[Axis Power Hetalia] Caleidoscopio - Sangue sull'Argento (2/?)

Aug 26, 2013 08:54




Titolo: Caleidoscopio
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: GerIta (LudwigxFeliciano), Spamano (AntonioxLovino); altri personaggi e alter coppie compariranno nei capitoli a seguire.
Rating: Arancione
Parte: 2/?
Avvertimenti: AU (Alternative Universe); Tematiche Delicate; Yaoi e Lemon (nei capitoli successivi)
Riassunto: L’equilibrio della Confederazione Siderale era garantito da tempi immemori dall’Asse, il primogenito della famiglia Vaticana Vargas; l’Asse era il cardine su cui ruotava tutto l’universo conosciuto.
Per questo quando nacquero i gemelli del signor Vargas vi fu grande timore: era risaputo che i gemelli erano uno spirito diviso in due corpi, e un ragazzo con lo spirito a metà non avrebbe mai potuto reggere il destino della Confederazione. E, per un bene maggiore, occorreva affrontare dei sacrifici: il più turbolento dei gemelli venne abbandonato a morire su un pianeta desertico.
Ma nessuno aveva considerato il legame profondo che incatenava i due fratelli.
Entrambi avrebbero fatto precipitare anche il cielo, pur di ricongiungersi con il consanguineo.
Dal secondo capitolo: Sarebbe stato interessante vedere come la vita sull’Aereonave avrebbe cambiato quel rospetto.
E, se fosse cresciuto bene, non gli sarebbe dispiaciuto mettere il suo simbolo nel posto vuoto lasciato dalla croce d’argento.
«Estaremo a vedere» sospirò allo spazio intorno a lui.
Un buon capitano sapeva quando occorreva aspettare.
***
Ludwig osservò fuori dall’unica finestra di tutta la stanza, un piccolo lucernario posto al limitare del tetto.
Tutto lo spazio al di fuori di quelle mura si sarebbe appoggiato sulle spalle di quel giovane, una volta che i sette anni di apprendistato fossero terminati.
Credi davvero che un equilibrio basato sulla solitudine e l’infelicità di una persona sia un buon equilibrio?
Ancora una volta, suo fratello aveva ragione.

Note: I banner della storia sono opera di Calu-tan<3


Le iridi verdi si specchiarono sulla lama lucida dello stiletto, per poi appuntarsi sul viso corrucciato del ragazzino.
«Dove hai preso questo pugnale?» volle sapere.
«In giro» borbogliò Lovino.
Antonio puntò i gomiti alle ginocchia e intrecciò le mani davanti alle labbra, strette in un’espressione grave.
«L’hai rubato sulla nave?»
«Me l’hanno dato gli uomini di mio padre» Lovino storse un angolo della bocca, disgustato dal sapore amarognolo dell’arrendevolezza. Lo stemma del Vaticano era visibile nelle intarsiature pompose dell’elsa, e l’affilatura impeccabile della lama rivelava l’arte di un fabbro di prima scelta.
Le sopracciglia scure del capitano si curvarono dubbiose.
«Non dovevano giustiziarti?»
«La Gehena reclamerebbe la loro anima, se permettessero a un Vaticano di morire senza avergli dato una minima possibilità di difendersi» salmodiò Lovino.
Antonio chiuse le palpebre e le massaggiò brevemente, esalando un sospiro esasperato. Dovevano ucciderlo, ma non potevano sporcarsi le mani; dovevano assicurarsi che morisse, ma non potevano lasciarlo totalmente inerme.
«Ecco perché mi sono fatto scomunicare» esalò tra i denti, prima di aprire nuovamente gli occhi. «Per quale motivo sei venuto nella mia stanza con un pugnale?»
Lovino girò su se stesso, sollevando i capelli per scoprire la base del collo. La lampada a olio della cabina del capitano ricamò baluginii zafferano sull’argento del tatuaggio.
«Voglio toglierlo» le dita si strinsero in un moto di rabbia sui capelli. «Non voglio più avere niente a che fare con il Vaticano. Ma da solo non ci riesco» una punta di risentimento inasprì la sua voce: avrebbe voluto chiudere il capitolo della sua vita come Vaticano con le sue stesse mani, ma quel maledetto stemma era troppo difficile da raggiungere.
Antonio esaminò i risultati dei feroci tentativi del giovane: le unghie avevano scavato la pelle ai lati del tatuaggio, e i bracci della croce erano annegati in una laguna di rivoli sanguigni. Tuttavia, per quanto il ragazzo si fosse scorticato il collo, il tatuaggio era ancora tremendamente visibile.
Il pugnale emise uno stridio argenteo, e il suono più delicato di un fazzoletto di stoffa frusciò nelle orecchie del giovane.
