immaginato un vecchio saggio ricurvo e nodoso, piegato dagli anni e deformato dal tempo. Invece la realtà gli aveva regalato un viso privo di rughe, appartenente a un ragazzo della sua stessa età. Un giovane estremamente bello, sebbene non avesse metri di paragone attendibili a causa della sua memoria inesistente.
La stoffa rossa dell’elaborata veste imperiale sembrava nata per fasciare quel corpo minuto, le cui forme erano distinguibili a malapena nel mare di tessuto vermiglio, e per arrampicarsi sulla gola snella nella forma rigida dei vestiti cerimoniali di Asean. Perfino quel buffo copricapo, che avrebbe ridicolizzato qualunque altra persona, non riusciva a sminuire il viso ben modellato del Figlio del Cielo. Ma non era solo la bellezza delle forme a incantarlo: il sovrano era permeato da un’aura ancestrale, come se migliaia di anni di storia giudicassero il presente guardandolo attraverso quegli occhi scuri. Di nuovo, il marchingegno lo soccorse: il corpo del regnante aveva più o meno la sua stessa età, ma la sua anima era millenaria. Quando il futuro sovrano nasceva, nel suo corpo veniva impiantata la cosiddetta “anima generazionale”, costituita dai ricordi dei precedenti Figli del Cielo, in modo che il fanciullo possedesse una saggezza e una padronanza dei sistemi di governo ineccepibile nonostante la giovane età. Avrebbe potuto raccontare avvenimenti di secoli addietro vedendoli scorrere davanti ai propri occhi. L’esatto opposto di lui, che faticava a ricordare il nome delle sorelle.
Non prestò attenzione al primo richiamo delle guardie, e nemmeno al secondo, finché non furono tanto rumorose da destare lo sconcerto del Figlio del Cielo. I loro sguardi si incrociarono a metà di quella strada affollata, e, per un attimo, Ivan non sentì freddo.
Avvertì in lontananza una guardia che gli intimava di inchinarsi, e vide il Samurai poggiare la mano sull’elsa della spada, ma un gesto del Figlio del Cielo bloccò tutti. Un secondo cenno convinse la processione a proseguire, nonostante l’enorme Siberiano che svettava in mezzo alla calca prostrata.
Rimase immobile finché la portantina non fu sparita, e anche dopo, mentre la gente tornava alle proprie mansioni.
Un’altra informazione gli fu concessa dal ragno.
Il Figlio del Cielo era nato sotto la benedizione del Fuoco. Ecco perché, per un momento, non aveva sofferto il gelo.
***
Marchiato nella mente dalle fiamme che avevano segnato la sua nascita, il viso del Figlio del Cielo non scompariva.
I mentecatti che era costretto a polverizzare non resistevano al potere dell’oblio del ragno, ma il volto di quell’Asean era intagliato nella sua mente.
Avrebbe voluto rivedere quell’orientale, avrebbe voluto parlare con lui. Avrebbe voluto qualcuno con cui condividere la solitudine estrema di quella fortezza in perenne movimento. Avrebbe voluto capire cosa si provava a essere dominati dalle fiamme e non dal ghiaccio, ad avere una memoria millenaria e non dei fossili sbiaditi di ricordi. Ma sapeva anche che quel desiderio non poteva diventare realtà: il Figlio del Cielo era vincolato al suo mondo, mentre lui doveva sopportare una vita senza legami.
Si rassegnò quindi a pensare all’Asean nei suoi momenti liberi, immaginando come sarebbe stato passare del tempo con lui. Fino alla sera in cui il cielo fece cadere suo figlio.
Era passato circa un anno dal loro primo incontro a Beijin. Ivan stava manovrando la fortezza in modo da uscire dal Sistema Asean senza urtare la costellazione di asteroidi dell’arcipelago Nihon, quando all’improvviso il sensore della sala macchine lanciò il suo allarme: un corpo estraneo stava per entrare in collisione con il palazzo.
Ivan attivò il sistema di telecamere piazzato sul tetto, e lo puntò in direzione della fonte del movimento. Lo schermo fu invaso da un fascio di luce così violento da accecarlo per qualche istante. Quando finalmente le sue pupille incendiate si furono abituate a quella luminescenza esagerata, riuscì a scorgere qualcosa: immerso in un vortice di fiamme ruggenti, una persona teneva le braccia spalancate come una fenice in volo.
