Meet Me in Dublin - capitolo 6

Nov 09, 2013 17:16

CE L'ABBIAMO FATTAAAH! Il cosplay è stato finito e gli Eito Renjaa hanno conquistato Lucca Comics 2013! Abbiamo avuto i nostri problemi, imprevisi, disastri... come ad ogni Lucca che si rispetti XD Ed eravamo sotto di un membro, ma ci rifaremo l'anno prossimo u.u Grazie a tutte le mie pucciose ed adorate compagne di scorribande <3
Terminato lo hiatus da cosplay, credevate avrei trovato il tempo di scrivere? E invece NO! XD Perché a scuola stiamo seguendo delle MERAVIGLIOSE lezioni sulla drammaturgia teatrale che ci riempiono le giornate di compiti, ho in ballo una serie di concorsi dei quali non vedo la fine E *rullo di tamburi* il prossimo fine settimana sono a ROMA PER TOMA! *badum tiss* ...non è solo una battuta triste, è che vado davvero al Roma Film Festival a vedere Tomino (e, se possibile, anche Jennifer Lawrence...), ospite della mia adorata moglie vampiretta87!
Ma come richiesto dalla cara Guriin lalois e dalla altrettanto cara Buruu gkj, posto un nuovo capitolo per tenerle buone e ricordare loro piccoli dettagli degli spoilers che mi hanno convinta a fare U.U (mannaggia!).

Titolo: Meet Me in Dublin
Gruppo: Kanjani8
Genere: AU
Pairing: per ora nessuno
Rating: dal PG al PG-13, principalmente per il linguaggio
Disclaimers: i personaggi e i luoghi descritti non mi appartengono
Ringraziamenti: a genki_ya per la magica città che mi ha fatto scoprire nell'ospitarmi a Dublino, due anni fa
Note: vedi capitoli precedenti! Vedi note a piè pagina per le traduzioni e le canzoni!
Capitoli precedenti: capitolo 1 - Subaru, capitolo 2 - Yoko, capitolo 3 - Hina, capitolo 4 - Maru, capitolo 5 - Ryo


CAPITOLO 6 - TACCHON.
Non ho scelto Dublino e il Trinity College così come non ho scelto che liceo frequentare, che sport praticare, che vestito indossare al mio primo appuntamento con una ragazza che, ovviamente, non avevo arbitrariamente deciso di frequentare. Tutto nella mia vita è stato comandato, eccetto quell'unico avvenimento, quell'unica decisione che ho preso da solo e che mi è costata più di tutte.
Quell'unica volta in cui sono stato veramente me stesso.

Uscì dalla propria stanza guardingo, stupito del fatto di non intravedere nessuno nelle zone comuni.
Aprì il frigorifero dopo aver ispezionato i messaggi scritti sulla porta e versò un bicchiere d'acqua, si sedette sul divano e si guardò ancora una volta attorno, incredulo nel realizzare come fosse strano il salotto senza altri occupanti, nel silenzio della mattina.
Annusò l'aria e si rese conto che il solito fastidioso odore di spezie e detersivo era mischiato ad un altro, dolciastro e atipico in una stanza di share-house. Il suo sguardo si posò allora su una boccetta di profumo azzurra a forma di mezzo-busto maschile, appoggiata vicino all'abat-jour; conosceva perfettamente la marca e si ricordò all'improvviso delle parole di Maru un paio di giorni prima, ascoltate senza troppa attenzione, ma per qualche motivo registrate nella memoria.
Sorrise leggermente, nel segreto della stanza vuota, una piega delle labbra talmente debole che scomparve in un baleno appena sentì una porta aprirsi e Shingo trottare senza coordinazione in cucina, lanciandogli un veloce: -'Morning, Tacchon-. Squadrò l'italiano da capo a piedi: come al solito indossava una t-shirt nera di una qualche squadra calcistica e dei larghi pantaloni verdi arrotolati fino alle ginocchia.
-Hope you're not going out dressed like that...- commentò, leggermente allarmato.