«Mordilo» ordinò Antonio, consegnandogli il quadrato di tessuto. «Nessuno riesce a rimanere in silenzio, mentre la sua carne viene tagliata.»
Lovino obbedì con insospettabile prontezza, ficcandosi la stoffa in bocca.
Il tremore che non aveva scosso la voce acerba del ragazzino scorreva sotterraneo nelle spalle, che il giovane manteneva ferme a fatica. Doveva essere spaventato a morte all’idea di un pugnale così vicino al suo collo. A dispetto del suo temperamento abrasivo, restava un rampollo di estrazione nobiliare: era stato cresciuto in un ambiente ovattato, in cui le noiose lezioni del precettore e le interminabili funzioni alla Abbazia erano i mali peggiori.
Antonio passò un dito sul dorso del pugnale.
Si chiedeva cosa potesse provare un ragazzino abituato agli agi dell’aristocrazia nell’essere scaraventato nello strato più basso del mondo comune, quello dei malviventi. Probabilmente, per la sua anima di vetro la vita di bordo era un inferno e loro una masnada di diavoli privi di controllo o decoro.
Accostò il filo della lama al collo del ragazzo, e vide la sua pelle accapponarsi per il timore. Avrebbe potuto offrirgli di sedersi sul letto, ma non lo aveva fatto: comprendeva quanto quel brusco cambio di vita potesse essere orribile per il piccoletto, ma non poteva dimenticare del tutto il suo risentimento per i nobili. Voleva vedere fino a che punto quel giovane avrebbe resistito prima di crollare a pezzi.
La filatura si inabissò senza alcuno sforzo nella carne tenera del giovane, e scavò con facilità sotto la pelle. Il fazzoletto smorzò un’esclamazione di dolore, e i pugni si strinsero fino a sbiancare le nocche per evitare che le mani corressero ad allontanare quello strumento di tortura.
Antonio apprezzò quegli sforzi di contenimento e seguitò a scavare. Con sua grande sorpresa, quello che credeva un tatuaggio non era una semplice pittura sulla pelle: era una sottilissima placchetta di metallo, arpionata al collo del giovane mediante un sistema di microscopici ganci. Questo lo costrinse a incidere più a fondo nei punti in cui il simbolo dei Vaticani si aggrappava alla pelle del giovane, e ogni volta una contrazione nervosa si scaricò lungo la schiena del piccoletto.
Furono i dieci minuti più lunghi della vita di Lovino, prima che il capitano vi mettesse termine annunciando:
«Ho finito.»
Le ginocchia del ragazzo cedettero per un istante, ma la sua testardaggine gli impedì di crollare al suolo proprio davanti all’Ispanico. Antonio scacciò il sorriso dalle proprie labbra quando Lovino si rialzò con l’equilibrio barcollante di un ubriaco.
«È una specie di targhetta di riconoscimento?» s’informò Antonio, facendo sfilare un’unghia sulla sottile scia di rune che correvano sul braccio più lungo della croce.
Lovino premette il fazzoletto che aveva morso fino a quel momento sulla ferita e rispose, seccato:
«È un lasciapassare per le Ville Vaticane.»
«E ti hanno lasciato scappare con una cosa così importante?»
«Nessuno mutilerebbe mai un Vaticano.»
Il rancore nel tono di Lovino era paragonabile allo scetticismo negli occhi di Antonio. L’ipocrisia che si nascondeva sotto l’oro e il bianco delle divise Vaticane avrebbe potuto tappezzare l’intero Palazzo di Quarzo.
«Qualcuno avrebbe potuto strapparlo al tuo cadavere» Antonio proferì quell’ipotesi con la brutale schiettezza di un uomo avvezzo alla morte. «Non hanno pensato a questa eventualità?»
«Probabilmente hanno disattivato il mio codice. Sono falsi, ma non sono stupidi» Lovino si gettò a sedere sulla poltrona del capitano, la mano ancora premuta sulla ferita.
Antoniò fissò la croce insanguinata adagiata sul suo palmo e il ragazzino spossato accasciato sul suo scranno.
«Perché hai voluto toglierlo?» domandò, mostrandogli la piastrina ancora gocciolante.
Lovino scostò il fazzoletto per esaminarlo: una stella irregolare di sangue sporcava il tessuto, e il giovane lo rimise a posto con un sospiro irritato.
«Non voglio un marchio di appartenenza. D’ora in poi, voglio essere libero» dichiarò. «Così potrò insegnare a mio fratello come si vive senza catene, quando lo incontrerò di nuovo.»
La croce roteò nell’aria, e venne afferrata al volo dal capitano, che la appoggiò sulla scrivania, esattamente a metà tra lui e il ragazzo.
«Fai attenzione, Lovino» lo redarguì. «Vivere senza legami non significa essere liberi. Significa essere soli.»
