Titolo: You don't belong here, but here you found his heart.
Autrice:
perlinhaBeta:
sanzina89Personaggi: Steven Gerrard/Xabi Alonso
Fandom: Football RPS
Rating: R
Parole: 8539 (OO)
Warning: AU, slash
Disclaimers: è un'AU, più invenzione di così!
Note: tentando di riprendermi dallo shock provocato dal banner a sorpresa (DIOèLACOSAPIùBELLADELMONDOèLAPERFEZIONENONCELASTOFACENDO), vi butto lì un po' di note:
- non so come funzionano le università in Inghilterra, quindi ho mischiato il sistema italiano a quello spagnolo (sì, potevo chiedere. Mi sono pesate alquanto le natiche, mea culpa XD);
- ho come la sensazione che all'università di Liverpool NON ci sia una facoltà di lingue;
- ma in fondo chissene;
- il titolo è preso dalla meravigliosa City Lights di Elisa;
- nota seria: questa ff è dedicata a un po' di persone, come ad esempio il mio fantastico prof di catalano che ci ha portato davvero al centro commerciale; a Irene che voleva assolutamente qualcosa con il cibo e ha trovato (letteralmente?) pane per i suoi denti; ma soprattutto a
sanzina89 e il suo indescrivibile lavoro. Un vero e proprio atto d'amore per questa ff. Senza di te questa cosa non sarebbe nemmeno la metà di quello che è, e io non ne sarei nemmeno la metà soddisfatta. E tutto ciò A PRESCINDERE dal ajdhfjadhbfjahvsjh banner che vedete qui sotto. Quindi immaginate quanto voglia bene a questa donna in questo momento. *l'abbraccia accozzandosi*
(banner gift♥ by
sanzina89 )
You don't belong here, but here you found his heart.
Le lezioni del prof. Alonso erano quelle più affollate. Per qualche strano motivo tutti ritenevano indispensabile frequentarle dalla prima all'ultima. La scusa più usata era "Lo spagnolo è una lingua difficile, ti perdi due ore e sei finito!", seguita da "Sono così interessanti, il prof trova sempre una nuova attività da proporci!" e "Con lui imparare una lingua straniera sembra quasi facile. Se segui e prendi appunti, ovviamente".
La verità era semplicemente che il prof. Alonso era l'uomo più bello che avesse mai messo piede all'università di Liverpool. Non c'era mascellone dell'ultimo anno o giovane e acerba matricola che reggesse il confronto con il portamento da attore d'altri tempi dell'insegnante di Lingua e Traduzione Spagnola. Con il suo viso dai tratti nobili. Con il suo gusto impeccabile nel vestire. Con il suo fisico atletico e asciutto solo indovinabile sotto i suoi costosi completi che potevano variare improvvisamente verso jeans e maglietta da un giorno all'altro, non intaccando di una virgola il suo stile. Per non parlare del suo carisma magnetico e del suo senso dell'umorismo quasi inglese.
I suoi studenti si ritenevano i più fortunati del mondo, mentre quelli che disgraziatamente avevano scelto un'altra lingua si mordevano i gomiti, si intrufolavano lo stesso alle sue lezioni o pensavano seriamente di cambiare corso. Persino quelli delle altre facoltà conoscevano la sua fama. In pratica, tre quarti del campus gli sbavavano dietro senza ritegno, e il restante quarto lo faceva con un po' più di dignità.
Ah, ovviamente era anche un professore eccezionale. Le sue lezioni erano davvero interessanti e leggere. Aveva un metodo efficacissimo, e un ottimo gusto in tutto, a giudicare dai film e telefilm che proiettava a lezione, dalle canzoni che faceva loro ascoltare, dai libri su cui li esaminava. Era aggiornatissimo su attualità, politica e tormentoni spagnoli, così non farete mai figuracce. Ricordava a memoria i nomi di tutti i suoi studenti e riusciva senza il minimo sforzo a collegarli alle rispettive facce, nonostante ogni settimana ci fosse qualcuno di nuovo.
Ed era proprio per questa sua particolare capacità che quel giorno l'aveva notato immediatamente, seduto a braccia conserte, seminascosto nell'ultimo posto della terza fila, l'espressione inconfondibile di chi aveva da poco abbandonato il letto molto a malincuore - un broncio assonnato, gli occhi persi nel vuoto. I capelli corti, dalla stranissima attaccatura, sparati in aria più dalla mancanza di un pettine che dall'accurato lavoro del gel. Una t-shirt grigia che avrebbe potuto benissimo essere un pezzo di pigiama dimenticato addosso, dei jeans consumati, scarpe da ginnastica. Tutto in lui era semplice ed essenziale, tranne la postura, che tradiva la tipica incertezza della prima lezione: la metà superiore quasi corrucciata, chiusa, incrociata; quella inferiore rilassata, una gamba allungata di lato sulle scale, l'altra invisibile sotto il banco.
Dopo anni di esperienza, aveva ormai imparato a riconoscere gli alunni veramente interessati al corso da quelli veramente interessati al professore. La tecnica era molto semplice: controllare
1- cosa avevano sopra il banco (cellulare e bottiglietta d‘acqua per i suoi fans, quaderno penna e orologio per gli altri), e
2- la direzione del loro sguardo (gli studenti "veri" si guardavano intorno, quelli farlocchi facevano una strana altalena di pupille guardando lui e subito abbassando lo sguardo, poi riprovandoci e subito tornando a guardare le proprie scarpe o il banco o il cellulare, poi rialzando gli occhi e subito giù e così via finché non aveva troppo mal di mare per osservarli ulteriormente).
Nel caso di pigiama-e-jeans aveva avuto qualche difficoltà, perché sul banco non aveva niente, e sembrava come in trance, intento a fissare il seggiolino di fronte senza vederlo. Sembrava veramente preso a lottare contro se stesso per non addormentarsi sbattendo la testa sul banco, ma allo stesso tempo il piede appoggiato sulle scale laterali aveva ogni tanto uno scatto nervoso, tentava di battere un tempo da batterista ubriaco, per poi arrendersi e tornare all'immobilità.
Alla fine aveva risolto che probabilmente era uno di quei rarissimi studenti costretti per motivi sconosciuti a seguire il suo corso, e aveva quindi deciso di provare a motivarlo un po', facendolo scendere per primo a presentarsi davanti a tutti. Cosa che era capitata ovviamente a ognuno dei suoi compagni e sarebbe presto toccata agli altri nuovi - non era l‘unico, infatti, quel giorno. Solo che il professor Alonso aveva impiegato tutto il tempo che di solito dedicava a studiare i nuovi, per osservare lui. Che strano, pensava.