-I am. Early running to St. Stephen Green and back- rispose Hina, per niente indispettito dal tono di biasimo nella voce del francese, il quale schioccò la lingua e roteò gli occhi: -Right, well... I guess you're justified this time...-.
Shingo sollevò il lato della bocca in un ghigno compiaciuto e dopo aver riposto il cartone di succo di frutta nel frigo, prima di raggiungere l'ingresso per indossare le proprie scarpe da corsa, si inchinò profondamente al cospetto dello studente e dichiarò: -Thank you for your consent, your Highness-.
-Not consent, more like surrender...- commentò acido Tacchon, indispettito dal comportamento scherzoso del più grande, che a quanto pareva dall'ultima litigata aveva smesso di prenderlo sul serio.
-Bye 'Cchon, be a good boy at school today! And don't forget to bring in the laundry!- gli gridò Shingo prima di chiudere la porta d'ingresso alle proprie spalle. Tacchon sbuffò e guardò l'orologio, concedendosi altri venti minuti di relax sul divano prima di entrare in doccia e prepararsi alla mattinata in università.

Il Trinity College era un ampio complesso di edifici antichi e moderni nel mezzo della città: fondato addirittura alla fine del '500 da Elisabetta I d'Inghilterra, per secoli aveva formato i più famosi ed importanti esponenti della cultura Irlandese, divenendo una delle scuole più prestigiose d'Europa.
La prima volta che Tadayoshi aveva varcato la soglia dell'edificio principale, camminato per i corridoi e i porticati e il giardino interno del campus, si era sentito intimorito dal peso della storia di quel luogo, ma allo stesso tempo motivato a dare il massimo per dimostrare di essere all'altezza di un istituto dal nome tanto importante. Era per lui come frequentare Harward o, aveva pensato con un sorriso, Hogwarts.
Prima di partire per Dublino si era dovuto convincere di essersi meritato il titolo di studente al Trinity College, di essere destinato alla migliore carriera scolastica e lavorativa possibile, ma una volta visitate le prime aule e l'antica biblioteca, l'aveva colto una certa paura di non essere all'altezza del luogo e del compito, di poter fallire anche in questa ennesima sfida. Odiava fallire.
Così aveva cominciato a studiare ancora più seriamente e ferocemente di quanto non fosse già abituato a casa propria e i risultati eccellenti l'avevano subito messo in luce come uno degli studenti più brillanti del proprio anno. Seguiva più corsi di quanti gli servissero per la laurea, dava esami in anticipo e preparava elaborati di materie facoltative che gli permettessero collaborazioni con studenti più grandi e professori importanti.
Nonostante i tentativi di farsi notare nell'ambiente come uno studente modello, era anche riuscito a mantenere una totale distanza coi propri compagni di corso e il resto del corpo studentesco: molti lo conoscevano di nome o di vista, ma nessuno ci aveva mai parlato ed anzi, avevano un reverenziale timore a rivolgergli anche solo un cenno di saluto se lo incrociavano nei corridoi. Aveva lavorato molto per guadagnarsi quel rispetto e quel genere di freddo distacco: sedeva sempre da solo in prima fila, pranzava lontano dagli altri, non frequentava la mensa e i luoghi comuni, passava ore in biblioteca o da Starbucks e già quando era solamente una matricola evitava inviti a club o feste come la peste. Si vestiva e pettinava in maniera impeccabile per distinguersi ancora di più.
Non voleva avere a che fare con nessuno: era già tanto essere costretto a vivere in una share-house maschile piena di stranieri sciatti e casinisti o dover frequentare, per mancanza di tempo e vicinanza al campus, uno Starbucks sempre affollato.
In questi termini sarebbe riuscito a sopravvivere i restanti trimestri prima della laurea, per poi trovarsi finalmente un appartamento da solo e possibilmente una carriera lavorativa degna di rispetto. Forse sarebbe persino riuscito a trovare gli agganci giusti per tornare in Francia...
“À Lyon” pensò, alzando lo sguardo al cielo, di un azzurro brillante coperto da tante piccole nuvole in viaggio, mentre proseguiva lungo il selciato del giardino interno del campus: “À la maison...”.