Il fazzoletto fu schiaffato sulla croce, e Lovino lo stese con un gesto secco, in modo che la macchia di sangue fosse bene in esposizione.
«Questo è il mio legame» sbottò Lovino, l’eco delle parole scambiate con il fratello che gli rimbombava nella mente.
Se anche dovessero dividerci, io sarei nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Siamo gemelli.
Antonio afferrò il fazzoletto usando solo l’indice e il medio, e lo sventolò con eleganza derisoria davanti al naso del giovane.
«E ti basta un unico legame per tutta la vita?»
Lovino raddrizzò la testa con orgoglio adamantino, e una goccia di sangue rotolò lungo il collo prima di morire sulla camicia in un fiore scarlatto.
«Fino alla morte» asserì, gli occhi e la voce di ferro.
Il capitano drappeggiò il fazzoletto sporco sulla croce, vagamente compiaciuto dalle reazioni del giovane. Non si era opposto al dolore del pugnale, e non lasciava impallidire le sue certezze.
Le mani erano troppo perfette per essere mai state impiegate in un qualche lavoro di fatica, e le spalle magre non avevano sopportato altri pesi al di fuori delle sfarzose vesti Vaticane; tuttavia doveva riconoscere al ragazzo una tenacia abbastanza lodevole. Pensava che i nobili nascessero con un pugno di piume al posto del fegato, ma il piccoletto stava dimostrando una discreta tempra, a dispetto delle ginocchia tremanti.
Antonio gli indicò la porta, serafico e inflessibile.
«Vai dal medico di bordo a farti bendare. Domani mattina devi essere pronto per lavorare.»

***

Era passata una settimana da quando il signor Vargas gli aveva presentato il protetto cui avrebbe dedicato la vita.
Era un onore difendere l’Asse e, con esso, l’equilibrio della Confederazione. Ma, qualche volta, Ludwig si sorprendeva a sperare che quel giovane smettesse di sorridere.
Il precedente Asse non scostava mai la sua espressione dalla distaccata serenità propria dei santi, e il suo sorriso pacifico avrebbe rasserenato all’istante perfino un toro inferocito. Il viso del suo successore, per contrasto, era artificiale come il ghigno delle maschere grottesche del Carnevale pagano; era perennemente spianato in un sorriso fittizio, ben cementato sulle labbra e sugli occhi.
Il precedente Asse sorrideva con il cuore di un angelo, il suo successore con l’abilità di un falsario. Non riusciva nemmeno a intuire quali pensieri affollassero la mente del giovane mentre stava chino sull’altare a pregare, o quando gli si rivolgeva con esagerata gentilezza. Perfino quando mangiava pareva che la sua mente non fosse rivolta al cibo ma a qualche luogo lontano migliaia di chilometri, la cui esatta ubicazione era ben nascosta da quel sorriso fasullo.
Ludwig sistemò distrattamente la cinghia dello spadone sulla spalla. Il suo lavoro era proteggere l’Asse, non di spremergli le meningi.
Nel momento esatto in cui prese questa solenne decisione con se stesso, qualcosa cambiò.
All’improvviso, l’imperituro sorriso si incrinò, e dalle sue crepe sgorgarono incredulità e gioia mentre una mano guantata di bianco correva a tastare lo stemma Vaticano sul collo.
Le labbra e le ciglia del giovane tremarono, così come le mani che percorrevano frenetiche la piccola placca d’argento.
«Mi fa male…» mugolò l’Asse.
Ludwig fu più veloce del lampo nel portarsi al suo fianco, ma Feliciano lo allontanò con garbo.
«È una cosa buona. Significa che mio fratello è vivo» il guanto di pelle bianca attutì l’applauso di gioia dell’Asse. «Non è successo niente per cui il mio stemma dovrebbe farmi male, giusto? Questo significa che fa male a mio fratello. E se gli fa male, significa che è vivo!»
«Non sapevo che voi aveste un fratello.»
Una nuova emozione ancora scorse sul volto del giovane, quella dell’incredulità indignata.
«Come è possibile?» pretese di sapere Feliciano, rialzandosi dall’inginocchiatoio.
«Vostro padre ha sempre detto di aver avuto un solo figlio. Non ne ha mai menzionato un secondo» notando l’espressione ferita sul volto del giovane, Ludwig si sentì in dovere di aggiungere: «Per qualche motivo, vostro padre non ha ritenuto necessario divulgare questa informazione…»
«È da così tanto tempo che desidera liberarsi di Lovino?»
Le parole di Feliciano non fecero più rumore del fruscio della sua veste mentre muoveva un passo verso la parete, ma Ludwig le udì ugualmente.
«È il nome di vostro fratello?» s’informò con garbo.
«È il nome del mio gemello» precisò Feliciano.
