Venus as a Boy - scena prima

Mar 04, 2009 17:10

Whaa mi annoio un pochito, quindi comincio a postare una fanfiction che incredibilmente (!) ho finito in pochissimo tempo, per i miei standard. L'ho iniziata a fine gennaio, molto fine gennaio, con la ferma intenzione di scrivere una one-shot derivata da uno strano sogno che ho fatto una notte, ma... ne è uscita questa cosa di una sessantina di pagine. E siccome non esiste niente che mi permetta di postare sessanta pagine, livejournal meno che mai, vi tocca beccarvela in capitoli...! Credo cinque, ora vediamo come esce divisa. In ogni caso non temete agonie troppo lunghe, l'ho finitissima, lo giuro! XD Finita ieri sera. A voi ♥
(Ah, il titolo è preso da una canzone di Bjork, Venus as a Boy, appunto. E se nessuno avesse mai visto Jin che balla, vi ordino di farlo immediatamente!)

Titolo: Venus as a Boy (1/5?)
Pairing: Jin Akanishi (KAT-TUN) x Tomohisa Yamashita (NewS)
Genere: AU, boyslove, smuff (smut+fluff?)
Rating: Diciamo tra R e NC-17. Più NC-17, sempre per il better safe than sorry. Ma non aspettatevi roba troppo troppo spinta.
Summary: I movimenti lenti ammorbiditi dal buio di un locale bastano a far innamorare qualcuno? Ovvero: Jin è uno spogliarellista, anzi, Lo spogliarellista. Pi è un ballerino di danza classica, che si scopre ossessionato da lui. E io ho una mente perversa.
Warnings: Descrizioni molto accurate; ci sono molti personaggi secondari, ma la storia ruota principalmente intorno a Pin; un po' di OOCness, ma niente di grave.
Commenti: Questa oneshot è nata da un sogno che ho fatto, e ricordo alla perfezione così tanti particolari, che ho deciso di scriverlo, e pazienza XD sopportate la mia botta di creatività.
Disclaimer: Don’t own. E vi giuro che se mi appartenessero, tutto questo sarebbe in vendita sotto forma di un drama molto molto molto interessante.


Venus as a Boy

His wicked sense of humour
suggests exciting sex.
His fingers, they focus on her,
Touches...
He’s Venus as a boy.
He’s exploring the taste of her,
Arousal... so accurate.

Era solamente una questione di scelte.

Mere scelte, come quella che aveva fatto lui, anni prima, la mano piccola stretta in quella calda di sua madre, unghie laccate a distogliere lo sguardo da una povertà abbastanza evidente, l’altra mano a posare qualche banconota tra le mani di una donna sin troppo truccata, dal profumo forte, gli abiti stretti e scuri.
E poi si era chinata, quella donna, gli aveva accarezzato la testa, nello stesso momento in cui sua madre stringeva più forte la sua mano a sé, tirandolo appena.
“Sei sicuro, Tomochan? Sei sicuro, vero?”
Aveva annuito, la sua mano era passata da quella di sua madre a quella della signora, più morbida, che aveva lavorato di meno.
La maestra.

Era la sesta volta, in quel locale.
La settima, se contava quella prima volta, quella in cui era stato trascinato dai compagni dell’Accademia, perché “Tomochan, sei troppo, troppo rigido. Ti dobbiamo sciogliere un po’”, ma lui non la contava mai, quella prima volta.
Non era andato lì di sua spontanea volontà, era rimasto, rigido, troppo, troppo rigido, sì, in un angolo del locale, le mani strette tra loro appoggiate sul tavolino, gli occhi bassi celati dagli occhiali piccoli.
La schiena dritta, come quei diciassette anni di danza classica - erano già così tanti? - gli avevano insegnato, un imbarazzo da bravo ragazzo che si vergognava di essere un voyeur, di spiare i corpi di persone che si vendevano a quel lavoro.
Ma poi era iniziata quella musica, no?
E il fischio di ammirazione di un paio dei suoi compagni l’aveva obbligato ad alzare lo sguardo, a spiare, si era ridotto a spiare anche lui.
Alle prime note, una scarica di adrenalina aveva attraversato il locale, le ragazze, e quei pochi ragazzi, avevano alzato gli occhi, avevano fischiato, si erano poi zittiti quando era comparso lui.
Lui, la stella.
I movimenti sinuosi, lo sguardo strafottente, quella capacità che aveva di guardare dritto negli occhi ogni singola persona che fosse nel suo pubblico quella sera - e Tomohisa l’aveva creduto, nella sua sciocca convinzione di bravo ragazzo che si trova ad essere un voyeur, per la prima volta, che quello spettacolo fosse lì solo per lui.
E poi era tornato, a cercare lui, la stella, ad assicurarsi che quello spettacolo fosse davvero lì per lui.