Anche se non esisteva più una casa da poter chiamare tale, un luogo a cui tornare...
Ancora una volta incrociò lungo i corridoi uno dei pochi ragazzi che erano riusciti, in sette mesi, a distinguersi ai suoi occhi dalla massa: non che la cosa fosse sempre per fattori positivi. C'era una ragazza che l'aveva tampinato durante tutta la prima settimana di corsi per poi dissolversi completamente nel nulla appena trovato un altro studente carino da disturbare; c'era stato uno dei giocatori del club di rugby della scuola che una volta gli aveva tirato una involontaria pallonata facendogli rovesciare addosso il caffè caldo appena comprato; c'era un gruppo di persone che sedeva sempre in fondo all'aula a giocare ai videogiochi che gli ricordava moltissimo Yoko, ma che molto probabilmente erano tutti cinesi.
E poi c'era questo ragazzo, lo stesso che mesi prima gli aveva offerto una mano per pulirsi dal caffè rovesciato e che durante le lezioni più noiose disegnava con foga piegato su un quaderno di fogli bianchi. Sembrava un personaggio isolato a sua volta, ma non emanava la stessa aura di indifferenza di Tadayoshi: se interpellato rispondeva con caldi sorrisi e aveva sentito dire da alcuni ragazzi seduti dietro di lui che frequentasse alcune feste universitarie. Era anche venuto a sapere che la sorella maggiore insegnava nel reparto di scienze naturali e per questo aveva storto un po' il naso, pensando si trattasse del classico raccomandato. Ma il ragazzo, dai capelli ossigenati e i tratti del viso tipicamente orientali, era apparentemente una persona difficile da prendere in antipatia.
Più di tutto, Tadayoshi gli riconosceva un gran coraggio nelle scelte di vestiario: completi multicolore, jeans con toppe fantasiose, leggins femminili abbinati ad ampie felpe da rapper e accessori di tutti i tipi e le forme. A volte indossava grossi occhiali tondi dalla montatura tartaruga, altre volte un cappello nero ricoperto di spille di gruppi musicali famosi. Anelli enormi, un dilatatore sull'orecchio sinistro ed era certo di averlo intravisto indossare una gonna di tulle lilla, una volta.
Tuttavia, nonostante l'accozzaglia di colori e fantasia e le inevitabili cadute di stile de temps en temps, ammetteva di trovarsi al cospetto di una di quelle rare persone che seguivano uno stile con attenzione e dedizione e sacrificavano il giusto tempo ogni giorno per apparire originali, puliti e modaioli piuttosto che sciatti e rozzi come il restante novanta percento del corpo studentesco, ragazze incluse.
Mentre considerava tutte queste cose, il ragazzo captò il suo sguardo e gli sorrise sinceramente, così come era solito fare tutte le volte che si incrociavano dall'incidente del caffè.
All'improvviso, gli rivolse addirittura la parola, spiazzandolo: -Very nice jacket!- esclamò, con la propria caratteristica voce nasale e l'accento orientale che Tacchon era abituato a sentire in share-house.
Si riscosse dalla sorpresa e ricambiò il sorriso, seppur concedendone uno leggero e freddo, che sperò non tradisse il senso di orgoglio e calore che il complimento gli avevano involontariamente sprigionato dentro: -Thank you, I like your hat-. Un borsalino bordeaux dalla banda color crema.
Il ragazzo annuì felice e si allontanò lungo il corridoio, agitando la borsa a tracolla che portava e facendo tintinnare i numerosi portachiavi appesi ad un manico.

Il fugace incontro era riuscito a metterlo un po' di buonumore, tanto che non si lasciò intimorire dal tempo atmosferico che volgeva verso l'ennesima serata di pioggia e si diresse lo stesso verso Starbucks alla fine delle lezioni pomeridiane, per un meritato caffè.
Incrociò lo sguardo di Ryo mentre aspettava il proprio turno per ordinare e lo sprazzo di ciel sereno che aveva illuminato metà della giornata iniziò lentamente a dissolversi non appena notò il ghigno dell'americano, in cassa.