Lo avrebbe schivato se, in quel momento, lo sconosciuto non avesse alzato il volto, quello stesso volto che lo aveva accompagnato durante tanti pomeriggi di solitudine. Aveva quindi virato in modo che la fortezza divenisse lo scomodo materasso di atterraggio del giovane.
Ivan si affrettò a raggiungere il lato destro del palazzo, cui il regnante si era aggrappato dopo un impatto brutale. Le fiamme irradiate dal suo corpo frustavano furiosamente l’aria, gonfiate dal vento dell’atmosfera artificiale e dallo spavento del Figlio del Cielo. Il Custode dei Cancelli quasi sfondò la finestra per sporsi fuori e porgere la mano al ragazzo. L’Asean allungò le dita tremanti verso di lui, e Ivan sentì quelle membra affusolate scricchiolare nella sua presa mentre lo attirava a sé. Gli bastò un braccio solo per trascinare quel giovane dal fisico di seta all’intero della fortezza e a chiudere la finestra.
Gli occhi di ebano del sovrano, ancora frementi per il terrore, cercarono i suoi e un ringraziamento vibrò in quelle iridi sfinite prima che il Figlio del Cielo perdesse i sensi tra le sue braccia.
Ivan non ebbe alcuna difficoltà nel trasportare il peso irrisorio dell’Asean nella stanza padronale, e lo adagiò sul letto.
Il fisico del giovane appariva magro e delicato perfino quando era affogato nelle ali pompose dell’abito cerimoniale; la semplice tunica bianca non possedeva strati di seta con cui dissimulare la finezza degli arti, e i pantaloni largi non erano lunghi abbastanza per nascondere la caviglia, sottile come quella di una donna. Alcune ciocche mogano erano evase dal nastro di seta durante la fuga precipitosa, ed erano svenute in un groviglio disordinato sulla pelle eburnea. I ciuffi sparsi non erano l’unico dettaglio fuori posto nel vestiario del giovane: gli squarci sulla pelle e sulla tunica del regnante rivelavano il trascorso di un’aspra lotta, aggravato da una selva di orribili ecchimosi.
Dai bordi martoriati della divisa trapelò una luce calda, dello stesso colore delle stoffe imperiali. Ivan scostò appena i lembi dell’apertura sul tessuto con le dita guantate, e la stoffa lacerata gli rivelò la fonte di quel bagliore: nel petto del giovane ardeva una sorta di piccolo sole. Dallo sterno era visibile una forma vagamente sferica dal cuore incandescente, come se un astro di fuoco avesse trovato il suo centro gravitazionale tra le costole del giovane.
Il Custode dei Cancelli portò istintivamente una mano al suo petto, e sfiorò il profilo duro del metallo. Erano opposti in moltissime cose, loro due: nella memoria infinita contrapposta ai ricordi di cenere, nel potere del fuoco che trovava il suo avversario nella forza del ghiaccio, in un bulbo artificiale che divampava dentro il petto dell’Asean e in un marchingegno meccanico che pasteggiava sullo sterno del Siberiano.
Non poté trattenere la curiosità e sfiorò quel fuoco sotto pelle: un calore piacevole gli riscaldò i guanti e, per conseguenza, le mani. Era un fuoco che bruciava senza scottare.
Ritirò la mano, che divenne gelida l’istante successivo, e rimosse il guanto per poter sfiorare la guancia liscia dell’Asean. Le palpebre del giovane sussultarono per il freddo improvviso, e il Figlio del Cielo si rannicchiò sul fianco in cerca di calore.
Ivan continuò a sfiorarlo piano sul viso, sebbene le sue carezze facessero agitare il giovane nel suo sonno tormentato.
Si chiedeva se il sole del Figlio del Cielo sarebbe riuscito a sciogliere il ghiaccio che lo opprimeva, o se sarebbe stato il suo gelo a spegnere il fuoco dell’Asean.
***
«Ti ringrazio per avermi salvato, Ivan Braginski.»
Il Custode dei Cancelli si sorprese internamente delle prime parole del Figlio del Cielo. Credeva che si sarebbe spaventato, trovandosi all’improvviso in un posto estraneo; al contrario, l’Asean si era seduto composto sul materasso e gli aveva offerto i suoi ringraziamenti formali. Poi si ricordò della memoria ancestrale del giovane: anche se il suo corpo non aveva mai messo piede in quella fortezza, i suoi antenati lo avevano fatto. Per quel motivo il ragazzo non si era spaventato.
«Come sai il mio nome?» lo interrogò Ivan.
«Sei uno dei Tre Scudi, come me e l’Asse. È normale che io sappia il tuo nome» replicò educato l’Asean.