Ed era tornato un’altra volta, ripetendosi che sarebbe stata l’ultima, e ogni notte era più vicino a quel palco, ogni notte socchiudeva gli occhi al movimento di quella mano che sembrava accarezzare il viso di ognuno dei presenti.
Ed era tornato lì, la terza volta, e poi ancora, e ancora, occhi fissi sulle proprie mani legate insieme sulla superficie liscia di quel tavolino, il bicchiere pieno di un liquido alcolico che l’avrebbe aiutato a lasciarsi andare, probabilmente, ma che sarebbe rimasto intoccato, come tutte le sere.
E non avrebbe guardato nessuno degli altri ragazzi, immobile nel proprio silenzio, scioccamente fedele solamente a lui, la stella.
Si chiamava Jin, non aveva idea se fosse il suo vero nome o un nome d’arte, ma appariva a grandi lettere occidentali, tracciate in una scrittura fluorescente e sinuosa, sul velo bianco che cadeva un istante prima che cominciasse quella musica.
E Tomohisa conosceva a memoria quel copione, sollevava lo sguardo, l’intreccio delle sue mani si scioglieva quando la mano destra saliva verso i suoi occhiali, sistemandoli sul viso, come se avesse il timore di perdere un istante dello spettacolo che gli stava per essere offerto.
E i suoi occhi bevevano tutto, dalle ombre che quella luce soffusa creava sul viso di Jin, agli abiti che indossava, studiandoli, uno ad uno.
Era bravo, era il migliore.
La giacca nera era larga, morbida, quando ballava si apriva, tanto da lasciare intravedere sprazzi del velluto rosso con il quale era foderato il suo interno, la maglietta scura, stretta, ma non abbastanza da mostrare le linee decise del suo corpo.
I jeans larghi, strappati, logori, in un affascinante contrasto con l’apparente eleganza di quella giacca, che sembravano ondeggiare alla perfezione, sotto il comando del movimento dei suoi fianchi, lento, ipnotizzante.
La maggioranza della clientela abituale di quel locale non era interessata ai particolari, agli abiti, al ciondolo a forma di argentea sirena che dondolava al ritmo della sua danza, al colore lievemente più chiaro dei suoi capelli, sotto una certa luce.
Volevano arrivare a quel punto, quel punto in cui il locale si riempiva dell’acre odore dell’aspettativa, della frustrazione.
Volevano vedere i suoi vestiti volare via, farsi da parte, volevano che quei particolari sparissero, lasciando solo il suo corpo nudo.
Ma a Tomohisa piacevano, quei particolari.
Li notava tanto quanto il movimento delle sue mani, delle lunghe dita che sfioravano i suoi capelli, il suo collo, il petto ancora fasciato dagli abiti.
E forse Jin era il migliore per quello, portava all’esasperazione quegli occhi eccitati puntati sul suo corpo, li nutriva di frustrazione, muovendo il proprio corpo in movimenti che sembravano casuali, eppure erano studiati, come una danza lenta, improvvisata per il proprio amante un istante prima di abbandonarsi al più antico dei piaceri.
Era il migliore nel dare quella sensazione di falsa intimità, nell’ammiccare al vuoto come se promettesse ad ogni ragazza una notte di fuoco, nel sorridere nel buio, sfiorarsi un dito con la lingua, come se promettesse ad ogni ragazzo di renderlo felice, di lì a poco.
Si concedeva il proprio spettacolo, ballando sensualmente con la silouette scura di una donna che si muoveva su un velo bianco, corteggiata dalla sua ombra, allungava la mano verso il vuoto, afferrava il nulla, se lo passava sul petto.
Tomohisa si trovava a schiudere le labbra, seguendo i movimenti sensuali, morbidi, del corpo di quel ragazzo che si lasciava mangiare dagli sguardi di chiunque, in quel locale.
Jin si mordeva le labbra, si passava le mani tra i capelli, li scostava dal volto e li stringeva, come se quegli sguardi fossero mani, e lo stessero violando esattamente nei punti del suo corpo dove si erano posati.
E non appena la sua amante fatta d’ombra si dileguava, si abbandonava ad una danza veloce, sfilandosi solamente la giacca, le mani in alto strette tra i suoi capelli, il bacino che si muoveva, roteava, il corpo frenetico come durante un atto sessuale, sempre più veloce, come alla folle ricerca di un orgasmo.
E gli occhi di Tomohisa non potevano che soffermarsi sui particolari, l’ennesima volta.
La maglietta scura che si sollevava lievemente, mostrando le ossa lievemente sporgenti del bacino, la pelle bianca, il segno più scuro che partiva dal suo ombelico e scendeva, scendeva.
E siccome lui era la stella, sentiva alla perfezione l’odore acre che si espandeva per il locale, la frustrazione del suo pubblico, degli occhi che erano lì per lui, per la sua pelle, e sapeva, tutte le volte, quando sollevare quella mano, schioccare quelle dita.