La sua voce calma e profonda riempì la grande aula ad anfiteatro e subito tutti si zittirono per capire cosa stesse dicendo - ovviamente parlava in spagnolo. "Vedo che anche oggi abbiamo nuovi acquisti," sorriso compiaciuto, sospiri in aula, "bene, molto bene. Io mi chiamo Xabier Alonso - ma voi chiamatemi Xabi, detesto le formalità di voi inglesi," ridacchiare divertito, altri sospiri, "e insegno Lingua e Traduzione Spagnola. L'obiettivo di questo corso sarà portarvi tutti da un livello iniziale a uno intermedio - diciamo B1, B2 per i più volenterosi. È per questo che mi sentirete raramente parlare inglese a lezione, perché voglio che impariate bene anche la pronuncia - se poi disgraziatamente prenderete anche il mio accento…" altro sorrisino, sospiri sempre più malcelati. "Sono basco" aveva specificato, "e molto orgoglioso di esserlo. Quello che vorrei veramente fare è insegnarvi l'euskara, ma poi rimarremmo in tre a lezione, e mi toccherebbe un'aula più piccola, e avrei meno comodità, eccetera eccetera." Aveva agitato teatralmente una mano, causando risatine tra i banchi. "Ma ora tocca a voi, vi chiamerò uno per uno e verrete qui accanto a me a presentarvi ai vostri colleghi. Comincia tu." E aveva piantato gli occhi in quelli di voglio-tornare-a-dormire, che improvvisamente aveva spalancato i suoi in un'espressione di terrore puro e si era indicato con il pollice sussurrando un flebile "Io?"
"Tu, tu, certo. Vieni" inclinando un po' la testa aveva sorriso incoraggiante, mentre con estrema riluttanza sono-diviso-tra-paura-e-sonno si era alzato e avvicinato, scendendo i pochi scalini con cautela, fino ad arrivare di fronte a lui. Mentre gli porgeva il gessetto e gli chiedeva di scrivere il suo nome alla lavagna (accanto al suo), Xabi pensava due cose:
1- quello che da lontano sembrava un ragazzo, in realtà era un uomo che avrebbe potuto anche avere più anni di lui (si, ok, era molto giovane per essere un professore e la cosa gli capitava spesso, ma non si era mai sbagliato così clamorosamente su un suo studente, per di più dalla distanza relativamente ravvicinata della terza fila), e
2- gli piaceva molto - troppo - il suo odore. Sapeva di Liverpool - pioggia e fumo mischiati, un grigio denso - di uomo assonnato, e di guai.
Quel giorno si era svegliato con un gran mal di testa e una strana sensazione. Buttando un occhio all'orario in cerca di motivazioni valide per alzarsi aveva visto che la prima lezione era spagnolo, il maledetto corso che il prof di macroeconomia gli aveva fatto fare per forza. Seguendo una sua incomprensibile logica di progetti di fine corso, aveva semplicemente diviso la classe in stati: voi siete la Francia, voi la Germania. A seconda dello stato, quello che teoricamente era un corso a libera scelta come lingua straniera 1, era cambiato in lingua dello stato che il pazzo di macro ti ha assegnato. A lui era toccata la Spagna. E doveva studiarlo per forza, perché la presentazione del suo gruppo sarebbe stata ovviamente sulle strategie economiche della Spagna, e avrebbe ovviamente avuto un capitolo in quella astrusa lingua piena di suoni buffi.
Borbottando qualcosa sulla dubbia utilità dell'esistenza della facoltà di lingue si era alzato, vestendosi ad occhi chiusi, pettinandosi con una mano tra i capelli e lavandosi i denti con la fronte appoggiata allo specchio del bagno, quasi riaddormentandosi lì, ancora con lo spazzolino in bocca.
Il sorriso non gli era tornato nemmeno quando, durante la sigaretta pre-lezione, i suoi amici gli avevano assicurato che era un uomo davvero fortunato ad avere Alonso come prof, e davvero fuori dal mondo a non sapere chi fosse. Chissà cosa gliene fregava, a lui, di quanto fosse bello e figo e chic l'insegnante.
A lezione, però, si era ricreduto. Mentre scriveva in stampato STEVEN GERRARD (STEVIE) alla lavagna (accanto al nome del prof) pensava che magari lo spagnolo non era poi così astruso e inutile.
Era la prima volta che gli succedeva. Non era per niente un buon presentimento. Di cinque nuovi studenti, quattro erano nebbia. Nebbia pura, il nulla, il vuoto, un buco nero. Mai, mai successo prima. E la cosa più assurda era che il quinto se lo ricordava benissimo, in ogni particolare. Stevie. Quella sua grafia incerta e sbilenca alla lavagna. Quei suoi jeans strappati dal tempo, non dallo stilista. Quel suo viso senza logica, così imperfetto da risultare quasi irresis- e qui si era dovuto fermare, aveva preso di corsa la pipa ed era andato fuori a prendere aria.
Quasi gli era andato il fumo di traverso quando il pesante accento scouser del nuovo studente l'aveva raggiunto da dietro le spalle: "Fuma davvero la pipa?"
"Non darmi del lei." Aveva dovuto fingere freddezza e professionalità, pentendosene immediatamente.
"Va bene. Ricomincio. Fumi davvero la pipa?" Stevie agitava la sua sigaretta verso di lui come a fargli notare cos'aveva in bocca.
Tirando un paio di drammatiche boccate Xabi aveva annuito, non sapendo cos'altro rispondergli. Chissà quanti anni avrà, pensava.
"Sembri un uomo d'altri tempi." Stevie ridacchiava scrollando le spalle, ma si vedeva che era affascinato.
"Forse hai ragione. Sarei dovuto nascere in un'altra epoca. Ma poi non avrei mai potuto insegnare qui." Sorridendo debolmente l'aveva guardato negli occhi e si era chiesto se con quelle parole avesse voluto implicare qualcosa. E se sì cosa.
"Già, forse." Aveva guardato altrove, facendo di nuovo spallucce.
Il silenzio che era seguito non era di quelli da riempire per forza con le parole. Pensava a tutto la pioggia, che dava a quella giornata un effetto come di ricordo rarefatto, di film in bianco e nero, di confidenze tra sconosciuti alla fermata del bus. Xabi non era tipo da farsi gli affari degli altri, ma aveva voluto provare lo stesso: "Non sembri un ragazzino come gli altri. Sembri più…uno che è qui per rimediare a una promettente carriera di qualcosa andata in fumo. Sportiva, direi."
"Calciatore." l'aveva guardato con un misto di fastidio e stupore. "Hai intuito, Sherlock."
"Elementare, Watson," aveva annuito, colpevolmente compiaciuto. "Il tuo sguardo è diverso dagli occhioni pieni di speranze e ambizioni e molte volte tracotanza dei tuoi colleghi. C'è una rassegnazione particolare, come di chi ha provato ma ha fallito e ora riprova ma non con lo stesso entusiasmo. In più fumi con gusto, come uno che finalmente può permettersi questo lusso dopo un periodo di privazioni."
"Sembri conoscere molto bene la sensazione." Ora lo guardava con più curiosità, mentre spegneva quasi con amore la sigaretta con la punta della scarpa. Il prof aveva ragione anche su quello.
"No, in realtà sono molto bravo a leggere le persone." Fingendo indifferenza, aveva svuotato il fornelletto della pipa in un cestino.
Scuotendo la testa in un mezzo sorriso divertito, Stevie aveva alzato la mano per salutarlo, sparendo all'interno dell'edificio. Lasciandolo lì a rimuginare.