Yao Wang. Il suggerimento del ragno giunse repentino e perentorio; anche loro erano a conoscenza del nome del Figlio del Cielo.
Ivan si sedette sul bordo del letto e si prese qualche secondo prima di porre la successiva domanda. Le luci dello spazio disegnarono un reticolato di riflessi iridescenti sulla chioma scura del giovane, e bagnarono di luce argentea il profilo alto degli zigomi. Era stato solo così a lungo che ogni cosa, in quel ragazzo, gli appariva esotica e misteriosa, perfino il sottile profumo di spezie che emanavano i suoi vestiti, totalmente diverso dall’odore ferroso della fortezza.
«Cosa è successo, ieri notte?»
La bocca di Yao si contrasse per un attimo, e le ciglia tremarono; tuttavia, la voce risuonò neutra quando parlò:
«Sono stato tradito e il mio trono è stato usurpato.»
L’Asean alzò su di lui gli occhi taglienti come le scimitarre prodotte nel suo paese.
«Non posso riprendere il mio posto da solo. Saresti disposto ad aiutarmi?»
Ivan sollevò la sciarpa per coprirsi fino al naso. Non riusciva a capire del tutto quell’orientale: gli sembrava troppo composto, troppo altero… troppo freddo, per essere una persona con il fuoco nelle vene.
«Perché lo chiedi a me?»
«Perché sei l’unico essere umano presente in questo posto. E perché so quanto siano straordinarie le tue abilità in combattimento.»
«Vuoi scatenare una guerra?»
«Solo l’omicidio del mio usurpatore e del traditore. E di chiunque si metterà sulla mia strada.»
Troppo rigido. Troppo gelido per essere davvero l’erede del sole.
Il Custode dei Cancelli lasciò intercorrere qualche secondo tra quella proposta e la sua controfferta.
«Dovrai rimanere qui, fino all’omicidio. Senza uscire.»
Yao accettò con un cenno del capo, che fece scivolare i capelli lucidi sul petto.
«E dovrai toglierti quella maschera.»
«Quale maschera?»
«Come è possibile che il fuoco sia così quieto?»
L’Asean sbarrò i suoi occhi a mandorla, portando una mano a scudo del petto. Le dita gli trasmisero la sensazione della stoffa sbrindellata, e realizzò in un istante come il Custode dei Cancelli avesse potuto vedere cosa avvampava nel suo sterno.
«Questa non è una maschera» asserì Yao, con un ghigno furbo sulle labbra pallide. «È una protezione. Dovrai convincermi a toglierla, se vuoi vedere cosa si nasconde sotto di essa.»
Ivan accettò il rilancio dell’Asean, e risistemò la sciarpa attorno al viso.
Aveva tutto il tempo necessario per scardinare gli scudi del giovane.
***
Nella Fortezza Errante, il tempo scorreva più denso rispetto al resto della Confederazione.
Non avrebbe saputo contare le settimane e i mesi che avevano passato da soli nel palazzo, ma i ricordi di quel periodo erano incredibilmente vividi nella sua mente. Rispetto al solito, perlomeno.
Aveva reminescenze del giorno in cui avevano comprato dei vestiti di ricambio per Yao, e dello stesso pomeriggio in cui l’Asean aveva cercato di cucirli secondo la moda del suo paese di origine. Riusciva ancora a raschiare dalla memoria il momento in cui Yao si era punto con l’ago per l’ennesima volta, e aveva cominciato a imprecare nella sua lingua madre.
L’orientale non lo aiutava mai, quando Ivan usciva per punire i criminali. L’Asean aveva insistito, adducendo l’utilità dei suoi poteri di fuoco, ma il Custode era stato categorico, e non gli aveva mai permesso di mettere piede fuori dal palazzo. Yao era l’unica persona che avesse incontrato negli ultimi anni, e non aveva intenzione di condividerlo con nessuno. Non voleva che quei malfattori potessero anche solo poggiare gli occhi su di lui: lo avrebbero sporcato. E lui aveva desiderato quel bellissimo giovane per troppo tempo per permettere a un criminale qualunque di infangarlo.
Inoltre, l’orientale pareva essersi abituato alla sua ingombrante presenza. Yao si adattava alle sue regole, e non aveva mai avanzato pretese esagerate: accettava tutto con un garbo regale che Ivan talvolta ammirava e talvolta detestava.
