Titolo: Tashika na mono
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, AU!
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Nelle ultime manciate di decenni Tokyo, una delle più grandi città industrializzate in tutto il pianeta Terra, aveva subito cambiamenti che la maggior parte degli studiosi aveva definito “semplicemente incredibili”.
Note: Scritta per la
500themes-ita con il prompt “101. Sofferenza volontaria” e per il COW-T3 di
maridichallenge con il prompt “Future!AU”
WordCount: 3217 fiumidiparole
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Nelle ultime manciate di decenni Tokyo, una delle più grandi città industrializzate in tutto il pianeta Terra, aveva subito cambiamenti che la maggior parte degli studiosi aveva definito “semplicemente incredibili”.
Alla velocità della luce, le allora recenti scoperte scientifiche avevano permesso all’umanità intera di bruciare tappe evolutive che i più tradizionalisti avevano sempre definito “indispensabili per il corretto sviluppo etico e morale del genere umano”, ma senza venire mai ascoltati.
A causa della scoperta di una pietra minerale apparentemente sconosciuta sulla Terra nell’ormai lontano 1950, i più importanti scienziati erano stati finalmente in grado di perfezionare non solo le tecnologie terrestri, quali i mezzi di trasporti, di comunicazione o quelle utilizzate per le energie combustibili, ma in un batter d’occhio gli esseri umani si erano ritrovati nella situazione di poter finalmente viaggiare nello spazio, raggiungendo in poche ore tutti i pianeti del Sistema Solare permettendo così la creazione di numerose basi spaziali che avevano consentito così un ulteriore sviluppo del genere umano al di fuori del Sistema Solare stesso.
Anche la società stessa aveva subito un profondo cambiamento radicale. Non solo c’era stata la creazione di nuove caste sociali, leggi e una nuova concezione di moralità e di umanità, ma essendo stato il popolo giapponese fra i più importanti sviluppatori della tecnologia e dell’uso dell’ “Alien Stone”, come veniva chiamata la pietra scoperta decenni prima, anche la lingua inglese, considerata mondiale, era stata rapidamente soppiantata da quella giapponese.
Yabu Kota aveva sempre sognato in un mondo diverso da quello in cui viveva. Fin da piccolo, quando ancora abitava in una Tokyo industrializzata e schiava di una tecnologia che sembrava essere diventata sempre più indispensabile, sognava di poter raggiungere in un piccolo pianeta dove tutto quello non aveva ancora contaminato la purezza di un paesaggio naturale.
Fin da quando aveva raggiunto l’età per poter effettuare dei viaggi spaziali da solo, non aveva mai smesso di girare. I suoi genitori facevano parte di una di quelle poche famiglie di scienziati che all’epoca aveva avuto la furbizia e la prontezza mentale di dedicarsi a tempo pieno nello sviluppo di nuovi usi della pietra, investendo in un progetto ch si era rivelato particolarmente interessante, cioè lo sviluppo di nuovi propulsori spaziali che utilizzavano la carica elettromagnetica di un propellente gassoso la cui carica era contemporaneamente potenziata dall’ “Alien Stone”.
Da quando i viaggi spaziali si erano sviluppati ed erano una prerogativa solo di alcuni ricchi e da quando solo alcuni in tutta la popolazione terrestre potevano permettersi un insediamento nelle colonie terrestri, la famiglia di Kota era stata improvvisamente catapultata in una casta quasi chiusa. Il loro rango, quello di “Sumato kanemochi”, cioè i ricchi intelligenti, che raggruppavano tutti gli scienziati, dotti ed esperti che grazie all’ “Alien Stone” erano diventati di colpo ricchi, non solo permetteva all’intera società di essere riconosciuti per il loro valore monetario e intellettivo, ma permetteva anche di ricoprire determinate cariche politiche, economiche e amministrative che per altri erano completamente interdette.
Anche in quel momento Kota viaggiava, come aveva sempre fatto in quasi ogni momento della sua vita. Aveva studiato su molti pianeti, aveva conosciuto colture differenti dalle sue, già sottomesse da anni all’esercito terrestre ed era riuscito ad integrarsi con successo in tutte le civiltà e proprio grazie a loro era riuscito in molti casi a non lasciarsi andare, a non perdere il contatto con una realtà che gli piaceva, per diventare poi esattamente come i suoi genitori.