Mentre si avviava a passo svelto verso Storia dell'economia 2, Stevie pensava due cose:
1- parlare con il prof gli aveva fatto perdere tempo e ora era in ritardo;
2- gli piaceva molto - troppo - il suo accento quando parlava inglese. Quelle esse così piene gli lasciavano nelle orecchie un'eco di Spagna - orgoglio e vento forte, un rosso acceso - di tratti impeccabili, e di guai.
La seconda lezione era stata molto diversa. Stevie era una fila più avanti, sempre accanto alle scale per poter allungare una gamba a piacimento e battere quel tempo senza ritmo con il piede. Era sveglissimo, penna e quaderno già pronti, lo sguardo attento, fisso su di lui, in attesa di scoccargli un sorrisino e un cenno del capo in saluto non appena avesse incrociato i suoi occhi. Ma non sarebbe mai avvenuto perché quello che quel giorno il professor Alonso si era imposto di fare era imparare bene nomi e facce dei nuovi, studiare loro, fare una buona lezione e perdere ogni interesse per Stevie.
Proprio oggi che si era impegnato - si era addirittura alzato mezz'ora prima e preparato uno straccio di colazione, si era messo le scarpe seminuove e una t-shirt rossa, invece del solito grigio-università, e la cosa buffa era che non aveva la più pallida idea del perché - Xabi sembrava averlo archiviato in una cartellina mentale insieme agli altri studenti e lì averlo dimenticato (anche qui, non sapeva perché si aspettasse qualcosa di diverso).
Forse era rimasto colpito dalla loro piccola conversazione sotto la pioggia. Forse un po' gli bruciava la facilità con cui l'aveva letto e inquadrato perfettamente. Forse aveva preso le sue parole come una sfida, forse si era sentito stimolato a fare meglio e a ritrovare un briciolo di entusiasmo per quello che faceva, forse gli piaceva un sacco, in generale, sentirlo parlare. Forse, forse gli piaceva un sacco il professor Alonso. Come professore, ovvio.
Forse.
La cosa tragica era che nemmeno oggi si ricordava più niente. E in più aveva ignorato il povero Stevie, che aveva visibilmente fatto degli sforzi per impegnarsi. Non era proprio questo il modo per motivarlo, ma allo stesso tempo sembrava il modo migliore per proteggerlo. Nonostante l'avesse preso a cuore, non poteva fare favoritismi, andava contro ogni suo principio.
Anche se ne stava abbondantemente facendo, visto che gli altri studenti erano improvvisamente diventati fantasmini eterei che gli giravano in testa, ululandogli di ricordare tutti i nomi. Inutilmente.
Pensava a questo, mentre con una mano tentava di scrivere nella propria agenda i nomi che ricordava e con l'altra teneva il tramezzino che stava addentando, ignaro dei mille rumori della mensa piena intorno a lui. Era profondamente concentrato sulla ragazza con la coda di cavallo al centro della prima fila. Cercava di capire se avesse i capelli biondi o castani, e se fosse lei Stephanie, o forse la ragazza accanto. O forse non c'era nessuna Stephanie.
L'inconfondibile rumore di qualcuno che si schiarisce la gola più per attirare l'attenzione che per una vera tosse l'aveva riscosso dalla sua frenetica attività di indovina-chi. Alzando gli occhi e incontrando il viso quasi colpevole di Stevie si era reso conto che la situazione era davvero grave: ricordava davvero solo lui.
Come se niente fosse - era bravo a rimanere impassibile - aveva alzato le sopracciglia e, rendendosi immediatamente conto della situazione (mensa piena, l'unico tavolo libero era il suo, Stevie ritardatario non aveva trovato posto con i suoi amici) gli aveva fatto cenno di sedersi.
Visto che non erano più a lezione, tecnicamente non poteva essere considerato favoritismo il chiacchierare un po' con lui. No?
"Oggi ti ho visto motivato. E un po' meno grigio!" Timido sorriso, cenno alla maglia rossa.
"Ah," ridendo si era guardato, "questa. Già." Non sapeva bene perché ma i monosillabi (o poco più) gli sembravano il modo migliore per esprimersi al momento. In realtà avrebbe voluto aggiungere cose acide ma
1- non gli venivano in mente;
2- il retro del suo cervello sembrava sapere perfettamente il perché, ma lui no.
Quindi era rimasto zitto e aveva lasciato che il silenzio gli permettesse di mangiare il panino che aveva nel vassoio.
"Tu sai per caso come si chiama la ragazza che oggi era in prima fila, proprio al centro? Coda di cavallo, forse jeans verdi?"
"Katherine. Si è presentata alla lavagna dopo di me la scorsa lezione." Non aveva potuto fare a meno di chiedersi se Xabi avesse avuto le stesse difficoltà a ricordare il suo nome.
"Ah, ecco. Mi mancava solo lei da ricordare." Aveva sorriso sornione, mentendo spudoratamente e chiudendo con uno scatto l'agenda per non far vedere a Stevie la foresta di punti interrogativi disegnata sulla pagina.
Di nuovo, Steven non aveva potuto fare a meno di chiedersi se in quell'agenda ci fosse anche il suo, di nome.
Una settimana dopo erano fuori, all'aperto. C'era un sole che aveva del miracoloso, a dare il benvenuto ai partecipanti alla strana iniziativa del prof. Alonso. L'e-mail che aveva mandato a tutti loro era quantomeno criptica: gli studenti dalla A alla G dovevano presentarsi quel pomeriggio nel parco del campus, muniti di bloc-notes, matita e scarpe comode. Al resto avrebbe pensato lui. In realtà non erano obbligati, anche perché molti avevano altre lezioni da seguire, ma Xabi sperava di riuscire a vederne almeno una decina. E infatti si erano presentati in undici. Denominatore comune: bloc-notes, matita e scarpe comode.
Fumando pigramente la sua sigaretta, Stevie aspettava il prof seduto un po' in disparte dagli altri, osservando quelli del circolo tennis che si allenavano nei campi di fronte, ascoltando le chiacchiere di umani per terra e uccellini per aria, tentando di fissare il sole per un attimo, per imprimerselo bene nella memoria, visto che solo una scampagnata con il professore di spagnolo era riuscita a tirarlo fuori dal suo perenne nascondiglio di nubi. Si chiedeva cosa avesse in mente di fare.
Non aveva dovuto aspettare a lungo una risposta, perché di lì a poco un uomo raggiante, in Wayfarer neri, camicia semplice dentro jeans fascianti, bloc-notes, matita e Converse crema, si era avvicinato sorridendo da un orecchio all'altro. Per una buona trentina di secondi nessuno - nessuno - era riuscito a respirare. Molte mandibole erano cadute. Molti occhiali da sole erano stati sfilati. Molti gomiti avevano cozzato con altrettante costole. Solo Stevie era riuscito a rimanere quasi indifferente, il frenetico sbattere delle sue palpebre l'unica cosa a tradirlo. Ma poteva sempre dire che era per colpa del sole.
Li aveva portati al centro commerciale. Si sarebbe detto un pomeriggio tra amici, se si fosse ignorato il continuo scribacchiare di matite sui bloc-notes a ogni sua parola. Lo scopo di quell'uscita (e delle altre due con i restanti colleghi) era:
per gli studenti: arricchire il proprio vocabolario spagnolo, imparando quante più parole possibili;
per Xabi: evitare ulteriori confusioni e figuracce, imparando quanti più nomi possibili.