Rispetto ai primi giorni, il Siberiano riusciva a discernere tra il costume da Figlio del Cielo e la naturalezza di Yao. Non era sempre facile distinguere le due facce dell’orientale: alcune volte la differenza stava in una curvatura più spontanea delle labbra, o in un gesto di scherno della mano.
La parte più contorta di lui avrebbe voluto vedere un pizzico di sconvolgimento su quel volto elegante, come la sera in cui lo aveva salvato: il ricordo del panico che guizzava negli occhi e nelle membra del giovane era terribile e nostalgico al contempo. Non pretendeva un’emozione così violenta, ma avrebbe voluto vedere Yao perdere la sua compostezza aristocratica.
Forse fu per soddisfare quella sua brama che, una sera, aveva fatto la confessione più strana che si fosse mai udita in tutta la Confederazione.
Entrò nella stanza dell’orientale quando quest’ultimo aveva appena finito di cambiarsi per la notte: la camicia che gli aveva prestato il Custode scendeva in pieghe sconnesse attorno al suo corpo troppo esile, e i capelli scuri, lasciati liberi di ricadere sul petto, si intrecciavano ai bottoni di madreperla.
«Di cosa hai bisogno?» si sorprese l’Asean, pettinando la chioma su una spalla.
Yao si sedette sul letto lasciando spazio accanto a sé, immaginando che l’uomo avrebbe voluto accomodarsi a sua volta sul materasso. A dispetto delle sue previsioni, Ivan si inginocchiò a terra, esattamente di fronte a lui.
Il Custode si sporse nella sua direzione e gli cinse la vita sottile con le braccia, poggiando il viso sull’unica fonte di calore di tutta la fortezza, il petto dell’orientale. L’Asean si irrigidì quando le sue gambe furono costrette ad aprirsi per accogliere il torace massiccio dell’uomo, premuto sul suo bacino.
Ivan sentì il cuore del sovrano agitarsi come i fusibili del castello quando si surriscaldavano, e sussurrò su quel cuore ribollente le sue parole artiche:
«Ho ucciso.»
Un sospiro ingorgò il petto dell’orientale, e venne rilasciato nel momento in cui le dita del giovane sfiorarono i capelli di brina del Siberiano.
«Quante volte hai ucciso?» domandò calmo Yao.
Ivan strinse più forte la presa sulla schiena filiforme del Figlio del Cielo, fino a fargli male. L’orientale strinse i denti, mordendo un singulto di dolore. Senza ricordi e senza legami, l’uomo ancorato al suo ventre era al livello emotivo di un bambino: una possessività totale, con cui gli impediva di lasciare la fortezza anche solo per un istante, e un’empatia in stato embrionale. Ivan non riusciva ancora a capire quale fosse il limite oltre il quale l’altro provava dolore.
Yao immerse una mano nella chioma color paglia dell’uomo, e con l’altra accarezzò piano la sua schiena colossale: come un bambino, quell’omone aveva bisogno di essere rincuorato.
«Non me lo ricordo. Forse ho ucciso anche i miei familiari.»
Le parole franarono come una slavina su di loro. Le dita di Yao si immobilizzarono per un attimo prima di ricominciare a vezzeggiare la zazzera e il pesante cappotto dell’uomo.
«Non ricordi nemmeno questo?» flautò delicato.
«Ricordo solo che le mie sorelle mi hanno regalato questa sciarpa. E che mio nonno è stato l’ultima persona con cui ho parlato. Il resto è come questa fortezza. Vuoto.»
Yao scostò la mano dalla sua schiena per sistemare un ciuffo di capelli lucenti dietro l’orecchio, e confidò:
«La prima volta che ti ho visto, durante la processione, mi sono stupito di molte cose. E una di queste è stata che, mentre sul tuo cappotto erano chiaramente visibili i segni dei tuoi scontri, la tua sciarpa era in perfette condizioni. E anche adesso, è la prima cosa che lavi non appena rientri nella fortezza» il dorso della mano di Yao scese a lambirgli una guancia, mentre le parole gli accarezzavano la testa: «Anche se non hai ricordi, tieni a quel regalo sopra ogni altra cosa. Forse, anche se la tua mente l’ha rimosso, da qualche parte sai di aver avuto una buona famiglia. Per questo fai in modo di non sporcare mai la sciarpa: per non lordare anche la loro memoria.»
Un paio di occhi ametista lo fissarono dalle pieghe della camicia.
«Non ricordo nemmeno le loro facce» lo contraddisse Ivan.
«E allora perché non butti questa sciarpa?»