-Hey, cover boy! Watcha doin here?- lo salutò con il peggior slang californiano possibile, lanciandogli un occhiolino del tutto fuori luogo.
-La même chose que toujours, idiot- rispose, non concedendo neanche il beneficio della lingua comune.
Ryo ridacchiò e scosse la testa, per poi tornare un minimo professionale e chiedere: -What can I get you, grumpy cat?-.
-Espresso macchiato tall, I'll be at my usual spot- disse velocemente, allungando le monete esatte sul bancone e indicando con un cenno la poltrona in fondo al locale che occupava ogni giorno a quell'ora.
Ryo gli consegnò lo scontrino senza smettere di sorridere e accolse con un caloroso benvenuto le due ragazze in fila dopo Tacchon, il quale lanciò un occhiata alle sue spalle mentre si dirigeva al proprio tavolino non solo per criticare il livello di bellezza e intelligenza delle due turiste, ma anche per assicurarsi che il coinquilino non scavalcasse il bancone per abbracciarle, nell'eccitazione del momento. Non sarebbe stata la prima volta...
Con suo leggero disappunto non accadde nulla di imbarazzante e così dopo un paio di minuti dovette sorbirsi il gioioso americano che gli portò il caffè nel solito bicchiere di carta, reggendo nell'altra mano un sacchetto colmo di bustine di zucchero: -Daily dose of caffeine and sugar for you, my dear fellow!- proclamò in finto British, appoggiandoli gli oggetti sul tavolo e sedendosi sullo sgabello più vicino per osservare il francese con attenzione. Era una cosa che ormai Tacchon era abituato a sopportare: mesi di “ma non dovresti lavorare?” o “odio quando la gente mi fissa così” non avevano portato l'altro a smettere, così si era rassegnato a tollerare la cosa, sperando in cuor suo che prima o poi il responsabile del personale strigliasse Ryo per le pause che si concedeva troppo spesso durante il servizio quando Tadayoshi era nel locale.
E come ogni giorno, non appena le labbra del francese si allontanarono dalla tazza dopo il primo sorso... -You don't take the daily sugar thing seriously, do you?-.
Tacchon sollevò un sopracciglio, trattenendo un sospiro: -How many times do I have to tell you that I like my coffee black and bitter?-.
-...Like your soul- terminò Ryo, divertito. Il francese lo guardò male, facendolo gongolare più forte: -I really think some sugar might help you out with your attitude, you know-.
-There's nothing wrong with my attitude, thank you. Yours, though...- lasciò in sospeso il più giovane, con un ghigno di sfida. L'americano sollevò le braccia in segno di resa, alzandosi dallo sgabello: -Bad day, gotcha- esclamò, per poi piegarsi un po' di più verso il coinquilino.
Tacchon sgranò gli occhi e si ritrasse d'istinto, il viso dell'americano a pochi centimetri (millimetri!) dal suo.
Una pausa enfatica prima che Ryo mormorasse in tono quasi cospiratorio: -Remember that we need sweets every now and then-.
-What's wrong with you???- chiese il francese sconvolto, vedendolo allontanarsi con una risata.
-Nothing!- rispose Ryo, cominciando a canticchiare “A spoonful of Sugar” mentre tornava dietro il bancone.
Tacchon tentò di calmare l'imbarazzo prendendo due lunghi e profondi respiri e rigirando il bicchiere di caffé caldo fra le mani: solo allora si rese conto che sotto la solita scritta del proprio nome, sul fianco bianco della tazza, era stata disegnata una faccina sorridente.
Tentò di nascondere il proprio, di ritrovato sorriso, per paura che il coinquilino lo stesse spiando da lontano.

La giornata aveva, fino a quel momento, avuto i suoi alti e bassi: per una volta non era stata tutta grigia o peggio, tutta nera. Avvenimenti come il complimento della mattinata al college o lo strano comportamento di Ryo nel pomeriggio non gli capitavano frequentemente, così poteva ritenersi soddisfatto dal corso degli eventi fino a quella sera, quando tornò in share-house.