I primi stavano raggiungendo egregiamente l'obiettivo, appuntandosi ogni cosa e ripetendola ad alta voce, facendo domande e scrivendo risposte.
Il secondo stava di nuovo fallendo miseramente, concentrando di nuovo la sua attenzione, oltre che sui prodotti che nominava in spagnolo, su un unico studente. Avrebbe dovuto fare il primo gruppo dalla A alla F. In ogni caso, i nuovi erano evidentemente assenti o concentrati negli altri gruppi, perché questi erano tutti veterani. A parte Stevie, ovviamente. Ma il suo, di nome, lo ricordava bene.
Quel pomeriggio, finito il giro dei negozi, erano tornati al parco del campus e lì si erano rilassati, improvvisando un picnic con le cose che il prof aveva comprato per loro. Aveva scelto le cibarie che più somigliavano alla cucina spagnola, chiamando ogni cosa per nome ad ogni morso, suscitando ilarità generale - e gli immancabili sospiri.
Finito di mangiare, Stevie si era avvicinato a lui per fumare insieme - in fondo è un piacere che va condiviso - e Xabi gli aveva insegnato a fare i cerchi di fumo. Con la pipa era molto più semplice, ma anche lui non se la cavava male. A un certo punto si era anche vagamente reso conto degli sguardi ammirati che li circondavano - non capitava tutti i giorni, di vedere il prof. Alonso in camicia, Wayfarer, Converse crema e jeans fascianti, steso su un prato con le labbra protruse a fare cerchi di fumo - e si era chiesto se avesse la stessa espressione, o peggio, se sulla sua faccia fosse direttamente stampato un ghigno ebete. Per tentare di riprendersi aveva provato ad imitarlo, con discreti risultati.
Concentrato com'era sui propri cerchi, non si era accorto che ora lo sguardo ammirato si era spostato sul viso di Xabi, ed era diretto a lui.
L'attività extra della settimana seguente era in notturna: aula di spagnolo, nove di sera, film di Almodóvar, Hable con ella. Lingua originale, sottotitoli in spagnolo. Non si scappava. Anche qui, vivendo lontano dal campus/avendo lezione presto l'indomani, erano rimasti in pochi, ma volenterosi.
Invece di sedersi in cattedra, da dove non avrebbe visto niente, Xabi aveva cercato con lo sguardo un posto tra gli studenti. Occhi pieni di speranze l'avevano implorato - poteva vederli brillare anche nella semioscurità - ma lui aveva scelto il posto accanto al ragazzo in terza fila che batteva nervosamente un piede sulle scale. Casualità, si trattava di Stevie. Chi se lo sarebbe mai immaginato.
Prima dell'inizio del film, Stevie gli aveva sussurrato "Sai, dovresti sentirti onorato. Non vado mai al cinema, perché se vedo un film devo poter fumare mentre lo guardo, e al cinema non si può."
"Già, è anche un mio grande problema," aveva sospirato di rimando, tenendo gli occhi fissi sullo schermo mentre il logo della casa produttrice li illuminava di giallo e rosso. "Fumeremo alla fine del film, mentre ci asciugheremo gli occhi con indifferenza, fingendo di non aver pianto."
"Io non piango mai." Lo fissava quasi con risolutezza.
Xabi si era girato a guardarlo con un mezzo sorriso. "Sì, certo."
E invece qualche lacrimone l'aveva lasciato andare. Anche perché a un certo punto si era ritrovato il prof talmente vicino da poterne respirare lo shampoo, la sua mano appoggiata sul banco, come in attesa di essere stretta, un ginocchio che quasi sfiorava il suo. E non aveva avuto la forza di irrigidirsi ed evitare ogni contatto spostandosi di un millimetro più in là, come si confà ad un alunno rispettoso. Non ne aveva avuto la forza perché quel film stava strappandogli fuori un sacco di emozioni, mettendole a nudo, sbattendogliele in faccia, e la cosa era faticosissima da gestire, gli prosciugava ogni volontà. E tra lo sforzo sovrumano di riprenderne il controllo e quello ancora maggiore di non prendere quella maledetta mano e incastrarci la sua, si era sentito talmente esausto da pensare di potersi permettere un po' d'acqua dagli occhi, confidando che il buio mantenesse il segreto.
In più quell'odore gli andava alla testa. Sapeva di pulito, di bucato appena steso, di doccia appena fatta. E, in misura sempre maggiore, di guai.
Sapeva perfettamente, già da prima di partire da casa, come sarebbe andata a finire. Si sarebbe reso ridicolo davanti a un suo studente (quello studente). Perché ovviamente sapeva già che si sarebbe seduto accanto a lui - di certo non vicino agli sguardi da civetta che adocchia il toporagno degli altri colleghi (la cosa simpatica era che iniziava a scordarsi pure i nomi dei veterani).
E siccome sapeva perfettamente come sarebbe andata a finire, era rimasto in dubbio fino all'ultimo se proiettare quel film o no. Perché avrebbe pianto, di questo era sicuro.
Però alla fine aveva mandato tutte le - esatte - previsioni al diavolo, perché se doveva perdere il senno, voleva farlo con stile.
Aveva tentato con tutte le sue forze di mantenere un'espressione impassibile, nonostante sentisse le lacrime andare giù costantemente, come un rubinetto chiuso male. Aveva appoggiato casualmente una mano sul banco. Aveva sperato fino all'ultimo di sentirsela stringere.
Aveva cercato la parola dignità nel proprio vocabolario e l'aveva vista lentamente dissolversi nel momento in cui aveva guardato nella direzione di Stevie e aveva visto le sue guance umide, il mento che quasi spingeva sul palmo della mano, più che appoggiarcisi. Le ciglia che sbattevano frenetiche.
La strada verso la completa insanità mentale si era d'improvviso fatta in discesa, e gli era venuto naturale - istintivo - spostare la propria mano dal banco alla sua spalla, stringerla leggermente. Quando Stevie si era girato a guardarlo e lo schermo gli aveva illuminato di sbieco il viso, aveva visto i suoi occhi spalancati e liquidi. Aveva visto la sua pelle umida. Aveva visto la sua bocca lucida, torturata dai denti resi azzurrognoli dalla luce fredda. Aveva visto le deliziose increspature della sua fronte farsi più profonde.
Aveva deglutito a vuoto svariate volte mentre lo fissava, incapace di alcun movimento all'infuori del frenetico su e giù del pomo d'Adamo. Era rimasto pietrificato come se di fronte a lui ci fosse la Medusa.
Fuori, l'aria fresca della notte aveva asciugato quello che il dorso delle mani aveva tralasciato. Fiammelle di un fiammifero e un accendino brillavano vicine. Non si erano detti una parola. Avevano semplicemente fumato in silenzio, seduti vicini su un gradino dell'edificio. Fissando il vuoto, ripensando al film. Salutando ogni tanto qualche studente che se ne andava.
Rimasti soli, si erano affrettati a finire, si erano guardati brevemente, e annuendo si erano separati, una buonanotte senza suono.