A Ludwig non furono necessarie ulteriori spiegazioni per comprendere. Le superstizioni narravano che i gemelli fossero di pessimo auspicio, poiché erano due corpi che condividevano un’unica anima. E un Asse, dominatore del destino della Confederazione, non poteva di certo sostenere una simile responsabilità con una sola metà del proprio spirito.
Feliciano sollevò il berretto, passò una mano tra i capelli ramati e trasse un profondo respiro prima di esordire:
«C’è qualcosa che vuoi proteggere, Ludwig?»
Il Guardiano sussultò interiormente. Non sapeva che l’Asse fosse a conoscenza del suo nome. Nell’ultima settimana avevano scambiato a malapena qualche parola, ed era convinto che quel giovane fosse talmente disinteressato a ciò che non riguardava lui stesso da rimuovere istantaneamente qualunque informazione a riguardo.
«Proteggo voi» rispose, marziale.
Una risata sgorgò dalle labbra di Feliciano e, quando questo si voltò, una curvatura del tutto inedita gli addolcì le labbra.
«Sei obbligato a proteggermi, è il tuo compito. Voglio sapere se c’è qualcosa che vuoi proteggere al di là del dovere» il ragazzo si avvicinò di nuovo all’inginocchiatoio e si sedette sul basso legno imbottito, passando un polpastrello foderato sul pavimento lindo. «Io devo preservare tutta la Confederazione, ma ciò che vorrei davvero difendere ha lo spirito di un leone e la lingua di un serpente» il giovane appoggiò il capo adornato dal cappello bianco sul bracciolo dell’inginocchiatoio, e lo guardò con una luce incuriosita negli occhi: «Non hai niente di simile?»
Il Guardiano dirottò lo sguardo verso il pavimento, alla ricerca di una risposta che potesse soddisfare l’Asse senza rivelare quella parte del suo passato che aveva giurato di mantenere segreta.
«Anche io ho un fratello fuori di qui» telegrafò infine.
Feliciano chinò piano la testa, compiaciuto.
«Ti manca?»
«Non vedo mio fratello da molto tempo.»
«E la cosa ti rattrista?»
«Voi siete rattristato dalla lontananza di vostro fratello?» Ludwig gli ritorse contro la sua stessa domanda, per evitare di dovervi rispondere.
Felicianò dondolò placidamente il capo un paio di volte prima di rispondere:
«Mi manca tantissimo. Ma spero che là fuori abbia trovato tanti motivi per sorridere. Così un riflesso dei suoi sorrisi arriverà fino a me, e ne sarò felice anche io» il mento affusolato del ragazzo venne appoggiato sulle ginocchia, raccolte al petto. «E nutro anche la speranza più egoista che non si sia scordato di me. Anche se il mio ricordo dovesse inquinare la sua gioia» Feliciano reclinò nuovamente il capo su una spalla e concluse: «Provi anche tu lo stesso?»
Trascorse qualche istante di immobilità prima che l’aria venisse scossa dalla replica seriosa del Guardiano:
«Io spero che mio fratello riesca a dormire bene.»
Una domanda incuriosita si affacciò dal sorriso del giovane, ma fu scacciata quando il ragazzo scosse la testa. L’Asse si ricompose nella posa cerimoniale e riprese a pregare.
Ludwig non distolse lo sguardo dalla sua figura inginocchiata. Non lo avrebbe mai ammesso, perché ogni buon Guardiano deve amare il proprio lavoro, ma detestava essere stato assegnato al Palazzo di Quarzo e all’Asse, per quanto quel compito fosse onorevole. Tuttavia, dopo quelle poche parole, sentiva di trovare meno insopportabile l’essere costretto al fianco di quel ragazzo.
Era riuscito a intravedere un’anima dietro la pantomima dell’Asse. Ed era uno spirito affamato di affetto che nutriva se stesso con l’illusione di rivedere il gemello, un giorno. Una povera anima sola, abbandonata negli immensi corridoi del Palazzo di Quarzo, che cercava di proteggersi da ulteriori ferite camuffandosi con un sorriso artificiale.
Sfiorò la custodia dello spadone, assorto.
Separato da un fratello scomodo e costretto a imparare un modo per difendersi da tutto e tutti. Le strade che avevano percorso lui e l’Asse erano parallele. Per questo poteva comprendere il suo dolore talmente a fondo da avvertire una spina conficcarsi nel suo cuore.
Batté le palpebre un’unica volta prima di appuntare di nuovo le sue iridi di ghiaccio sul ragazzo in preghiera.
Non esistono lupi cattivi, Ludwig. Solo lupi molto infelici.
La lezione di tanto tempo prima gli affiorò nella mente.
Come sempre, suo fratello aveva ragione.

***

«Se permettete una parola, Capitano, il nuovo mozzo non mi convince.»