Quando però si trovò di fronte tutti (o quasi tutti) i coinquilini, schierati come neanche un plotone di esecuzione nel salotto con le chiare intenzioni di fargli una ramanzina, tutti i pensieri positivi che aveva avuto sulla giornata si dissolsero: sapeva perfettamente come quel genere di discussioni andavano a finire di solito e non andavano mai a finire “bene”.
-We have to talk- esordì Yoko, facendogli cenno di sedersi sul divano: sembrava il più tranquillo del gruppo, il solo accenno di nervosismo visibile nel modo in cui teneva le braccia conserte strette attorno al torace. Maru era apparentemente appena tornato dalla Spagna e se ne stava seduto in disparte su una sedia della cucina spostata verso il salotto, una maglietta bianca “I -heart- Madrid” addosso e dei ridicoli occhiali da sole dalla montatura rossa e gialla appoggiati sulla testa. Subaru osservava la disposizione dei coinquilini con curiosità ed interesse, capitato in una situazione simile per la prima volta: batteva nervosamente un piede per terra e Tacchon lo sentiva schioccare aritmicamente la lingua sui denti, ma essendosi seduto al suo fianco sul divano, non poteva girarsi con discrezione a controllare che genere di tic involontario provocasse quel suono. Hina ovviamente era il più teso e visibilmente irritato di tutti: lo vide passarsi una mano fra i mossi capelli castani e sospirare un paio di volte prima che iniziasse a parlare: -Are you aware that you forgot to bring in the laundry as I asked you this morning AND wrote on the schedule?- chiese, con una calma forzata, indicando con l'indice puntato la porta di metallo del frigorifero.
Tadayoshi si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa da dietro la mano che aveva portato vicino al viso, per mordersi e mangiarsi le unghie come era solito fare quando si trovava sotto pressione. Shingo sospirò.
-Things can't go on like this, Tacchon... we all have to collaborate- spiegò: -When you were outside it started raining and now the laundry is soaked and needs another wash...-.
Il francese aprì bocca per controbattere, ma fu interrotto velocemente: -And don't try to justify yourself with a sarcastic comment on our clothing styles, because it's not going to make an impression... you're not going to defend yourself with your comments anymore-.
-I'm...-.
-No, Tadayoshi. We're not gonna overlook on your attitude from now on. You live here, you have to collaborate- disse risoluto l'italiano, una mano sollevata come a voler bloccare i tentativi di controbattuta di Tacchon.
-I never wanted to...- provò ancora una volta il francese, ma questa volta fu Yoko ad intervenire: -You eat the food Hina makes and you use every day the common areas we help cleaning, so you should do your part too- spiegò con estrema calma, come se avesse speso del tempo a cercare le parole giuste o provasse una certa resistenza al pronunciarle. Tacchon si rese conto solo in quel momento quanto il giapponese non fosse nervoso, ma più che altro intimorito dalla situazione.
Ma questo non sarebbe bastato a fargli accettare un processo contro di lui senza tentare di difendersi: -I never asked for you to cook or clean or fold my laundry, which you do very inadequately, anyway!- sbottò, facendo scattare gli occhi tristi di Maru nella sua direzione: -I never asked for you to mother me like this!- gridò a Hina, facendo all'improvviso indurire lo sguardo di Yoko.
Shingo si passò una mano sul viso e rispose: -That doesn't mean you don't NEED us to, Tacchon... would you do all the cleaning and stuff by yourself if we stopped?-.
-I...- tentò di rispondere il francese, ma si bloccò in tempo, abbassando la mano ormai stretta a pugno, le unghie appena corrose a contatto con la pelle gelida del palmo: -I never asked for you to do any of that. I don't need a mother or a father or a family, anyway... I'm not spoiled, I can take care of my own- mormorò, incapace di trattenere le parole: non capiva neanche se le stesse pronunciando davvero o solo pensando.
Subaru fece per appoggiargli una mano sulla spalla, intuendo solo parzialmente l'origine della sua rabbia ed irritazione, ma Tadayoshi si ritrasse, ricacciando indietro le lacrime con forza.