E la musica si interrompeva, per pochi istanti, sfumava in una canzone più lenta, più sensuale, man mano che l’occhio di bue sfilava tra i tavolini, una luce forte che camminava lenta come una modella, sino a raggiungere lui, ad abbracciarlo, a lasciarlo unico bagnato di luce nel buio completo.
Lo spettacolo era quasi identico, ogni sera, ma Tomohisa non riusciva a fare a meno di deglutire, di farsi più attento, di non prestare attenzione alla piccola goccia di sudore che solcava la sua tempia, nascosta dai capelli neri.
C’era altro, a cui prestare attenzione, c’era quella piccola perla d’acqua che scendeva ad accarezzare la gola di Jin, c’erano le sue mani, a proseguire la strada di quella goccia che moriva nella stoffa, lungo il suo petto, appoggiandosi alla cintura.
E muoveva il bacino forte, quasi violento, quasi come l’ammonimento di ciò che si sarebbe dovuto aspettare qualcuno del pubblico, tutti possibili amanti occasionali di lui, della stella.
Tomohisa se lo chiedeva, in una voce sussurrata al fondo della sua mente, al fondo della sua attenzione, quali di quelle ragazze avrebbe sentito il brivido delle mani di Jin su di sé.
Quelle mani, lente e sensuali sul suo corpo, quelle dita che volteggiavano e indicavano qualcuno a caso del pubblico, la vittima prescelta, il preferito della serata, colei - o colui - che avrebbe sentito il calore della pelle della stella tra le proprie mani, attraverso la stoffa dei suoi vestiti che gli sarebbe arrivata addosso.
Ed era la settima volta, in quel locale - la sesta, perché non amava contare quella prima volta, quella attorniata del vociare dei suoi compagni - e non aveva mai sperato, Tomohisa, di venire scelto, di essere il prescelto della serata.
Solitamente erano donne, attorniate da amiche che le avevano trascinate lì per un compleanno importante - la soglia dei trenta, spesso - o per l’addio al nubilato.
Una volta era stato un uomo, palesemente eterosessuale e sicuramente a disagio, che si ritraeva alle avances giocose della danza della stella, stordito dalle risate degli amici, dal profumo dei vestiti di Jin addosso a sé.
E la settima volta - o la sesta, che dir si voglia - Tomohisa era in silenzio, in attesa spasmodica, a tal punto da non permettere nemmeno alle proprie palpebre di muoversi.
Si riempiva gli occhi della sua presenza, della presenza della stella, e non si aspettava di venire scelto, come mai se l’era aspettato.
Aveva semplicemente fretta, fretta di sorpassare il momento della scelta, il momento della sua immotivata gelosia.
Forse era rimasto immobile per quello, aveva solo sbattuto le palpebre, piccola debolezza d’incredulità a frantumare con un gesto la sua maschera di immobilità.
Era rimasto immobile sino al momento in cui non aveva visto Jin muovere le dita, quel lungo indice che roteava, velocemente, indicando nella sua direzione.
Quasi si era spaventato, stretto nelle spalle, stretto in se stesso e nella sua invisibilità - e si era anche guardato intorno, certo che no, non potesse essere lui, il prescelto.
E forse si era anche reso un po’ ridicolo, in quell’immobilità, nel sentirsi acclamato e invidiato dal resto del pubblico - perché la conosceva così bene, quella sensazione.
Quello era il momento della sua immotivata gelosia, del bruciore che sentiva nel guardare le guance della prescelta colorirsi, nell’osservare le sue mani stringere la stoffa lievemente umida della maglietta di lui, della stella, e ora?
Ora la stella lasciava che le proprie mani scorressero su quella stoffa, roteando lentamente il bacino di fronte a lui, voltandosi a dargli le spalle, sfilandosi la maglietta, sino a lanciarla tra le sue mani.
E le mani di lui scorrevano sui propri fianchi, tanto quanto ricordava le proprie stringere quella stoffa, scura, lievemente umida, profumata della sensualità del ragazzo che aveva cominciato a turbare le sue notti.
Si era voltato di nuovo verso di lui, un sorriso divertito a sporcare appena la sua espressione di studiata strafottenza, ballando a pochi passi da lui, sulla soglia del palco, pochi centimetri più in alto del tavolino rotondo, quel limite che non gli era dato di superare.
Gli sorrideva, era bello, era ammiccante, lo guardava negli occhi e si mordeva le labbra, a metà tra il divertimento che trovava in quel lavoro così assurdo e la sensualità, insita nel suo corpo, nelle sue vene, nei suoi occhi.
Tomohisa stringeva quella maglietta tra le mani, sperando che, una volta finito lo spettacolo, rimanesse intrappolato il profumo della stella tra le sue dita colpevoli, le sue dita complici del voyeurismo di cui si vestiva quell’ossessione.
E lo guardava, si bruciava gli occhi di quella visione, della sua mano che si sfiorava il petto nudo, la pelle umida del calore delle luci, sino a raggiungere l’orlo dei jeans, e poi scendere, scendere ancora.