L'indomani a lezione si era parlato del film. Impressioni, punti salienti, chiarimenti di dubbi, spiegazione di significati e metafore. Per casa, chi l'aveva visto aveva un compito extra: un breve tema. Giusto per allenare un po' la produzione scritta. Cosa ho capito grazie a questo film.
Stevie voleva scriverci: questo film ha aperto la mia mente e le mie vedute. Grazie ad esso, ad esempio, ho scoperto di essere innamorato del mio professore di spagnolo. Ma
1- il suo vocabolario non era abbastanza ampio;
2- beh, il secondo motivo era chiaro.
La pazzia si raggiunge piano piano. È un lento logorio di sinapsi, come quando si taglia una fune con un coltellino svizzero. È un lavoro duro, ma alla fine ci si riesce, lavorando costantemente e con pazienza. E quando si sente il rumore di qualcosa che si spezza, quello è il segnale che si è raggiunto l'obiettivo: si è finalmente pazzi.
E a proposito di pazzia - o crudeltà, dipende dai punti di vista - il prof. Alonso aveva indetto una cena d'addio per gli studenti dell'esame del primo appello - contando con molta fiducia e ingenuità che sarebbero passati tutti - la sera prima dell'esame stesso. Tanto è facile, cosa volete ripassare?
Li aspettava, elegantissimo, in un ristorante spagnolo dell'Albert Dock. Indossava scarpe lucide e papillon (dello stesso colore dei gemelli). Un velo di gel gli fissava un'impeccabile riga a sinistra, un velo di barba gli assicurava un'aria nobilmente informale. Molte ginocchia (in tutto il ristorante) avevano minacciato di cedere a quella vista.
Stevie era arrivato per ultimo (ci aveva messo un'eternità a prepararsi, l'indecisione si era impossessata di lui, aveva persino pensato di chiamare sua madre per farsi consigliare), in jeans scuri e camicia bianca. Mentre attraversava la sala trafelato, lasciando tra i tavoli una leggerissima scia della miglior colonia che era riuscito a permettersi, i suoi compagni di corso si rendevano conto di alcune cose:
1- Stevie era molto carino, con quella camicia che gli esaltava le spalle larghe;
2- il prof aveva uno sguardo buffo;
3- a pensarci bene, Stevie era proprio bello;
4- a guardare meglio, il prof aveva uno sguardo proprio strano.
Si era anche preparato l'entrata ad effetto, una intera frase in spagnolo, hola, siento llegar tarde, perdonad la espera, ma le parole gli erano morte in gola quando aveva visto Xabi. A dire la verità, aveva cominciato a boccheggiare come uno dei pesci dell'elegante acquario alle sue spalle. Tentava di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma la voce proprio non gli usciva.
Oltre all'abbigliamento, che già di suo era qualcosa di ultraterreno, lo avevano bloccato i suoi occhi. Sembrava volergli trapanare il cranio con la sola forza delle pupille, ma allo stesso tempo dietro c'era qualcosa di indifeso, di preso alla sprovvista.
Qualcuno gli indicò dove sedersi e, maledizione, era proprio di fronte a lui, al centro del tavolo. Sperava che i piatti fossero belli da vedere perché non aveva più intenzione di alzare gli occhi per il resto della serata. Se non altro per istinto di sopravvivenza (non sarebbe stato carino farsi andare di traverso ogni boccone).
Fortunatamente, il resto della serata andò egregiamente, tra risate esagerate a battute del prof (vi ho portati qui perché siete pochi, se al prossimo appello saranno di più, tutti al fast food!) (perché, sì, la cena era interamente offerta da lui), ottimi piatti spagnoli, ottima sangria, ottima birra, ottimi digestivi, e alla fine Stevie era così alticcio (ma fortunatamente non del tutto ubriaco) che avrebbe giudicato ottimi anche i tovaglioli.
"Non dovresti bere così, soprattutto a poche ore dall'esame," l'aveva rimproverato Xabi mentre erano fuori a fumare.
In effetti non voleva, era proprio partito da casa con l'intenzione di non esagerare, perché sarebbe risultato anche un po' maleducato nei confronti degli altri. Dopotutto, non era mica una cena tra amici. Però quando l'aveva visto ne aveva sentito il bisogno fisico, per superare quella situazione.
Aveva provato a rispondergli con una sagace battuta, ma non gli veniva niente, quindi aveva semplicemente alzato le spalle.
Sospirando, come se la cosa gli costasse uno sforzo sovrumano (ed era così), gli aveva detto "Vieni, ti porto a casa."
"Eh? Col cavolo che mi porti a casa, ci vado da solo, so ancora dove abito!" aveva ridacchiato, un po' spaventato (molto) all'idea di se stesso, Xabi e casa insieme.
"Non puoi guidare in questo stato-"
"Non sono ubriaco!"
"Non importa. La multa te la fanno uguale, e se succede qualcosa sarai costretto a rimandare l'esame di domani come minimo al secondo appello. E io voglio che tu ti presenti domani."
Di nuovo, non aveva trovato niente da rispondere (anche perché c'era qualcosa, oltre al mero agire da professore, nel suo discorso sull'esame, ma la sua mente annebbiata non gli permetteva di capire cosa), perciò, dopo aver salutato e ricoperto di in groppa al riccio i suoi colleghi, aveva consegnato le chiavi della macchina al prof.
"E tu poi come ci torni a casa?"
"Come sono venuto. In taxi."
"Ma almeno sai guidare a destra?"
"Ci provo."
"Ci provi?!?" Stevie a quel punto desiderava aver bevuto molto di più. Se fosse successo qualcosa alla sua macchina... Non ci poteva pensare.
Invece era andato tutto liscio. Xabi, dopo qualche minuto di esitazione (era terrificante guidare dall'altro lato, sembrava sempre di essere contromano), si era abituato e, seguendo le sue approssimative indicazioni, era riuscito a condurlo a casa sano e salvo.
Il momento tragico era stato quello in cui il motore si era spento, lasciandoli in silenzio, soli, in uno spazio ristretto. L'aria era cambiata di colpo, si era fatta pesante, densa.
Mentre tentava disperatamente di farsi uscire un qualsiasi suono dalla gola (che quella sera evidentemente aveva deciso di non collaborare), Stevie lo guardava con occhi colpevoli. Come a dire, perdonami se sto pensando di trascinarti sul sedile posteriore, eccetera eccetera. Sono ubriaco. Più o meno.
Xabi, dal canto suo, aveva lo sguardo di un uomo distrutto, che sta mettendo tutto se stesso nell'impresa di trattenersi. Di mantenersi immobile. E ci sta riuscendo per miracolo. Erano già passati diversi minuti oltre la media di tempo che due persone passano dentro una macchina senza muovere un solo muscolo.
Alla fine, il professore si era riscosso dalla sua immobilità, e aveva mormorato un "Beh, si è fatto tardi. Devo andare. Ci vediamo domani," annuendo come a volersi convincere di quello che stava dicendo.
"Già, già. Domani."
E Xabi era scivolato via dalla macchina, quasi correndo fino al marciapiede. Dallo specchietto retrovisore l'aveva visto alzare un braccio e chiamare un taxi con infinita grazia, infilarcisi dentro e sparire dietro l'angolo.