Non gli piacevano loro. Non erano mai stati uguali, Kota lo aveva sospettato fin dal principio. Non era particolarmente attaccato ai soldi e tutto quello che riusciva a fare, lo faceva grazie alle proprie capacità, grazie alla propria costanza e al proprio impegno.
Aveva tentato di allontanarsi fin da subito da quel mondo, nonostante il cognome che portava fosse un po’ come un macigno, che lo costringeva a ricordarsi costantemente chi e che cosa fosse.
Sospirò, distogliendo l’attenzione dalle propria ginocchia, appoggiandosi al vetro del veicolo spaziale e guardando l’immensità dello spazio che stava attraversando.
Un grande e immenso luogo ancora tutto da esplorare, nero come la pece, intervallata da piccoli punti che erano pianeti, stelle, sistemi solari che l’esercito terrestre aveva colonizzato.
Spostò lo sguardo verso destra, verso il mondo che aveva appena lasciato e su cui forse non sarebbe più tornato.
Si sdraiò nella sua incubatrice, meditando se inserire o meno il filtro che avrebbe regolato la sua attività notturna e il suo sonno, che gli avrebbe permesso un sonno lungo e ristoratore, senza incubi o sogni.
Osservò lo spinotto fra le proprie mani e poi lasciò perdere. Voleva sognare, ricordarsi finché ne aveva ancora capacità. Voleva ricordarsi tutto, ogni singolo momento della vita che aveva vissuto su quel pianeta fino a quel momento.
Al suo risveglio avrebbe pensato alla propria vita. Per i due mesi di sonno che lo separavano dalla Terra, avrebbe sognato.
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Quando era arrivato su Gamma 12X-54 aveva solo venticinque anni, i capelli lunghi, un paio di occhiaie dovute all’eccessiva attività durante il suo sonno mentre era ibernato e una borsa con dentro pochi effetti personali.
Lavorare su quel pianeta gli era sembrata fin da subito una buona idea. Era lontano dalla Terra e da tutti i suoi giochi di potere, l’aria del pianeta sembrava ideale e poi la popolazione che vi abitava era pacifica, molto più di molte altre, dove vi era ancora stanziato l’esercito terrestre per evitare rivolte.
Gamma 12X-54 si trovava nel quadrante più interno di quel nuovo Sistema Solare, il verde era ancora rigoglioso, la natura governava ancora su ogni singola creatura, umana e non, e poi per lui era un mondo ancora completamente sconosciuto.
Per fortuna loro gli avamposti terrestri si trovavano situati solo su una piccola porzione del pianete e i coloni umani vivano in pace e armonia.
Tasantìr era il nome degli indigeni e Kota pensava che calzasse alla perfezione. Non sapeva ben spiegarsi il perché ma quando aveva letto i pochi articoli su di loro e il nome che avevano, aveva sentito una buffa sensazione di pace e tranquillità.
Anche per quello aveva deciso di andare laggiù. Per staccare la spina dalla sua vita, per dimenticare gli orrori di una Tokyo impazzita, per tornare seriamente a vivere.
Quando mise piede nel palazzo principale della cittadina di Asham, una delle poche città terrestri, venne raggiunto dal sindaco, il cui nome proprio faticava a ricordarlo. Era un ometto basso, quasi senza capelli, ma sembrava a suo agio con la propria persona. Yabu ricordò con poco piacere come ormai sulla Terra chiunque che avesse un po’ di soldi ricorresse disperatamente alla chirurgia estetica, cercando di raggiungere un modello che era quasi sempre impossibile da far diventare proprio.
E non solo. Negli ultimi anni si era anche sviluppata la tendenza di modificare il codice genetico direttamente negli ovuli, permettendo così la nascita di bambine e bambini praticamente perfetti.
Yabu rabbrividì. Si guardò intorno, cercando qualche rappresentante della razza dei Tasantìr, senza trovarli. Kota era a capo di una spedizione di ricerca sui loro costumi, e puntava a pubblicare in breve tempo degli articoli ben dettagliati e, perché no, dei libri scientifici sulle differenze sostanziali e non fra le loro razze. Era incuriosito da loro e ricordava di aver già parlato con loro tramite interfono spaziale, premurandosi di mandargli tutti i dettagli sul loro arrivo, sul contenuto della ricerca e tutto il resto. Sapeva che sarebbe stato difficile non notarli, eppure strinse gli occhi stanchi, continuando a cercarli. Il sindaco ridacchiò, pregandolo di non trovare la loro assenza come una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Si trovavano nel periodo sacro per i Tasantìr e difficilmente ne avrebbe visto uno dei dintorni per almeno altri sei o sette giorni.