Si chinava, scendeva con quella mano, l’altra tra i capelli, arrivando quasi in ginocchio sino al pavimento in legno di quel palco piccolo, poi apriva le gambe, si sfiorava un interno coscia, gettava indietro la testa e sospirava, prima di chiudere le gambe, tornare in piedi, abbandonare la mano lì, come se non ci fosse nessuno, in quel locale, solamente lui, ed il suo autoerotismo.
Succedeva, a volte, che si eccitasse durante il suo stesso spettacolo.
Era raro, ormai era un professionista - ma era la stella per quello, no?
Era il suo modo di amare il suo pubblico, diventava l’amante perfetto di ognuno di loro, niente abiti stracciati o coreografie da spogliarellisti seriali, il suo spettacolo era una danza sensuale, un privarsi uno ad uno degli abiti che celavano il suo corpo agli occhi dei suoi amanti occasionali.
E quella sera, il suo amante occasionale - gli occhi di Tomohisa, gli davano ragione di tutti quei sorrisi che gli dedicava, quel leccarsi le labbra in modo provocante, quello sfiorarsi, l’essere così eccitato da uno sguardo che non sembrava desiderare altro che lui.
Era esattamente il pensiero di Tomohisa, in quel momento, fingere che quelle mani che solcavano il corpo di lui, della stella, fossero le proprie, e allo stesso tempo immaginarle su di sé, sul proprio corpo, a sciogliere la tensione spontanea dovuta a diciassette anni di danza classica.
Deglutiva, senza sbattere le palpebre per l’irragionevole paura di perdersi anche uno solo dei movimenti di Jin, che era davvero lì per lui, solamente per lui, per la prima volta.
Non la smetteva un istante di sorridergli, la stella, stringendo la cintura dei pantaloni con una mano mentre si passava l’altra sul petto, nell’inizio della danza erotica che scandiva i minuti alla fine dello spettacolo.
Muoveva il bacino, ansimando - non l’aveva mai notato, non era mai stato abbastanza vicino da sentire quegli ansiti lievi, di fatica o eccitazione, che sfuggivano a quelle labbra piene - voltandosi a dargli il fianco, poi le spalle, poi di nuovo il fianco, e poi era ancora di fronte a lui.
E non aveva voglia di attendere oltre, lui.
Guardava la sua vittima - il suo prescelto, il suo amante occasionale fatto di occhi che desiderava su di sé, solamente su di sé - con lo sguardo pieno di un sentimento sconosciuto, qualcosa che superava la pura e semplice voglia di esibizionismo che brillava solitamente in lui.
Era un sentimento che Tomohisa non era in grado di riconoscere, ma si lasciava guidare, silenzioso e sottomesso, le labbra dischiuse a seguire le mani di Jin, sul suo petto nudo, sino alla cintura, a sciogliere lentamente - troppo lentamente, ma lui era la stella, poteva disporre del tempo altrui a suo piacimento - quella fibbia in argento.
Si diede da solo dello stupido, Tomohisa, perché per la prima volta, la stella era lì, davvero per lui, a pochissima distanza - sarebbe bastato allungare un braccio, e l’avrebbe sfiorato - e tutto ciò che riusciva a fare era guardare i suoi occhi.
Conosceva a memoria quell’affascinante spettacolo, però, quindi sapeva che dopo la cintura sarebbe stata la volta del bottone dei jeans, per poi abbassare la cerniera, lentamente.
Era un suono lieve, impossibile da cogliere, eppure risuonava nelle sue orecchie più forte del normale, amplificato, come un rimbombo che lo aiutava a dimenticare l’esistenza del resto del pubblico, dei camerieri poco vestiti, del padrone del locale, in silenzio, in un angolo, a guardare la sua stella con un sorriso sulle labbra.
Non faceva altro che guardare negli occhi solamente lui, che lo indicava con un dito, sorridendo, ballando, lasciando cadere i jeans ai propri piedi senza nemmeno sfiorarli.
Le mani erano in alto, tra i suoi bei capelli, il bacino roteava in modo particolarmente violento, sino a scoprirsi, a lasciar cadere quella barriera di stoffa, sino a rimanere coperto solo di quei piccoli boxer bianchi, che, dio, lasciavano così poco all’immaginazione.
E Tomohisa lo guardava, lasciava gli occhi sul suo corpo, immobile e con il fiato sospeso, mentre la stella scavalcava i jeans con un movimento lento, colpendoli con la punta dello stivale scuro sino a farli arrivare sul suo tavolino, prima di abbassarsi nuovamente.
Poi era lì, la stella, in ginocchio davanti a lui, consapevole che la traiettoria degli occhi del suo prescelto non avrebbe deviato di un millimetro da ciò che lui stesso aveva calcolato - il proprio ombelico esattamente di fronte ai suoi occhi, che sarebbero scesi, e scesi ancora.