Raccogliendo le ultime forze si era trascinato in casa e poi a letto, ripassando mentalmente i peggiori insulti che aveva imparato in spagnolo e lanciandoseli contro come anatemi fino ad addormentarsi.
La sveglia aveva suonato, impietosa, mandando in fumo i suoi onirici progetti di fare cose poco accademiche al - non ci poteva pensare - professore. Il fatto era che questo qui, tutto sembrava tranne un insegnante. Quando durante la cena aveva rivelato la propria età, era rimasto scioccato: era più piccolo di lui (aveva dovuto buttare giù un bel sorso di sangria per riprendersi). Non di molto, ma di quel tanto che gli aveva fatto porre molti interrogativi su cosa voleva fare della propria vita. Di certo non voleva lavorare per sempre nello squallido pub dove a turni sfalsati serviva pinte a tifosi ubriaconi (per la maggior parte evertoniani - urgh) e puliva tavoli e pavimenti per i quali avrebbe decisamente dovuto chiedere un aumento. Ma al momento non poteva fare altro, se voleva studiare e mangiare.
La sveglia aveva suonato, e l'immagine mentale di due corpi annodati e un flusso continuo di sussurri spagnoli dal dubbio senso compiuto si era dissolta davanti al retro dei suoi occhi. Ci mancavano solo i sogni erotici. Bel modo per iniziare la giornata in cui avrebbe dovuto sostenere un esame con l'oggetto dei suddetti.
Si era preso cinque minuti per sforzarsi di strappare il sogno al limbo in cui stava già cadendo, per prenderlo e tenerlo stretto tra le mani ed aggrapparcisi ed accontentarsi di quello, perché altro non avrebbe mai avuto.
Poi, piano piano, mestamente, con gli occhi un po' pesti si era alzato, aveva infilato le fedeli ciabatte, si era scaldato l'acqua per il tè, e si era chiuso in bagno. Se quella era l'ultima volta che doveva vederlo, voleva almeno lasciare un ricordo pulito e profumato di sé. Sotto la doccia ripassava a voce alta le parti del corpo, i colori, le stanze della casa, le frasi di cortesia. Hola, Xabi, ¿qué tal estás? Yo muy bien, gracias Xabi. Te quiero, Xabi - quest'ultima era stata prontamente cancellata da un colpo di spugna.
Aveva indossato una t-shirt pulita ripassando i capi d'abbigliamento, aveva fatto colazione ripassando i cibi, aveva preso lo zainetto ripassando gli oggetti di cancelleria, e si era diretto al campus (ripassando qualche verbo irregolare, visto che non gli era rimasto nient'altro dal vocabolario).
Quando l'aula si era aperta ed era entrato con i suoi compagni per fare l'appello, l'aveva visto seduto in cattedra ed era scoppiato a ridere. Il prof aveva una maglietta con un uovo a occhio di bue (la sua colazione) stilizzato. L'aveva indicata accarezzandosi lo stomaco con l'altra mano, come a dire, quello l'ho appena mangiato. Xabi l'aveva accecato con uno dei suoi sorrisi e gli aveva spiegato "Mi sono messo questa per tranquillizzarvi facendovi un po' ridere. Vedo che ci sono riuscito," e il sorriso era diventato dolce, così tanto che Stevie giurava di sentire ancora sul palato il miele che aveva messo nel tè.
Lo scritto era andato bene. Non malaccio. Così così. Poteva fare meglio. Un disastro. Insomma, non lo sapeva. Aveva messo parole a casaccio in frasi random sperando che andassero bene, buttando un accento qui e lì ogni tanto. Quando tutti avevano consegnato, Xabi aveva detto loro di uscire e farsi un giretto e farsi trovare lì fuori dopo due ore, perché li avrebbe chiamati uno per uno per l'orale. Visto che erano in pochi, erano andati tutti insieme in mensa a fare uno spuntino. Ed era lì che la ragazza seduta vicino a lui gli aveva chiesto cosa fosse successo tra lui e il prof la sera prima.
"In che senso?"
"Beh, siete andati via insieme. Abbiamo visto tutti come ti guardava. Dimmi la verità."
"Non so di cosa tu stia parlando. Mi ha accompagnato a casa perché non voleva che guidassi da alticcio, poi ha preso un taxi."
"Quindi non l'hai notato. Il suo sguardo. E non è successo niente."
"Non capisco cosa sarebbe dovuto accadere."
Ci stava mettendo tutto il suo impegno per:
1- non strozzarsi con il sandwich che stava mangiando, e
2- apparire calmo, pacato e ingenuamente sorpreso.
Non stava andando molto bene, visto che a un certo punto un altro collega si era intromesso: "Stevie, non trattarci da stupidi. L'abbiamo notato tutti il suo spiccato debole per te."
"Beh, io no."
"Come no, certo."
Non gli importava niente che gli credessero o no, a quel punto voleva solo troncare la conversazione perché era già stanco dalla sera prima, dall'esame e dalla fatica in generale per lo sforzo di mantenersi lucido e non fare cazzate. Voleva solo sedersi e ripassare mentalmente il vocabolario un'altra volta (era il suo modo di controllare l'ansia da esami).
Per fortuna mancavano dieci minuti all'inizio degli orali. Stevie tornò insieme agli altri davanti all'aula, si mise seduto, e iniziò ad elencare mentalmente sostantivi spagnoli di cui ricordava vagamente il significato.
Dovette ripetere i suoi elenchi ancora a lungo perché fu chiamato per ultimo. A quel punto sapeva già tutte le domande e ricordava tutti i significati, ma non per questo era più tranquillo.
Quando era entrato, il primo aggettivo che gli era venuto in mente per descrivere lo sguardo del prof era stato "chirurgico". Professionale, freddo, analitico, fermo. Notando l'enorme differenza tra quello e il modo in cui lo guardava di solito, aveva capito perché i suoi compagni non lo avevano creduto. Per la prima volta lo stava fissando come un professore qualsiasi fissa uno studente qualsiasi. Com'era perfettamente giusto, d'altronde.
Stevie però non aveva potuto fare a meno di chiedersi se anche lui si stesse sforzando di mantenere quell'aria, o se magari gli venisse naturale.
Mezz'ora dopo, aveva risposto quasi correttamente a quasi tutte le domande. L'esame era finito. Xabi gli comunicò il voto con un sorrisone quasi orgoglioso. Era abbastanza alto. Gli mostrò i pochi errori che aveva fatto nello scritto e gli fece i complimenti per la sua capacità di apprendimento, sollecitandolo a continuare lo studio dello spagnolo, magari per altre vie. Non sarebbe lo stesso, senza di te, voleva dirgli, ma suonava troppo sdolcinato persino a lui.
Stevie, dal canto suo, l'aveva ringraziato di tutto, si era alzato in piedi e stava per raggiungere la porta quando la sua voce lo bloccò: "Ora che non sono più il tuo professore posso invitarti a cena." Era più un'osservazione che altro, ma lo costrinse a voltarsi stupefatto e a guardarlo con due occhi grandi come oblò. Non voleva boccheggiare di nuovo ma al momento gli era inevitabile. Prima di riuscire a parlare deglutì quelle quattro-cinque volte, le pupille schegge impazzite che schizzavano da un lato all'altro della stanza, una mano tra i capelli della nuca, a grattarsi la testa come per un problema difficile. "B-beh, i-immagino di sì."