Ivan lanciò un’occhiata alla lana che si srotolava lungo la sua spalla. Quella striscia color crema era l’unica cosa che lo collegava al suo passato: ogni volta che la sfiorava, il ghiaccio sul suo cuore si scioglieva per un istante, ricordandogli la gioia del giorno in cui l’aveva ricevuta. Poi, tutto tornava arido e gelido. La sciarpa era l’unica cosa che gli ricordasse che anche lui, un tempo, era stato umano.
«Tu sai perché non riesco a ricordare nulla?» indagò Ivan.
Yao fece per scostarsi, ma l’uomo strinse ostinatamente la presa sulla sua vita di giunco. Si rassegnò quindi a restare nell’abbraccio del gigante mentre narrava:
«So che il Custode dei Cancelli deve essere una macchina da guerra, e, per esserlo, deve disfarsi di ogni suppellettile umano, come i sentimenti e i ricordi. Deve essere l’arma inanimata della Fortezza Errante. Per questo gli viene applicato il “Cuore d’Inverno”.»
Il respiro di Yao ebbe un brusco sobbalzo quando la mano guantata dell’uomo si fece largo tra i bottoni della camicia per toccare il sole nel suo sterno.
«Anche a te hanno installato un marchingegno?» chiese Ivan.
«Questo è il nucleo del mio potere di fuoco» smentì l’Asean. «E il luogo in cui mi è stata impiantata l’anima dei miei antenati.»
Ivan slacciò i bottoni che gli impedivano di vedere il cuore di fiamme, e l’orientale non poté sottrarsi per via dell’abbraccio di ferro che lo imprigionava. Appoggiò la guancia sulla pelle incandescente del Figlio del Cielo, e un sorriso beato si dipinse sul suo viso: gli piaceva quel calore che non ustionava.
«Cosa si prova ad avere una memoria generazionale?» sospirò Ivan sul suo petto.
Yao poggiò la mani sulle spalle dell’uomo, come volesse spingerlo via, ma non fece la minima pressione su di esse.
«Non è bello come molta gente può pensare. Mille vite di gente che non hai mai conosciuto interferiscono continuamente con il tuo percorso e la tua memoria. Non sempre è piacevole. A volte, si ha la sensazione di essere solo un vaso vuoto riempito per l’occasione.»
«Anche il Cuore d’Inverno» notificò Ivan, lieto di sapere quale fosse il nome del ragno di zaffiro. «Cancella la memoria, e saltuariamente invia qualche informazione utile. È così che ho saputo che eri il Figlio del Cielo.»
Le braccia dell’Asean, dopo un istante si esitazione, scivolarono attorno alle spalle dell’uomo, e il mento affilato si appuntò sulla sua testa.
«Hai detto di non riuscire a mantenere vive le tue memorie… eppure ti ricordavi del nostro primo incontro, perché non ti sei stupito, quando te ne ho parlato.»
Gli occhi di Ivan abbandonarono la sua camicia per appuntarsi sul viso liscio dell’orientale.
«Quello è un ricordo che non svanisce» comunicò il Custode.
Non capì il motivo della successiva azione del Figlio del Cielo: vide le sue pupille tremare come i laghi di montagna al disgelo, e non staccò gli occhi dal volto del giovane mentre questo si avvicinava.
Le labbra roventi di Yao quasi incenerirono le sue, ma il contatto durò solo qualche istante: l’orientale si allontanò bruscamente, premendo una mano sulla bocca.
«Sei… freddissimo» ansò.
Ivan ritrasse le labbra per gustare il tepore che ancora aleggiava su esse. Il calore del Figlio del Cielo aveva un buon sapore.
«È per colpa del Cuore d’Inverno?» s’informò Yao.
«È sempre colpa sua.»
L’Asean avvicinò la mano alla sua sciarpa, con la lentezza di chi domanda il permesso a ogni centimetro guadagnato. Il Custode non si adirò quando Yao toccò la stoffa preziosa e la arrotolò sulla sua spalla robusta, in modo da poter accedere ai bottoni del cappotto.
Liberò le asole necessarie per aprire anche la camicia sottostante, e liberare finalmente il livido bagliore del Cuore d’Inverno.
I polpastrelli di Yao non sostennero più di qualche secondo il contatto con quella massa glaciale, e si ritrassero dolenti.
La successiva concatenazione di eventi fu improvvisa ed energica come i capricci di un bambino. Ivan sollevò il corpo magro di Yao, si sedette sul letto e fece adagiare l’Asean sulle proprie ginocchia. Non gli permise di protestare, e lo strinse a sé in modo che il Cuore d’Inverno e il suo nucleo di fiamme collidessero, amalgamando le loro emanazioni in un intreccio di raggi di sole e brividi di ghiaccio.