Era eccitato, e in quei movimenti lenti si permise addirittura di chiudere gli occhi, lasciandosi scorrere le mani sul petto, a preannunciare il suo numero speciale, quello di cui non si poteva godere sempre.
Un ansito lieve e profondo, le mani ferme davanti a sé, sul pavimento, ad accarezzare la pelle di un amante immaginario, un corpo invisibile che riceveva dentro di sé i suoi colpi netti, affondi decisi, che invece dava in pasto senza pudore agli occhi attenti di Tomohisa.
Probabilmente non se lo aspettava, la stella.
Non aveva calcolato di aprire gli occhi e trovare quegli occhi neri, carichi di eccitazione e timidezza in un solo istante, puntati nei propri.
Guardava lui, lui, e non il suo corpo.
Sicuramente non se lo aspettava, e accarezzò il proprio corpo un’ultima volta, come ad essere certo che fosse ancora lì, che ci fosse ancora tutto, incredulo nello scoprire che esistesse qualcuno al mondo che aveva preferito guardarlo in volto.
Tomohisa non lo sapeva, non aveva idea nemmeno di cosa stesse facendo, di certo non l’aveva fatto con uno scopo preciso.
Sapeva però di aver sentito il proprio cuore mancare qualche battito, come se si fosse fermato nel petto, trattenendosi come il suo respiro, mentre guardava Jin sorridere, allungarsi verso di lui, le sue lunghe dita chiudersi attorno al vetro del bicchiere ancora pieno che Tomohisa non aveva bevuto - come le sei volte precedenti a quella.
“Aspettami fuori.”
Un occhiolino ed un sussurro basso, roco, la sua voce era bella come il corpo che la conteneva, aveva una parlata lievemente strascicata, ma era calda come il fuoco che Tomohisa si sentiva dentro.
Non gli diede il tempo di affogare in quella voce calda, era già in piedi, era di nuovo lui, la stella, che camminava lentamente sino al centro del palco, rigirandosi il bicchiere di vetro tra le lunghe dita.
Continuava a guardarlo, a guardare il suo prescelto di quella serata, mentre sollevava il bicchiere al pubblico, godendosi i sussurri eccitati del pubblico a quel piccolo cambiamento al solito spettacolo.
“Cheers.”
Un brindisi detto con un forte accento d’oltreoceano fece in fretta a scatenare le urla del pubblico, mentre la stella beveva tutto d’un sorso, ad occhi chiusi, senza curarsi della goccia di liquido ambrato che gli sfuggiva dalle labbra, scottandogli la gola, mordendo sul suo petto.
Schioccò le dita, poi, ed era la fine dello spettacolo, puntuale come le sei volte precedenti a quella, una cascata d’acqua sopra di lui a bagnare completamente il suo corpo quasi del tutto scoperto, ad appiccicare quella poca stoffa bianca alla sua pelle, ad attivare le fantasie erotiche di almeno un centinaio di persone, lì dentro.

Lo spettacolo della stella aveva da sempre segnato la fine della serata.
Una canzone americana poco pensata riempiva il locale, mentre gli addetti ai lavori asciugavano e sistemavano il piccolo palco.
Alla seconda canzone apparivano i ragazzi nuovi, quelli che ancora dovevano fare gavetta, quelli che si limitavano a ballare sul cubo vestiti di pochi centimetri di stoffa, ad allietare gli occhi della clientela.
Tomohisa non era mai rimasto oltre allo spettacolo della stella, ogni volta si era alzato in silenzio, senza guardare in volto nessuno, ed era sparito.
Ma quella sera, la settima volta - o la sesta, non amava contare quella prima volta, poiché non era andato di sua spontanea volontà - era diverso.
Teneva tra le mani la maglietta di Jin, di lui, della stella che era diventata la sua ossessione.
E il patto era chiaro, chiunque dei clienti fosse il prescelto della serata, poteva portare via la maglietta - era stoffa dozzinale, la stampa rovinata, era umida ed il colletto era lievemente strappato - ma non doveva toccare il resto degli abiti di scena.
Spesso le ragazze che venivano scelte la abbandonavano sul tavolino, sentendosi forse intimamente colpevoli nei confronti di un fidanzato, o un marito, lasciato a casa nell’innocenza di una bugia, non erano molti quelli che portavano con loro quel pezzo della stella.
Tomohisa, però, non aveva dubbi.
Strinse a sé quel pezzo di stoffa, alzandosi in piedi e urtando la gamba del tavolino nella fretta, camminando veloce, stretto nella sua aria di ragazzo per bene e nei suoi abiti troppo larghi, gli occhiali piccoli scivolati appena sul naso nella fretta.