Antonio fece stridere la pietra affilatrice sull’ascia con particolare veemenza, in modo che quell’ululato metallico sopperisse alla sua mancata risposta.
Poteva capire perché il tenente di vascello nutrisse dei dubbi riguardo l’utilità del trovatello che proprio in quel momento stava imprecando contro le corde che gli si erano aggrovigliate attorno alle caviglie, facendogli quasi rovesciare il barile che stava portando in braccio. Lo osservarono zampettare fuori dal roveto di cordame e traballare sotto il peso della botte.
«Potrebbe rivelarsi utile. È pur sempre un Vaticano» minimizzò Antonio.
«Un Vaticano ripudiato.»
«Potrebbe avere qualche potere» ipotizzò, in tono neutrale. Il discorso avuto con Lovino una settimana prima nella sua cabina lo aveva incuriosito enormemente: si chiedeva quali capacità avessero potuto bollarlo come gemello malefico, ma non aveva intenzione di lasciar intuire il suo interesse a tutto l’equipaggio. Inoltre, non aveva ancora visto quale fosse il limite ultimo cui quel ragazzino fosse disposto a spingersi pur di incontrare di nuovo il fratello.
«Ma non è mai stato in battaglia, è chiaro come il sole!» protestò il tenente. «In che modo…»
L’ascia tagliò l’aria e le obiezioni del subordinato, quando il capitano la fece scattare verso il suo volto. Il tenente deglutì lentamente, vedendo il suo stesso mento riflettersi sulla lama lucida. Il colore livido sulle sue guance rivelò la precipitosa ritirata del suo sangue nei piedi, il più lontano possibile dalla Aguja Paladar, la temutissima ascia del capitano Antonio Fernandez Carriedo.
«Apprezzo i consigli» scandì lento l’Ispanico, gli occhi aguzzi e freddi come il metallo dell’ascia. «Ma non dimenticarti chi è il capitano, tenente.»
«Chiedo scusa, signore.»
Il sangue osò affacciarsi di nuovo sulle gote smunte solo quando l’ascia tornò a essere appesa alla schiena del capitano.
«Avremo modo di testare la sua utilità tra poco» sancì Antonio. Calcò il cappello sulla testa prima di lanciare uno sguardo concentrato all’orizzonte. «Esistono ancora degli sprovveduti disposti ad attaccarci.»
Il tenente estrasse veloce il binocolo e scrutò a sua volta il cielo piatto intorno a loro: una nave puntava nella loro direzione, i razzi propulsori che fiammeggiavano alla massima potenza; avrebbero subito un arrembaggio entro pochi minuti. Ripose il binocolo, un brivido di ammirazione mista a timore per la capacità del capitano di prevedere l’arrivo dei nemici: una dote compresa nel forziere delle qualità dei Carriedo, che Antonio aveva accennato ma mai spiegato. Il capitano, da buon combattente, non rivelava mai la piena portata delle sue capacità.
«Tra pochi minuti, una nave nemica ci assalirà» comunicò autoritario, esaminando i suoi uomini. «Chi non vuole combattere è libero di ritirarsi sottocoperta. Non voglio codardi o incompetenti sul ponte» si fermò esattamente davanti a Lovino, e gettò un’occhiata al suo viso incupito. Il ragazzo rispose con un silenzio burrascoso e un’occhiata in cui si rimescolavano testardaggine, paura e orgoglio. Il capitano distolse lo sguardo dopo qualche secondo: non aveva tempo da sprecare con i novellini desiderosi di gettare al vento la loro vita.
«Sono visibili dieci uomini sul ponte, capitano» avvertì il tenente. «La nave è abbastanza grande da contenerne altri dieci sottocoperta.»
«Un gioco da ragazzi!» abbaiò un bucaniere con la gola essiccata dal tabacco.
«Posso farcela da solo.»
L’annunciò colò come una cascata di ghiaccio sui marinai, paralizzandoli nell’incredulità.
Una frase così prepotente, pronunciata dal membro dell’equipaggio che più di tutti avrebbe dovuto essere spaventato dalla prospettiva della battaglia, congelò gli animi dei presenti prima di farli esplodere in un poderoso coro di risate.
Gli angoli della bocca di Lovino tremarono per l’indignazione, ma non abbassò lo sguardo mentre i marinai deridevano con parole rudi la sua dichiarazione.
Il capitano fu l’unico a rimanere estraneo a quella deflagrazione di ilarità. Si avvicinò invece a Lovino e domandò:
«Come vorresti risolvere questa faccenda?»
Lovino sbocconcellò la risposta con rabbia, mentre arrotolava le maniche troppo lunghe della camicia che i mozzi gli avevano prestato:
«Sono un Vaticano. Vedrete» e aggiunse, a voce più alta: «Non vi costa nulla farmi andare per primo. Se avrò ragione io, vi avrò risparmiato uno scontro. Se avete ragione voi, vi libererete di me.»