-Ne me touche pas!- gridò: -I don't need you! I don't need any of you!- ringhiò rivolto al giapponese, che sembrò istantaneamente ferito, come se si fosse scottato con del fuoco. Lo vide alzarsi dal divano, sollevare la propria custodia della chitarra e fuggire fuori dalla share-house, sbattendo la porta d'ingresso alle sue spalle.
-Tacchon!- protestò debolmente Maru, facendolo irritare ancora di più.
-Shut up, Maru!- gridò, alzandosi in piedi: -You're the last who shoud talk right now! You've being spoiled by them for years and you can't see how SICK this situation is!- guardò Yoko, facendo quasi spaventare il più grande: -You are threating us like kids, like we're retarded! And you- indicò nuovamente Shingo, che si era alzato a sua volta, scuro in viso: -You play this game like you're not aware of it! You can't force me to be the brother or the son you can't have! You can't...-.
Lo schiaffo lo colpì con estrema violenza sulla guancia destra.
Si ritrasse, coprendosi la porzione di viso ferita con entrambe le mani e guardando l'italiano negli occhi con timore e sorpresa. Aprì e chiuse la bocca più volte, ma le parole per una volta faticavano a formarsi nella sua testa. Shingo abbassò la mano ancora alzata, fermato dall'istintivo movimento di Yoko alle sue spalle.
-Non. Una sola. Parola. Di più- disse con gelida lentezza Hina in italiano, parole tanto chiare che persino il francese riuscì perfettamente a capirne il significato.
-Hina, please...- sospirò Yoko, pallido e preoccupato.
Proprio mentre le lacrime iniziavano a riformarsi sugli occhi di Tacchon e offuscargli la vista, la porta d'ingresso si aprì ed entrò Ryo fischiettando la stessa canzone di Mary Poppins di prima: l'americano si bloccò non appena lanciò uno sguardo al salotto e chiese, curioso: -Hey, guys! Wass'upp?-.
La ritirata di Tadayoshi nella propria stanza fu fulminea: continuò a nascondersi la guancia arrossata per evitare che l'americano la vedesse e con la mano libera aprì e chiuse la porta verde con estrema violenza. Ci si appoggiò contro, il respiro affannoso che copriva solo parzialmente le poche parole che i coinquilini si stavano ancora scambiando in salotto.
Si accucciò a terra, le braccia sulle ginocchia e la testa abbassata, la schiena ancora contro il legno della porta: doveva respirare lentamente, chiudere gli occhi... ma in fondo ad un profondo sospiro apparve il primo singhiozzo. Le guance si rigarono non appena si rese conto di aver di nuovo paura, di aver di nuovo mentito, di essere di nuovo fuggito.
“Non... je n'ai pas menti” ...quella volta, si corresse.
La guancia gli faceva un male cane, ma non era per quella che piangeva... non era mai per il male fisico che piangeva. Anche suo padre... non, mon père... pas plus... anche lui l'aveva schiaffeggiato.
Vous n'êtes plus mon père. Non era stato lui a dirlo, quella volta. Non era stato lui a decidere di andarsene, di smettere di essere una famiglia, di venire rinnegato per quello che aveva finalmente ammesso... je n'ai pas menti.
Tu n'est pas plus mon fils.
Singhiozzò forte contro i palmi delle mani che aveva sollevato per asciugarsi il viso, tentare di trattenere le nuove lacrime. Gli mancava l'aria, si sentiva soffocare... gli mancava il respiro per i troppi singhiozzi, gli mancavano Lione, casa sua, la sua famiglia, la sua vita.
Si alzò in piedi asciugandosi con forza il viso nella manica della camicia che indossava e rimase per qualche secondo in ascolto del silenzio dietro la porta, del ritmo irregolare del proprio respiro. Girò la maniglia e si ritrovò immerso nel buio della sera e nel silenzio del salotto vuoto: infilò le scarpe, si scordò della giacca e dell'ombrello e corse fuori, sotto la pioggia gelida di Dublino.