Xabi, che aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo, esalò il meno rumorosamente possibile e usò gli ultimi grammi d'aria per concludere: "Bene. Stasera alle otto a casa mia. Cucino una tortilla fenomenale." Spiegandogli l'indirizzo senza aspettare una risposta gli aveva scoccato uno di quei sorrisi che semplicemente facevano dimenticare la parola no.
Era accaduto talmente in fretta che voleva tornare dentro lo studio e chiedergli scusa, Xabi, ma me lo sono sognato o mi hai invitato a cena? Ok, avrebbe fatto la figura dello stupido qualsiasi fosse stata la risposta, ma almeno sarebbe stato sicuro. Giusto per sapere.
Quella sera si era presentato alla sua porta con una bottiglia di vino spagnolo (ci aveva lasciato un rene, in quell'enoteca - ma era il minimo), ed era stato accolto da uno Xabi in grembiule, cucchiaio di legno e sorriso smagliante.
Entrando, era stato investito dall'odore buono della casa, da quello appetitoso della cucina e da quello intossicante del - oh, giusto, non era più il prof, era un uomo qualsiasi. Cioè, qualsiasi era la parola meno appropriata per descriverlo, ma lo faceva riflettere sul fatto che ora il loro non era più un rapporto insegnante-studente. E a proposito, cosa ci faceva lui lì?
Mentre gli faceva strada verso la cucina notò che era scalzo, le caviglie nude che facevano capolino dai jeans.
E poi, visto che c'era, aveva fatto tutta la strada in verticale, polpacci ginocchia cosce, tasche posteriori con sedere annesso, fiocchetto rosso del grembiule, maglioncino cioccolato fondente con scapole in rilievo, scollo con vertebre incluse, peluria del collo e attaccatura dei capelli, nuca e di nuovo giù alle tasche (belle, davvero). Quasi gli girava la testa per quel tour, non farlo mai più Stevie. Quasi non aveva più fame. Quasi voleva proprio tornare a casa.
Poi vide la tavola e cambiò idea. C'erano delle candele. E delle ciotole di coccio sopra una tovaglia bordeaux. Pensò che avrebbe potuto portare del vino rosso. Se non altro avrebbe fatto pendant con i colori.
Sfilandogli la bottiglia dalle mani (non fu tanto facile perché ci si stava aggrappando) Xabi gli sorrise "Ti sei fatto consigliare proprio bene, è perfetto". Non gli era mai successo, di sentirsi ubriaco con una bottiglia ancora chiusa.
Per prendere un po' d'aria uscì a fumare sul microscopico balcone della cucina. L'aria della sera gli fece bene finché non ricominciò a pensare a dove si trovava, con chi, perché. Inspirò forte per capire se era un sogno crudele, un incubo o un'allucinazione e no, non era nessuno dei tre. Osservando Xabi muoversi tra i fornelli come se fosse il suo habitat naturale, mescola qui, assaggia lì, controlla là, si chiese come quella potesse essere la realtà. Quale eroico gesto aveva dovuto compiere in una vita precedente per meritarsi quel momento. Si immaginò su un cavallo bianco a salvare fanciulle in pericolo e gli venne da ridere.
Lo vide che veniva verso di lui soffiando su una forchetta con una mano sotto, e la risata gli si spense in gola. "Dimmi se è giusta di sale." E Stevie si era lasciato imboccare e l'aveva guardato e l'improvvisa esplosione di sapore in bocca e di bellezza davanti ai suoi occhi l'aveva fatto sentire male. Sovraccarico di stimoli sensoriali, o di gioia, o di tutti e due.
Sapendo con certezza che non gli sarebbe uscito neanche un filo di voce, aveva annuito e alzato un pollice, ancora mezzo stordito.
"Bene. Allora accomodati, è pronto."
Recuperò giusto in tempo il fiato necessario per dire una frase apparentemente stupida come "Devo lavarmi le mani. Dov'è il bagno?", che però per lui aveva assolutamente senso. Era quasi una mania, quella di avere le mani sempre pulite. Non poteva farne a meno, si sentiva quasi in soggezione se non poteva lavarsele.
Ridacchiando, Xabi gli indicò il bagno e quando Stevie tornò in salotto lo trovò ancora in piedi, ad aspettare l'ospite per sedersi. Era proprio un uomo d'altri tempi.
La cena ovviamente era squisita. Un miscuglio perfetto di odori, sapori, colori che gli evocava posti e paesaggi che non aveva nemmeno mai visto di persona, ma per i quali incredibilmente provava nostalgia. Capì che tutte quelle visioni appartenevano a Xabi, alla sua terra, e che la vaga tristezza nascosta dietro a tanta gioia dei sensi, altro non era se non il suo stato d'animo, così potente da contagiare Stevie, e abbassargli lievemente gli angoli della bocca.
Prima che potesse fermarla, la domanda "Ti manca casa?" già aleggiava nell'aria.
La risposta era arrivata in forma di lungo silenzio, accompagnato da uno sguardo intensissimo che rischiava di bruciargli gli occhi, un lento chiudersi e riaprirsi di palpebre, e alla fine un "Ora no" che gli aveva quasi mandato il boccone di traverso perché in quelle due parole ne erano contenute molte altre e rischiava di impazzire a cercare di decifrarle tutte. Ma il minimo indispensabile l'aveva capito, perciò gli sorrise come non faceva da molto tempo, e in quel momento Xabi capì esattamente dove risiedeva la sua bellezza e decise che la voleva tutta per sé.
Come frutta si divisero un' arancia. "È molto speciale, è valenciana. Purtroppo viene dalla serra, ma vale lo stesso la pena." Il sorriso di Xabi era talmente entusiasta che l'avrebbe accettata anche se ne fosse stato allergico.
E non se ne pentì, perché quando finalmente lo baciò, istanti dopo, il succo fresco e pieno e dolce dell'arancia si era mischiato a quello della sua bocca a formare il sapore perfetto. Da quel momento decise che non voleva mai più mangiare un'arancia se non veniva dalle sue labbra. Gli piaceva così tanto che, una mano incastrata dietro la sua nuca, il pollice ad accarezzargli instancabile lo zigomo, continuava a prendere uno spicchio, mangiarne metà, baciare Xabi e imboccargli l'altra metà, ribaciarlo e così via finché l'arancia finì e dopo un po' finì anche il sapore e dopo un altro po' erano finite anche l'aria e la forza delle sue ginocchia, perché solo allora si era reso conto di cosa stava facendo, era come uscito dall'ipnosi e il pensiero l'aveva investito come un tir e gli aveva tolto tutto, fiato, forze, tutto. Quindi si era dovuto sedere a riprendere fiato, fissando il tappeto color crema con gli occhi spalancati.
Perché in realtà non si erano detti niente, si erano semplicemente avvicinati, presi i visi in mano e baciati, come se fosse la cosa più naturale da fare dopo la frutta. Bocca di Xabi all'arancia, ottimo dessert.