E i bagni di quel locale non potevano che rispecchiare l’atmosfera che veniva creata nel locale stesso - sporco, voyeurismo, colpevolezza fatta di dichiarazioni d’amore sotto forma di piccole oscenità scritte sulle pareti umide, profumo del trucco che le ragazze che stavano per uscire si rinfrescavano, frettolose di una paura di mostrare che avevano sudato, che si erano svuotate di un orgasmo interiore, senza che nessuno le avesse sfiorate.
Non era mai stato in quei bagni, non una volta, ma non si lasciò il tempo nemmeno di contare fino a dieci, prima di chiudersi in uno di essi.
La porta chiusa davanti a sé, vi posò immediatamente la fronte, chiudendo gli occhi di fronte ad una scritta oscena completa di numero di telefono, per non vedere, per non sentire, per abbandonarsi solo alla propria mente.
Lasciava che la propria mano destra corresse in basso, giocando con la fibbia della cintura, con il bottone, la cerniera, in una frenesia che gli ricordava le mani di lui, della stella, in quei tocchi decisi che mostrava al pubblico, che sognava su di sé, che ora finalmente immaginava su di sé.
La mano sinistra era alta, appoggiata accanto al suo viso, a premere contro le labbra ed il naso quel pezzo di stoffa umido della sensualità di uno sconosciuto, di un’ossessione, a dargli il colpo di grazia che gli serviva per soffocare i gemiti di un piacere sporco, consumato contro la porta coperta di scritte di un bagno.
Aveva sussurrato il suo nome, aveva immaginato il suo viso, le sue mani, si era riempito le orecchie di quella voce e le labbra di quel sapore di stoffa consumata, abbandonandosi ad un orgasmo che di lì a poco avrebbe finto di dimenticare, indossando di nuovo i suoi panni di bravo ragazzo.

La maglietta stropicciata, intrisa del sapore della sua ossessione era nascosta, premuta insieme ad altri indumenti all’interno della borsa che portava a tracolla, che con il suo contenuto avrebbe tradito la sua identità di ballerino di una famosa compagnia di danza classica.
Era nervoso, silenzioso e nervoso, Tomohisa, le mani nascoste dalle maniche troppo lunghe di una felpa, i pantaloni larghi, morbidi sulle anche, il cappuccio calato sulla testa e gli occhi bassi.
Era immobile, l’unico movimento in cui si rifugiava era il ripetitivo salire al viso della sua mano destra, che aggiustava gli occhiali, poi scendeva di nuovo, a stringere l’altra mano.
Era timido, non mostrava il proprio corpo se non sul palco scenico, non alzava la voce se non per accogliere le acclamazioni di un pubblico contenuto e signorile, e l’aveva giurato, giurato a se stesso, che non si sarebbe lasciato ingannare dalla voce della stella.
Solamente cinque minuti, l’avrebbe atteso cinque minuti dell’orologio che era rimasto nascosto dalle maniche troppo lunghe, e poi sarebbe andato via.
La verità, però, era che non avesse la più lontana idea di quanto tempo fosse passato.
Forse due minuti, forse mezz’ora, i suoi occhi neri erano puntati nel nulla, identificato con una piccola macchia più scura dell’asfalto, che spiccava nelle luci al neon del locale.
La sua mente ripercorreva a ritroso i movimenti di Jin, uno ad uno, si perdeva in immagini esistenti e fuse insieme, si chiedeva cosa sarebbe successo, come sarebbe stato sentire su di sé le mani di quel ragazzo.
“Ehi, piccolo.”
La sua voce l’aveva sentita solamente una volta, in tutta la sua vita, ma già l’avrebbe riconosciuta tra miliardi.
Quel vibrare lento di corde vocali gli fece alzare lo sguardo, incontrare gli occhi castani di un ragazzo poco più alto di lui, i capelli spettinati sul volto, sguardo languido e labbra piene.
Era ancora più bello, così vicino, emanava quella sottile sicurezza di sé data dalla consapevolezza di riuscire ad eccitare le persone con la propria mera presenza, una sicurezza tale da far tremare lievemente Tomohisa, che abbassò di nuovo gli occhi.
Si strinse nelle spalle, nella propria studiata mediocrità, salutandolo con un cenno del capo e facendo un piccolo passo indietro, come se fosse spaventato dall’esuberanza fisica di quel ragazzo.
Un piccolo sbuffo, un accenno di risatina divertita gli fece alzare di nuovo gli occhi, in tempo per godersi il sorriso beffardo della stella.
“Non pensavo di fare questo effetto alle persone.”
Continuava a sorridere, evidentemente divertito da qualcosa, tra le labbra aveva una sigaretta, mentre con le mani si tastava le tasche di un paio di jeans larghi, strappati sulle ginocchia, probabilmente alla ricerca di un accendino.
Un ragazzo poco distante si avvicinò ad accendergli la sigaretta, a giudicare dal trucco era uno dei ballerini, e la stella si limitò a ringraziarlo con un cenno della mano, allontanandolo con un’occhiata.
“E-effetto?”