Camminò lentamente per le strade poco trafficate, immerso nei pensieri e nei ricordi, distratto dalle grida che gli risuonavano nella mente. Quello che una volta era stato suo padre, quella che una volta era stata sua madre. Il nonno. Quegli stupidi dei suoi coinquilini.
Gli tornò alla mente una canzone che sua mamma (quella che era stata sua mamma) gli cantava quando era piccolo e non riusciva ad addormentarsi. La ripeté nella mente, come per calmarsi usando un ricordo cancellato dal tempo e dagli eventi: Tous les garçons et les filles de mon âge se promènent dans la rue deux par deux... Tous les garçons et les filles de mon âge savent bien ce que c'est d'être heureux... tutti i ragazzi e le ragazze alla mia età. Rise amaramente fra sé e sé per l'ironia: “proprio adesso doveva tornarmi in mente?”
Oui mais moi, je vais seule...
Forse in fondo anche sua mamma l'aveva sempre saputo. Forse in fondo sarebbe sempre stato solo, diverso.
“E' colpa mia. E' colpa di come allontano le altre persone”.
“Non posso permettere che si avvicinino”.
Sollevò lo sguardo nella pioggia fitta e si trovò all'angolo di una piazza: nel frusciare di vestiti di persone che fuggivano dall'umido della strada serale e nel battere incessante delle gocce nelle grosse pozzanghere ai suoi piedi, distingueva senza difficoltà una melodia ed una voce. Un ragazzo stava suonando seduto per terra, fradicio tanto quanto lo era lui, privo di protezioni contro il freddo ed il bagnato tanto quanto lo era lui.
Si avvicinò lentamente, riconoscendo la figura di Subaru: cantava con forza, ma senza rabbia.
I lunghi capelli corvini gli ricadevano in rivoli sul collo e le spalle ed alcune ciocche gli si erano appiccicate sul viso, smosse dal vento. La chitarra soffriva il maltempo tanto quanto il suo padrone, ma non smetteva di produrre la misteriosa, decisa melodia.
Una figura si mosse al limite del campo visivo del francese, che si fermò all'istante: osservò il ragazzo dall'ombrello azzurro farsi avanti nella piazza deserta, ignorando la sua presenza per la totale concentrazione su Subaru. Allungò in avanti l'ombrello e coprì il cantante dalla pioggia, facendo in modo che la canzone si fermasse, i loro sguardi si incontrassero: Tadayoshi riconobbe il suo compagno di scuola orientale dai vestiti e dal cappello che aveva visto quella mattina.
Subaru aprì la bocca per dire qualcosa che il francese non riuscì a sentire, da lontano.
In risposta, il ragazzo dall'ombrello azzurro si abbassò, sedendosi sui talloni e senza smettere di coprire entrambi dalle sferzate di vento e pioggia. Gli sembrò di vederli sorridere.
Gli sembrò, all'improvviso, di non avere più motivo di sentirsi solo.
Gli sembrò il caso di lasciarli, tornare a casa e farsi una doccia calda.

Tacchon, oh caro Tacchon... XD
- À Lyon, À la maison... = a Lione, a casa
- de temps en temps = di tanto in tanto
- La même chose que toujours = la stessa cosa di sempre
- Ne me touche pas! = non toccarmi
- Non... je n'ai pas menti = No... non ho mentito
- Vous n'êtes plus mon père = non siete più mio padre
- Tu n'est pas plus mon fils = non sei più mio figlio
- Testo della canzone di Francoise Hardy "Tout les garçons et le filles" (davvero Checco Zalone l'ha usata nel nuovo film? XD Io la conosco dalle medie!). Tous les garçons et les filles de mon âge se promènent dans la rue deux par deux... Tous les garçons et les filles de mon âge savent bien ce que c'est d'être heureux... = tutti i ragazzi e le ragazze alla mia età camminano per la strada a coppie... tutti i ragazzi e le ragazze alla mia età sanno bene per cosa c'è da essere felici
Oui mais moi, je vais seule = sì, ma io cammino solo.
E tanto per gradire, la mia adorata Julie Andrews in "A spoonful of sugar"

r: pg, g: kanjani8, gnr: long fict, gnr: au

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