Sentì l’orientale tremare per il freddo, tra le sue braccia, e avvertì la stretta di quelle mani sottili sulle spalle. La sciarpa scivolò quasi spontaneamente ad avvolgere il collo dell’Asean, legandolo a quello del Siberiano.
«Fallo di nuovo» ordinò bisognoso Ivan, abbracciando stretto quel fisico d’erba. «Quello che hai fatto prima. Era bello.»
Le dita di Yao, ancora intirizzite per il gelo, lo attirarono verso di lui con una presa instabile, fino a che le loro bocche si congiunsero nuovamente. L’orientale deglutì e fece un profondo sforzo per abituarsi a quelle labbra artiche; aspettò, rabbrividendo, che un poco del suo calore migrasse in quella bocca ferma sulla sua. Solo quando i tremori nel suo corpo si furono placati osò dischiudere le labbra.
Ivan si sorprese di come l’Asean tenesse gli occhi chiusi, e del modo in cui muoveva la lingua nella sua bocca. Non aveva mai visto due persone fare la stessa cosa, per cui non capiva quale fosse il significato di quel gesto. L’unica cosa che comprendeva era che quelle movenze erano piacevoli, e sembravano scaldarlo come il nucleo che palpitava contro il suo petto.
Cercò di imitare Yao, esplorando a sua volta la bocca del compagno con la lingua. L’Asean emise un respiro strozzato, e Ivan capì di essersi spinto troppo a fondo. Riprovò una seconda volta, e una terza, mentre chiudeva gli occhi.
Con le palpebre abbassate, il mondo si limitava improvvisamente ai loro corpi avvinghiati in un bacio. E Ivan comprese perché il Figlio del Cielo tenesse gli occhi serrati: ogni profumo, ogni sensazione erano amplificate e rafforzate, dietro il sipario buio delle palpebre.
Le loro labbra si staccarono con uno schiocco acquoso, e Ivan provò la subitanea urgenza di cibarsi di nuovo della bocca dell’orientale, resa rossa e tumida dal bacio prolungato.
«Sei diventato… più caldo…» biascicò l’Asean, su quelle labbra che cercavano le sue.
Ivan non rispose, esigendo di nuovo le effusioni dell’orientale.
Era ancora freddo, troppo freddo.
Aveva bisogno che Yao continuasse a scaldarlo.
***
Erano passati due anni da quel giorno.
Ivan fissò le spalle nude dell’amante, che spuntavano dalle lenzuola. I capelli aggrovigliati scompostamente sul cuscino lasciavano scoperto il collo levigato.
Il custode si avvicinò per poggiare un bacio sulle spalle morbide e un secondo sulla gola scoperta.
Non voleva che Yao li seguisse alla Prigione Caina, e non voleva che degli estranei potessero rubare anche solo una molecola della sua bellezza. Tuttavia, aveva capito che non avrebbe potuto fermarlo in nessun modo: per qualche motivo, Yao era fermamente determinato a liberare l’Hellsing. Si chiedeva se avesse a che fare con la predizione del Caos nella Confederazione, o se ci fossero altre ragioni.
«Ivan?» il sonno impastò il richiamo dell’Asean, che si girò per osservarlo. «Che cos’hai?»
Il Custode tuffò il visto nell’incavo del suo collo, stringendo con tutte le proprie forze le spalle tenere dell’amante.
Yao accarezzò la sua schiena svestita, senza porgli ulteriori domande.
Non era solo per gelosia che Ivan voleva tenerlo rinchiuso nel castello. Temeva che, se avesse visto di nuovo il mondo esterno, Yao avrebbe abbandonato immediatamente quella fortezza di spettri e ombre. E non voleva affogare di nuovo in quella solitudine gelida.
«Fino a che non uccideremo Kiku, devi restare qui» gli ricordò.
«Lo so» confermò ovvio Yao. «È la nostra promessa.»
Ivan sigillò quel giuramento sulle labbra dell’orientale.
In quel castello, l’Asean era solo suo. Sperava che il mondo esterno non allungasse i suoi tentacoli malefici anche su quel suo unico possedimento. Sul suo solo ricordo.
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Uno Scettro in mezzo al CieloCapitolo Due:
Sangue sull’ArgentoCapitolo Tre:
L’Auspicio Capitolo Quattro:
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