In tutto ciò, Xabi si toccava le labbra come per capire se stesse sognando. Quando si guardarono di nuovo, fu automatico scoppiare a ridere come bambini. Stevie si alzò e andò ad abbracciarlo. Rimasero così per un tempo incalcolabile, minuti, anni, eoni, a cullarsi ascoltandosi i respiri e respirandosi la pelle, giusto all'attaccatura del collo. Poi, con dolcezza quasi calcolata, si ribaciarono, lentamente. Come se avessero tutto il tempo del mondo.
Ed effettivamente era così. Perciò passarono ore a baciarsi, completamente vestiti, come due adolescenti, sul divano, senza neanche sapere come erano finiti lì. Ogni tanto bevevano un sorso di vino per riprendere fiato, oppure Stevie rubava un cioccolatino al liquore dal tavolino di fronte a lui e tentava di mangiarlo, ma subito arrivava Xabi a rubargliene un pezzettino direttamente dalla sua bocca e così ricominciavano, e così continuarono, finché le loro temperature corporee lo permisero.
Vedendosi paonazzi in faccia si separarono un po' (qualche centimetro, non di più), e Stevie, notando l'ora sull'orologio appeso alla parete, si spaventò e fece una smorfia: "Non voglio tornare a casa," si lamentava come un bambino al parco giochi.
"E chi ti ha detto che puoi tornarci?" Lo sguardo di Xabi aveva la risolutezza tipica del ghepardo che fissa la gazzella, una fame tale da farlo sentire davvero in ostaggio. Ma non era per niente una sensazione negativa, anzi. Si sentiva già totalmente preso dalla sindrome di Stoccolma. Si sarebbe volentieri anche legato da solo a una sedia, se fosse servito ad aiutarlo.
Ridacchiando a metà tra l'ebete e lo stordito, tentava di deglutire, o di rispondere, o di fare qualsiasi cosa ma si sentiva paralizzato. Perciò Xabi, vedendolo in difficoltà, si alzò in piedi, gli tese una mano e con la testa gli fece cenno di seguirlo. "Vieni con me." Non aveva smesso un attimo di sorridergli dolcemente, come se avesse tra le mani qualcosa di talmente prezioso che, pur non essendo fragile, andava trattato col massimo dei riguardi.
Solo quando gli prese la mano e lo seguì silenziosamente capì che lo stava portando in camera.
Quella notte Stevie non tornò a casa.
Avrebbe ricordato per sempre l'eco del fruscio di vestiti che si posavano a terra, di un continuo flusso di sussurri sommessi e insensati, di sospiri e grida. Le lente spinte di un bacino paziente, lunghe scie di sudore e saliva, carezze infinite di mani bollenti, occhi che lottavano per rimanere aperti, per vedere, e un calore perpetuo, una pressione crescente, il mondo che vorticava e il nulla perfetto.
Finché la luce dell'alba non si era trasformata in giallo intenso e nessuno dei due seppe mai dire come e quando si erano addormentati.
Quel pomeriggio Stevie aprì gli occhi, e si ritrovò in una stanza non sua, investito dalla luce del giorno, da un odore che era al contempo familiare e nuovo, e dalla strana sensazione di essere osservato. Girando la testa vide Xabi che faceva finta di non averlo guardato dormire, lo sguardo testardamente fisso su un punto della parete dietro di lui e un sorrisino che lo tradiva. Era appoggiato su un fianco, il gomito sui cuscini, la testa sul palmo. Le lenzuola gli scoprivano gran parte del busto, completando l'impressione generale di un soggetto perfetto per una statua classica.
Sbattendo le palpebre per qualche secondo, Stevie si rese conto, stupefatto, che quello non era un sogno.
Da qualche parte accanto a lui, Xabi aveva iniziato a parlare. "Sai, all'inizio del corso mi ricordavo tutti i nomi e le facce degli studenti." Fece una pausa e lo guardò negli occhi, un sorriso bonario e quasi incredulo nel ricordare i vecchi tempi in cui la sua memoria funzionava ancora. "Poi sei arrivato tu, e ho dimenticato tutto. Immagino che il mio subconscio tentasse di dirmi qualcosa," ridacchiò e si chinò a baciargli la fronte.
Poi visto che c'era, gli baciò anche la punta del naso, le labbra, il mento, una clavicola, lo sterno, l'ombelico e così via. Alzò un attimo la testa per trovare il suo sguardo, ma Stevie aveva già la faccia tra le mani, e si stava chiedendo di nuovo (ma questo Xabi non poteva saperlo), se quella era davvero la realtà, quante foreste aveva dovuto salvare dal disboscamento, quante specie in via d'estinzione, quanta percentuale della popolazione mondiale, quanti pianeti aveva condotto alla libertà dall'oppressione aliena nelle sue vite precedenti, quanti punti bonus aveva accumulato nei secoli passati, e si insomma, delirava già.
Mezz'ora dopo, Stevie era solo, intento ad esplorare la camera. In realtà cercava un asciugamano per farsi una doccia, ma ne stava approfittando per curiosare in giro. Xabi gli aveva detto di non muoversi e di aspettarlo lì.
Uscito dalla doccia, prese l'asciugamano che aveva trovato, e prima di avvolgerselo intorno ci infilò il naso dentro e inspirò forte. Poi si annusò un braccio. Il suo stomaco gorgogliò felice (e anche un po' affamato). Decise che i due odori si sposavano perfettamente.
Tornando in camera notò che sul letto c'era un giornale in piedi, da cui spuntavano delle dita che lo tenevano fermo. Scoppiò a ridere e il giornale si abbassò e scoprì uno Xabi occhialuto che lo osservava a metà tra il divertito e il colpito (non gli capitava davvero tutti i giorni di vedersi entrare in camera un suo ex studente in asciugamano e basta, che per di più gli rideva in faccia).
"Vieni, facciamo uhmm - breve occhiata all'orologio - merenda."
"Merenda?"
"Sarebbe quasi ora di cena per voi gallinelle inglesi, ma da me questo è il momento della merenda."
Gettò l'asciugamano sopra una sedia e si infilò a letto. Sul comodino dal suo lato c'erano una tazza di tè, del pane fresco e un uovo a occhio di bue. Non sapeva se ridere o piangere. Quello era davvero troppo.
"Ti copro il letto di briciole se mangio qui," fu tutto quello che riuscì a dire.
Xabi si girò a guardarlo alzando un sopracciglio al di sopra della montatura degli occhiali. "Puoi sbriciolare tutto quello che vuoi, davvero."
Mangiarono in silenzio, sorridendosi di tanto in tanto. Non erano sorrisini di circostanza, era più una cosa che coinvolgeva tutto il viso. Per un attimo Stevie credette di sentir sorridere persino i propri capelli. Si era persino scordato l'esistenza delle sigarette da ore.
Minuti dopo, mentre accarezzava le scapole larghe e lisce sopra di lui, a Xabi venne un po' da ridere sentendo delle briciole che gli solleticavano la schiena. Mentre si lasciava sfuggire un gemito, stropicciandogli i capelli ancora un po' umidi pensava, e adesso?