Tomohisa era ancora più a disagio, sentendosi nudo, scoperto nella propria ossessione per quel ragazzo, che evidentemente l’aveva visto sotto il suo palco, al suo cospetto, più di una volta.
E probabilmente l’aveva fermato per parlargli, no?
Per dirgli che era assurdo, e disgustoso, e non voleva che un tipo così lo inseguisse ancora.
Però si stava prendendo sin troppo tempo per dirglielo, limitandosi a giocare pigramente con la sigaretta, in bilico tra le dita lunghe, osservando ad occhi schiusi il fumo che usciva dalle sue labbra.
“Mh. Allora parli… sono sollevato. Temevo di avere indotto qualcuno al mutismo…”
Una risata abbandonata un po’ a sproposito era riuscita nell’intento di rompere il ghiaccio, facendo sollevare gli occhi a Tomohisa, che si aggiustò gli occhiali, si strinse nelle spalle, sorrise debolmente.
Un altro cenno del capo, come a chiedergli scusa di se stesso, della propria immotivata timidezza, proprio ora che tutto ciò che desiderava era accanto a lui.
Ma alla stella non sembrava importare, si avvicinò a lui di un passo, ed un altro, sino ad annullare la distanza breve, che man mano che Tomohisa si tirava indietro si allungava appena.
“Vieni a bere qualcosa con me, piccolo?”
Gli occhi di Tomohisa si spalancarono ancora, e la curiosità ebbe la meglio sulla timidezza, scavalcandola in favore di una frase lasciata scivolare prima che lui potesse pensarla, calibrarla.
“Pensavo… pensavo che aspettassi qualche… non so, ragazza?”
Un’altra risata, questa volta piena, roca, profonda, che accese di una luce divertita gli occhi della stella, prima che scuotesse la testa, lentamente.
“Il tuo radar ha bisogno di una revisione, piccolo. Allora, vieni a bere qualcosa con me? O per caso ti devo pregare?”
Era tornata, quella sicurezza di sé e quel mezzo sorriso, quasi strafottente, certo che nessuno l’avrebbe rifiutato.
Tomohisa lo guardava appena, attraverso le lenti dei propri occhiali, mordendosi le labbra in un inconscio tic per far fronte alla propria timidezza prima di sorridergli, lievemente, ed annuire.
“Sì? Sì che cosa? Che ti devo pregare?”
Il suo tono di voce aveva una nota divertita, il suo sorriso beffardo era ancora più bello, così vicino, la sua presenza era abbastanza inebriante da far ridere appena Tomohisa, timidamente, con una mano davanti alle labbra, la stessa che salì un istante dopo a sistemare ancora una volta gli occhiali sul volto.
La mano della stella salì al suo volto, scoprendogli la testa dal cappuccio in un istante, e l’istante dopo il suo braccio era attorno alle proprie spalle, che lo esortava a camminare.
“Andiamo?”

Il pub non era molto distante dal locale che avevano lasciato pochi minuti prima, ma non avevano parlato quasi per nulla, lungo la strada.
Tomohisa era nervoso, silenzioso, inebriato dalla presenza di Jin al proprio fianco, concreto, reale, dal suo braccio attorno alle proprie spalle, casuale, incomprensibilmente intimo.
Era diverso da come l’aveva sempre immaginato - era meglio.
Era umano, le sue labbra si rompevano appena per il freddo repentino di quella notte, le nocche della sua mano, posata sulla spalla di Tomohisa, erano rosse, le unghie un po’ mangiate.
Aveva il vizio del fumo, prendeva grandi boccate da quella sigaretta un po’ storta, rideva da solo a qualche battuta sciocca, lasciata scivolare fuori dalle sue labbra rotte per spezzare quella tensione di cui non poteva essersi accorto.
Tomohisa lo guardava, assorto, sorrideva di cortesia alle sue parole, senza realmente ascoltarle, si perdeva nel suono di quella voce bassa, calma.
Il pub era un locale stretto, all’occidentale, il soffitto quasi completamente reso invisibile dalla coltre bassa di fumo che lo avvolgeva, tanto quanto le note calme di vecchia musica americana in sottofondo.
Jin era un ragazzo strano, non si era fatto alcun problema a fumare per strada, a tenergli il braccio attorno alle spalle, contravvenendo alle regole del buon costume del loro Paese, ma aveva spento la sigaretta, con un colpo secco di tacco, poco prima di entrare nel pub, liberando Tomohisa dalla sua stretta calda.
Aveva salutato con un cenno del capo alcuni degli avventori del locale - un gruppo di ragazzi ad un tavolo, pettinature complesse e eyeliner spesso, probabilmente altri ballerini, come lui - e aveva sorriso alla cameriera, capelli ossigenati, pelle scura e rossetto chiaro.