Sapeva che non lo consideravano parte del loro gruppo. Lavorava sempre da solo, al contrario degli altri marinai, che venivano sempre raggiunti dai chiassosi compagni; nessuno gli aveva mai offerto di scambiare il cibo dal piatto, cosa che gli altri facevano con rumorosa allegria. Riservavano per lui gli interrogativi venati di disgusto, come se si chiedessero costantemente perché a un simile rospetto fosse stato permesso di mettere piede sulla Reina de la Oscuridad, l’Aeronave della temibile famiglia Carriedo. Era stanco di farsi invischiare nel loro disprezzo: si sarebbe scrollato di dosso quella fanghiglia umiliante una volta per tutte.
Nessuno mosse un dito per fermarlo mentre si avvicinava al parapetto. Stavano certamente pregando perché lui “tirasse le cuoia”, secondo il colorito vocabolario dei lupi di mare: sentiva le loro speranze premergli sulla schiena quasi cercassero di buttarlo giù dalla nave. Solo il capitano si limitava a fissarlo senza alcuna emozione apparente sul viso, semplicemente in attesa.
Lovino si riempì i polmoni con l’aria creata dall’atmosfera artificiale che inglobava l’Aereonave per permettere all’equipaggio di respirare anche nello spazio aperto. Antonio doveva amare molto il vero mare: aveva fatto in modo che il pungente odore salmastro dell’oceano scorresse libero all’interno dell’atmosfera artificiale.
I ciuffi ramati disegnarono una buffa ruota quando Lovino scosse la testa: non era il momento di pensare al capitano e ai suoi profumi preferiti.
Osservò la Aeronave nemica dirigersi in picchiata verso di loro. Chiuse gli occhi e congiunse le mani in preghiera. Morse appena le nocche intrecciate, mentre il ricordo delle parole del padre gli azzannava le viscere.
Speriamo che il suo potere blasfemo muoia con lui. Una simile propensione può portare solo disgrazie.
Torse la bocca in un ghigno amaro. Avrebbe usato le sue capacità per aiutare un branco di pirati a uccidere dei loro pari. Non poteva dare torto al padre, in fondo.
Perfino i marinai più consumati indietreggiarono alla vista della bestia richiamata da Lovino. Solo Antonio rimase fisso nella sua posizione: gli spettacoli di Gilbert e Francis in passato lo avevano immunizzato alla sorpresa per la magia. Tuttavia non riuscì a mascherare il suo stupore nel vedere un simile potere in un corpo così mingherlino.
La schiena di Lovino si aguzzò in una foresta di minuscole creste di oscurità, che poi si gonfiarono formando un torso animalesco, incurvato in una posizione di attacco. Dalla bocca del giovane si allungarono delle fauci tenebrose, e due occhi rossi si aprirono sulle sue palpebre chiuse. L’intero corpo della bestia d’ombra pulsò e si contorse, fino a che, con un guizzo delle zampe mostruose, un enorme lupo si distaccò dal corpo esile del giovane.
Lovino stese una mano, accarezzando per la prima volta il suo famiglio. Nella Villa non gli avevano mai concesso di sviluppare il suo dono, e non gli avevano mai permesso di evocare la bestia che il piccolo sentiva ringhiare nella sua testa. Era qualcosa di sacrilego, e andava soppresso. Ma Lovino aveva continuato a sentire l’uggiolio di quell’animale dentro di lui, per cui a volte aveva fatto emergere dalla sua pelle una zampa nera o una coda ispida per acquietarlo. Alcune volte, invece, gli parlava mentre il fratello dormiva e, durante una di quelle chiacchierate unilaterali notturne, aveva dato un nome a quella povera creatura intrappolata dentro di lui: Roma. Non aveva mai potuto lasciarlo in libertà, poiché non era sicuro di poterlo controllare, e non voleva che seminasse il panico nei sacrosanti corridoi della Villa; al contrario, il ponte di quell’Aeronave era lo scenario perfetto per permettergli finalmente di uscire all’esterno.
Roma si rivelò sorprendentemente docile al suo tocco: Lovino avvertì le creste d’ombra guizzanti appiattirsi sotto la sua mano, come se l’animale abbassasse le orecchie per essere accarezzato. Si chiedeva cosa avrebbe detto il signor Vargas, vedendolo accudire un lupo spettrale, composto di sole tenebre e fiamme. Forse lo avrebbe schedato come ulteriore conferma della malignità dei gemelli.
Lovino si chinò appena per bisbigliare sul capo chino del lupo:
«Sai cosa fare, Roma.»
La bestia fletté le zampe e partì all’attacco con un ululato infernale.