Kota, affascinato fin da subito, annuì energicamente, dicendogli che non era sua intenzione interferire con le culture e le religioni della civiltà del pianeta. Si fece perciò accompagnare ai suoi alloggi e, appena steso nel letto, crollò addormentato senza nemmeno svestirsi.
Kota passò una settimana gironzolare per la colonia, cercando di ambientarsi il più possibile alla presenza quasi spropositata di verde, sentendosi quasi come fuori posto con il suo computer, il suo telefono personale e l’interfono spaziale piantato direttamente in camera, con le sue attrezzature simili alle vecchie macchine fotografiche compatte e i vecchi registratori.
Al villaggio nessuno sembrava così smanioso di un collegamento interspaziale o di viaggiare per altri pianeti. Era presente un solo interfono, una sola piattaforma di partenza e giusto un paio di soldati dell’esercito terrestre che sembrano più guardie cittadine che altro.
Quella mattina stava camminando lungo la strada principale, cercando un posto un po’ riparato dal vento dove poter mangiare quando di fronte a lui si avvicinò quello che sembrava in tutto e per tutto un rappresentante della razza dei Tasantìr.
Kota inghiottì. Visti dal vivo erano decisamente un’altra cosa rispetto alle pochissime fotografie e rappresentazioni che aveva studiato.
Quello che avanzava verso di lui era alto all’incirca quanto lui, aveva la pelle quasi completamente bianca e lunghi capelli neri come la pece, che quasi stonava con il candore della sua carnagione. Poi, osservandolo meglio si avvicinava, Kota sentì il fiato mozzarglisi in gola. Il volto sembrava quello di una volpe, con il muso un po’ appuntito, dei baffi lunghi e dorati e due piccole orecchie pelose spuntavano fuori dai capelli, muovendosi velocemente.
Anche intorno ai polsi e alla caviglie, completamente nude c’era una piccola striscia di pelo, dello stesso colore dei capelli e poi all’improvviso vide spuntare anche una lunga e folta coda, sempre nera.
Fra i capelli, che si appoggiava sulla fronte bianca, si trovava un diadema dorato, simile a quelli che leggeva nei suoi libri popolati da fate ed elfi e sugli zigomi si trovava una fila di piccole pietre simili a rubini che finivano fra i capelli, raggiungendo forse le orecchie ai lati della testa.
Indossava una semplice canotta di cuoio e quelli che sembravano dei pantaloni corti, abbigliamento molto umano, doveva ammettere Kota.
Yabu rimase in silenzio per tutto il tempo che il Tasantìr impiegò per arrivare da lui, studiando ogni forma antropomorfa e animale che si mischiavano elegantemente nell’esemplare di fronte a lui.
Quando se lo ritrovò davanti, aprì bocca per salutarlo, ma l’altro fece un semplice inchino, interrompendolo e poi si alzò di nuovo eretto.
« Il mio nome è Nemara. » esordì con voce un po’ acuta « Sono il principe dei Tasantìr. »
« Ah. » Kota imitò goffamente il suo inchino « Mi chiamo Yabu Kota. E… sono uno studioso. Della Terra. » aggiunse poi.
Kota fu quasi sicuro di vedere un lieve sorriso spuntare da sotto i baffi del ragazzo davanti a lui, anche se non era molto sicuro che “ragazzo” fosse il termine più adatto per descriverlo.
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Kota si svegliò durante il sonno che avrebbe dovuto accompagnarlo di nuovo verso la Terra. Non era molto sicuro di essere pronto per il rientro, né che fosse stata la mossa più saggia andarsene da Gamma12X-54 in quella maniera, praticamente all’improvviso.
Aveva retto per qualche giorno, forse un paio di settimana, ma alla fine i ricordi lo avevano schiacciato come se fossero stati macigni e lui non era stato in grado di reggere il confronto fra passato e presente.
Aveva abitato sul pianeta per quasi quattro anni, si era perfettamente integrato con i Tasantìr, con la loro cultura, con la natura, con la loro religione.
Aveva scoperto molte cose su di loro e nel corso dei mesi alcuni dei suoi articoli erano stati pubblicati sulla biblioteca intergalattica della sua casta sociale, era andato a diverse conferenze per esporre e spiegare quel pianeta, ma poi alla fine tornava sempre ad Asham, ma specialmente, tornava sempre da Nemara.