L’intero equipaggio osservò il lupo procedere a rapide falcate verso i nemici e avventarsi sul loro ponte spalancando le fauci diaboliche. Ma prima di toccare il legno dell’Aereonave, il corpo del lupo si disperse in una rete di rivoli di fumo plumbeo: prima le zampe, poi il torace muscoloso, quindi il collo, fino a che non rimasero solo due scintillanti occhi rubino sospesi nel vuoto.
E fu in quel momento che ebbe inizio il panico: bastò un solo tocco di quella foschia nefanda perché l’intera ciurma nemica impazzisse. I marinai strabuzzarono gli occhi e cominciarono a correre per il ponte creando un caos totale: alcuni si gettarono dal parapetto, spaventati a morte da allucinazioni infernali; altri, alla ricerca di una via di uscita inesistente dal sortilegio mentale, chiazzarono di sangue e liquidi cerebrali i muri di legno della nave fino ad accasciarsi al suolo con la testa fracassata; altri ancora imbracciarono le armi e cominciarono a falciare i loro compagni, urlando come ossessi fino a gettarsi loro stessi sulle proprie lame.
L’equipaggio di Antonio assistette ammutolito al suicidio violento dei rivali, e un silenzio tombale accolse la nave avversaria quando il suo pennone accarezzò quello della Reina dell’Oscuridad. Il ponte rivale era un cimitero di armi abbandonate, pozze di sangue e cadaveri che ancora fissavano con occhi allucinati la visione che li aveva portati alla morte.
Nessuno emise un fiato quando i tentacoli di nebbia di carbone avvolsero la piccola figura di Lovino, che li assorbì fino a farli scomparire di nuovo all’interno del suo corpo. E nessuno dimenticò la ferocia nelle pupille rosse che li fulminarono poco prima di sprofondare nelle palpebre chiuse.
Il giovane aprì lentamente gli occhi, e lo spettacolo della devastazione dei nemici gli accoltellò le pupille. Non era sufficiente conoscere il proprio potere per accettare le sue conseguenze: una scossa elettrica gli polverizzò le ginocchia, facendolo cadere sul ponte, e premette entrambe le mani sulla bocca nell’inutile tentativo di trattenere i conati di vomito.
Una mano forte gli si appoggiò sulla spalla tremante, mentre un mozzo gli posizionava un catino sotto il mento un secondo prima che gli argini di Lovino cedessero. Le dita sulla sua spalla si strinsero mentre il suo stomaco si rovesciava nel bacile.
«Uccidere una persona nella propria testa e ucciderla davvero non sono la stessa cosa» tuonò gentilmente una voce vicino al suo orecchio.
«Anche i Carriedo…» barbugliò Lovino, respirando con fatica tra gli spasmi. «Sono capaci di questo?»
La mano abbandonò la sua spalla e la risposta del capitano non sciolse i suoi dubbi:
«No. Sappiamo fare altre cose.»
La giacca dell’uomo gli schiaffeggiò la schiena quando Antonio si rialzò e declamò:
«Qualcuno ha ancora obiezioni sulla presenza di questo ragazzo nella ciurma?»
Non si sollevò nemmeno una contestazione, e Antonio annuì soddisfatto.
«Dagli qualche giorno per abituarsi ai tuoi poteri, e dopo ti adoreranno» bisbigliò, abbassandosi nuovamente sul ragazzino debilitato.
Lovino deglutì con fatica e annaspò:
«Ogni anima completa ha luce e ombra, ma i gemelli ne dividono una in due, per questo un gemello nasce ombra e uno nasce luce. E per questo mio fratello ha i poteri dell’Asse e dell’equilibrio mentre io ho quelli del Caos.»
La mano del capitano scese sulla sua testa, nell’imitazione ruvida di una carezza.
«Vai dal medico a farti dare un antiemetico prima di buttare fuori anche il fegato» consigliò.
Antonio comandò a due marinari di sorreggerlo fino alla cabina del dottore, e ordinò ad altri sette di saccheggiare la nave nemica. Dopodiché si godette lo spettacolo del ragazzino che arrancava a fatica sottocoperta con le sue stampelle umane, e il suo sguardo venne calamitato dalla benda che copriva la ferita con cui il ragazzo si era liberato della sua targhetta di riconoscimento.
Quel giovane era un’erbaccia cresciuta tra i gigli: conosceva i loro ritmi di vita, ma restava più forte e più tenace di tutti loro.
Appoggiò i gomiti al parapetto, osservando l’ostinata testa ramata del piccoletto sparire nel rettangolo della porta.
Sarebbe stato interessante vedere come la vita sull’Aereonave avrebbe cambiato quel rospetto.
E, se fosse cresciuto bene, non gli sarebbe dispiaciuto mettere il suo simbolo nel posto vuoto lasciato dalla croce d’argento.