Kota uscì dalla sua incubatrice, osservando il proprio riflesso nello specchio, trovando il proprio riflesso più vecchio di quello che era realmente. Socchiuse gli occhi, appoggiandosi al muro al suo fianco, prima di dare una violenta testata contro lo specchio, tentando di distruggere in ogni maniera il proprio riflesso, tentando di distruggere quel sé stesso che aveva appena ucciso tutto ciò che possedeva. Una sofferenza volontaria che era necessaria, perché il dolore avrebbe attutito qualunque altro tipo di dolore che provava. Necessitava di distruggersi, di nuovo e di nuovo.
Si portò una mano alla fronte, osservando poi il sangue sulle mani e sentì gli occhi diventare lucidi e bruciargli, appannandogli la vista.
Il suo sangue era così simile a quello di Nemara che quasi gli venne voglia di strapparsi ogni singola vena che possedeva, per arrivare poi a dissanguarsi. Forse solo in quella maniera sarebbe riuscito a riprendersi.
Un sonno eterno, senza più essere costretto a sognare e a ricordare.
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Come era iniziata la sua storia con Nemara rimaneva un mistero per Kota. Forse per l’altro era abbastanza chiaro, almeno così sembrava data la sua aria che sembrava dire a tutti e a tutto che lui sapeva perfettamente tutto ciò che stava accadendo.
Kota aprì leggermente gli occhi, disturbato da uno spicchio di sole che era penetrato dalla tenda lasciata leggermente aperta. Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di starnutire all’improvviso. Si alzò a sedere, allungando una mano per prendere il fazzoletto e soffiarsi il naso.
Poi sorrise e si voltò verso il Tasantìr accanto a lui. Nemara sembrava incredibilmente docile quando dormiva. Aveva tutti i capelli arruffati sparsi sul suo cuscino e la coda e le orecchie si muovevano in continuazione, anche se stava dormendo.
Si avvicinò a lui, circondandogli la vita con un braccio e tirandolo verso di sé e mordendogli delicatamente il collo. Nemara aveva la pelle talmente chiara che non voleva lasciare segni evidenti del suo passaggio.
Il ragazzo sotto di lui si agitò lievemente e il fianco di Kota fu colpito con la coda e finalmente Nemara aprì gli occhi, voltandosi verso di lui e tirandolo meglio sopra di sé.
« N-Nemara, cosa fai? » ridacchiò Kota sistemandosi meglio sopra di lui.
« Voglio il mio buongiorno. » mugolò con la voce stanca di chi si è appena svegliata « E poi devi andare a prepararmi il caffè. » concluse afferrandogli i capelli in una mano e tirandolo verso di sé, baciandolo avidamente.
Kota non se lo fece ripetere più di una volta. Divorò ogni centimetro della sua pelle, spogliandolo del pigiama che indossava, lasciandolo nudo sotto di lui. Le mani dalle dita incredibilmente lunghe di Nemara scivolarono delicatamente sotto l’elastico del pantalone che indossava Kota, lasciandolo nudo, stringendogli l’erezione fra le dita e iniziando a muovere la mano ritmicamente, su e giù, lentamente, come se non aspettasse altro che il più grande lo implorasse di continuare.
E Yabu non impiegò molto prima di iniziare a chiedere di più, di muovere i fianchi in maniera sempre più veloce e fu a quel punto che Nemara scivolò sotto di lui, potando il viso all’altezza dell’erezione di Kota, prendendogli la punta in bocca e iniziando a leccarlo e a succhiarlo, sempre lentamente, osservando ogni smorfia di godimento che spuntava sul viso del più grande.
Kota sentiva che stava quasi per venire, la lingua e la bocca di Nemara, nonostante la lentezza, lo avevano eccitato fin oltre le previsioni quindi si affrettò ad uscire dalle sue labbra e tornò in mezzo alle sue gambe, allargandole, preparandolo frettolosamente e poi entrando dentro di lui con più brutalità. Nemara affondò le lunghe unghie affilata nelle sue spalle, mordendogli la carne con i canini pronunciati, ma Kota praticamente non sentiva nessun dolore. Gemette a voce alta, continuando a spingere dentro il corpo di Nemara, così incredibilmente simile a quello di un uomo in certi casi, da farlo diventare quasi pazzo.