«Estaremo a vedere» sospirò allo spazio intorno a lui.
Un buon capitano sapeva quando occorreva aspettare.

***

«Non riuscite a dormire?»
L’unico colore nella stanza era la chioma ramata del futuro Asse, strappata a malapena dalla notte grazie alla luce timida della luna. Tutto il resto soffocava in un preponderante bianco.
Feliciano si alzò sul letto, raccogliendo le lenzuola in grembo.
«Occorrono sette anni perché il potere del precedente Asse riesca a migrare nell’Asse successivo» appoggiò il capo sulla nuvola di lenzuola e considerò: «Le funzioni che svolgo ora sono un infinitesimo di quelle che mi spetteranno una volta assunto il ruolo di Asse.»
«E questo vi spaventa?» domandò Ludwig.
«Sarò incatenato a questo Palazzo» sprofondò il viso nelle coltri, come volesse nascondere la sua angoscia in quel tessuto soffice. «Non potrò più uscire.»
Ludwig preferì non scoraggiarlo ulteriormente facendogli notare che nemmeno durante quei sette anni avrebbe avuto la possibilità di allontanarsi da quelle mura: il Palazzo era sorvegliato giorno e notte, e solo il signor Vargas e pochi altri avevano il permesso di attraversare liberamente la soglia di entrata. E loro due non rientravano in quel gruppo elitario.
«Come era il posto in cui sei nato, Ludwig?»
Il Guardiano batté le palpebre due volte, confuso.
«Come mai questa domanda?» chiese in risposta.
Feliciano si lasciò cadere all’indietro, e le vaporose maniche della tunica da camera svolazzarono tutto intorno mentre precipitava dolcemente sul materasso.
«Ho visto solo l’interno della Villa, e qualche volta il suo boschetto, e questa stanza. Mi piacerebbe sapere come è il resto del mondo.»
Un silenzio lungo qualche secondo si estese tra di loro, mentre il Guardiano cercava le parole.
«Sono nato su un pianeta molto lontano da qui» cominciò a raccontare.
Feliciano chiuse gli occhi, e la terra descritta dal Ludwig prese gradualmente forma sotto il sipario delle palpebre: vide srotolarsi davanti a sé una landa di terra dura e ghiacciata fin dove l’occhio poteva arrivare, e sullo sfondo il fantasma delle montagne acuminate avvolte da una nebbia glaciale; sul cielo si stemperò una tinta argento, la stessa che si riflesse sul grande lago scuro al centro della valle. Sentì il richiamo dei rapaci delle montagne, e vide le loro ombre sfrecciare in cielo mentre cacciavano la preda. Avvertì il vento invernale accapponargli la pelle, e cercare inutilmente di abbattere le mura di una solida baita di legno, costruita vicino al lago.
Aprì le labbra in un sorriso prima di schiudere gli occhi.
«Mi piace il posto che mi hai descritto. Sembra molto bello.»
«Magari riuscirete a visitarlo, un giorno» cercò di rincuorarlo Ludwig.
Il giovane si girò su un fianco, il viso coperto dalla frangia rossiccia.
«Sì. Ora che me ne hai parlato, potrò vederlo nei sogni» sussurrò.
Trascorse una mezz’ora di immobilità prima che il giovane si assopisse.
Ludwig aveva sempre avuto l’assurda convinzione che i sogni dell’Asse fossero come il Palazzo: bianchi e privi di vita. Si chiese quali immagini popolassero il sonno dl ragazzo, quali voci si rincorressero nel suo riposo notturno.
Le ciglia del giovane tremarono, e tra di esse nacque una lacrima, che andò a morire gettandosi dalla punta del naso. Ludwig si avvicinò al letto quando la prima venne seguita da una seconda e una terza, e fu abbastanza delicato da asciugare la quarta senza che l’Asse si svegliasse. Feliciano sembrò tranquillizzarsi grazie al suo tocco, e la quinta lacrima, più piccola e debole delle altre, fu l’ultima che versò, quella notte.
Ludwig si sedette sul bordo del gigantesco letto per vegliarlo: così sarebbe potuto intervenire con più facilità se l’Asse avesse dovuto piangere ancora.
Osservò fuori dall’unica finestra di tutta la stanza, un piccolo lucernario posto al limitare del tetto.
Tutto lo spazio al di fuori di quelle mura si sarebbe appoggiato sulle spalle di quel giovane, una volta che i sette anni di apprendistato fossero terminati.
Credi davvero che un equilibrio basato sulla solitudine e l’infelicità di una persona sia un buon equilibrio?
Ancora una volta, suo fratello aveva ragione.

Anche su: EFP

Capitoli precedenti:
Capitolo Uno: Uno Scettro in mezzo al Cielo

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Capitolo Tre: L’Auspicio

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