I mugolii del più piccolo si mischiarono dopo breve tempo ai suoi, coprendo il rumore fatto dagli animali fuori da Asham, rompendo il silenzio idilliaco del primo mattino fino a che non decise di afferrare l’erezione di Nemara con una mano, senza riuscire a smettere di spingere, volendo farlo godere così come stava godendo lui.
Gli artigli del Tasantìr lo ferirono ancora di più, ma come ogni giorno Kota si concentrò solo ed esclusivamente sul piacere che stava provando, sulla voce dell’altro che gemeva il suo nome che urgenza, sul corpo incredibilmente stretto di Nemara che sembrava quasi risucchiarlo, fino a che non lo sentì venire contro il suo stomaco e lui non venne dentro di lui.
Yabu si accasciò al suo fianco, questa volta il silenzio spezzato dai loro respiri affannati e già stanchi.
« Sei un animale a letto Nemara. » sussurrò Kota osservando alzarsi seduto.
L’altro incrociò le braccia al petto e il più grande fu teneramente schiaffeggiato dalla coda del fidanzato.
« Mh. Io sono sempre un’animale. » commentò solo prima di infilarsi di nuovo il pigiama e alzarsi in piedi « E io sto ancora aspettando il mio caffè Ko! » gli ricordò prima di chiudersi in bagno per farsi una doccia.
Kota ricadde di nuovo sul letto, ridendo. Se pensava che aveva abitato venticinque anni senza conoscerlo e senza conoscere quel pianeta, Kota si diceva che era sopravvissuto solo per mera fortuna.
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Yabu non aveva mai avuto cattive intenzioni. Non aveva cattive intenzioni quando scrisse del popolo dei Tasantìr, non aveva cattive intenzioni quando esponeva i suoi articoli alle conferenze intergalattiche e non aveva cattive intenzione nemmeno quando per sbaglio un anno interruppe una cerimonia sacra, procurandosi un’occhiataccia di rimprovero da parte di ogni membro dei Tasantìr e un broncio durato quasi due mesi da parte di Nemara.
Di certo non si aspettava tutto quello quella mattina, al suo rientro su Gamma12X-54. Non si aspettava di vedere il pianeta in fiamma, la colonia distrutta e i villaggi sugli alberi dei loro amici distrutti.
Non si aspettava di vedere un immenso tappeto bianco a terra, prima di rendersi conto che in realtà quelli erano solo i cadaveri devastati di ciò che un tempo era la popolazione dei Tasantìr e non si aspettava nemmeno di trovare il corpo ormai morto da chissà quanto tempo di Nemara nella sua stanza.
Non si aspettava di vedere la Federazione Terrestre mentre già si preparava a colonizzare e rendere tecnologico il pianeta e né che avrebbero utilizzato le sue ricerche scientifiche e pacifiche per distruggere e devastare ogni cosa, persona, Tasantìr e animale presente su Gamma12X-54.
Uscì lentamente dal bagno, sempre con il viso sporco di sangue, con le mani imbrattate di sangue, macchiando indelebilmente tutto quello a cui si appoggiava. Inizia a sentirsi debole, stanco, troppo stanco per continuare a vivere.
Kota non era sicuro che ce l’avrebbe mai fatta a sopportare il peso dei propri errori, della propria ingenuità, il peso della morte che incombeva su di lui e che sembrava puntargli contro un dito accusatore, mentre gli urlava di essere un volgare assassino.
Scivolò lungo il pavimento e poi allungò debolmente una mano per tentare di raggiungere il pulsante per aprire la porta, ma poi ridacchiò, lasciando ricadere pesantemente la mano accanto a lui.
Si trovava nel reparto alloggi, dove tutti gli altri dormiva, dove non entrava mai nessuno se non di tanto in tanto qualche dottore per controllare che tutti i parametri dei passeggeri fossero al livello giusto.
Non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarlo, ma in fondo Kota non voleva aiuto. Non voleva che lo salvassero perché meritava la morte, solo quella.
Aveva distrutto con le proprie mani tutto che amava, tutto ciò che lo rendeva veramente umano e senza Nemara, senza la sua popolazione, senza quel pianeta ancora puro e immacolato nulla sarebbe stato lo stesso.
Socchiuse gli occhi. Fu felice di morire in quel modo, lontano da ogni congegno che gli avrebbe impedito di sognare e ricordare.
Voleva morire e l’ultima cosa che voleva vedere impresso nella propria mente prima di andarsene, era solo il sorriso di Nemara. Nulla di più.
Chiuse definitivamente gli occhi. Poi, il buio lo avvolse e non sentì più nulla.