Tomohisa si sentiva catapultato all’interno di un’altra dimensione, un bizzarro universo parallelo di locali fumosi dall’atmosfera calma e dagli avventori dal costume esuberante, si guardava intorno, silenzioso e a labbra strette, misurando, da dietro i suoi occhiali sottili, le differenze dei suoi bar con tavolini coperti da tovaglie lunghe sino a terra, caffè americano e cornetti caldi.
“Mh? Non ti piace qui, piccolo?”
Jin non gli aveva chiesto il suo nome.
Lo chiamava in quel modo, piccolo, forse non gli importava del suo nome, forse voleva il suo corpo celato dagli abiti troppo grandi per lui, probabilmente solo per una notte.
E Tomohisa non sapeva come rispondergli, a quella domanda come a quelle precedenti, gli aveva sorriso, semplicemente, stringendosi nelle spalle.
Lasciandosi prendere la mano dalla sua, lasciandosi portare nel tavolo più lontano di tutti, in un angolo, piccolo e in legno, con una bruciatura coperta con la cera di una candela al centro, ed una dichiarazione d’amore incisa in lettere scomposte sul fianco.
Jin si era seduto accanto a lui, il gomito sul tavolo, la mano sotto il mento, e lo guardava in volto talmente spudoratamente da farlo arrossire, ancora, stringersi nelle spalle e desiderare ardentemente un buco nel quale rannicchiarsi e urlare come una ragazzina.
“Allora, cosa prendi? Niente di forte, però, piccolo… non voglio di certo farti ubriacare per poi approfittare di te.”
Aveva riso da solo, lievemente, le labbra incurvate solo da un lato e gli occhi fissi in quelli neri di Tomohisa, che si specchiavano timidamente nei suoi, increduli, addirittura un po’ divertiti.
“Ah… no?”
Non sapeva se Jin l’avesse interpretata come una battuta, o avesse capito la sincerità spinta dall’ingenuità quasi ridicola di quel ragazzo silenzioso, ma aveva riso, sinceramente, tanto da mostrare piccoli segni d’espressione ai lati delle labbra piene, i capelli indietro, a scoprire il viso, a scoprire due nei accanto all’occhio, uno lievemente più grande dell’altro.
Era incredibilmente bello, quasi assurdo nella sua normalità, nel suo modo di portarsi una mano al cuore, fingendo un istante dopo un’espressione triste, colpita, come qualunque altro ragazzo avrebbe fatto al suo posto.
“Andiamo, piccolo… hai così poca fiducia in me? Mi offendi.”
Non era un ragazzo qualunque, però.
Era Jin, era lui, la stella, la sua ossessione da tanto tempo, sin troppo, era il ragazzo che poteva avere chiunque ai propri piedi con uno sguardo, con un sorriso, con una parola.
Eppure si comportava come qualunque altro ragazzo, come un semplice sconosciuto che cercava di fare colpo su qualcuno incontrato per caso, con tattiche sciocche che con lui assorbivano il fascino del superfluo.
Non aveva bisogno di comportarsi in quel modo, per avere Tomohisa, e lo sapeva.
Ma lo faceva in ogni caso.
Tanto da fargli abbandonare la sua rigidità di carattere e sollevare lo sguardo, e sorridergli per davvero, non per circostanza.
“Scusami…”
Il suo mezzo sorriso era tornato, dopo quella parola pronunciata a voce bassa da Tomohisa, ma era diverso.
Era assorto, lo guardava di nuovo, il mento appoggiato alla mano, gli occhi su di lui.
“Ti scuso tutto quello che vuoi.”
Se l’era chiesto, Tomohisa, all’inizio.
Si era chiesto come mai quel ragazzo, la stella, fosse interessato proprio a lui, si era persino convinto che stesse giocando, che avesse fatto una scommessa con qualcuno.
Come quelle cose cattive che fanno i maschi, tra loro, tipo quello “scommettiamo che riesco a portarmi a letto quel ragazzino sfigato?”, o cose del genere.
Ma poi si era dimenticato tutto, allo sguardo di Jin, al suo mezzo sorriso, a quella mano che si avvicinava al proprio viso, scostandogli una ciocca di capelli scuri, liscissimi, dagli occhi.
“Come ti chiami, piccolo?”
“Tomohisa…”
Gli aveva sorriso ancora, pronunciando il suo nome a voce bassissima, come ad imprimerlo nella memoria, riprendendosi la mano e posandola sul tavolo in legno, tamburellando le dita.
“E tu? Come ti chiami?”
“Sai… di solito non ascolto mai il nome delle persone, nelle presentazioni. Sono sempre troppo concentrato a dire il mio, e… mi dimentico. Tomohisa.”
L’aveva notato, che la propria domanda era passata inosservata.
Aveva stretto appena le labbra, chinando il capo di lato, osservando quel ragazzo, strano, che tamburellava le dita sul tavolo e lo guardava fisso in volto, con un mezzo sorriso assorto, e parlava, parlava di cose strane come lui.
Aveva riso, piano, abbassando lo sguardo e scuotendo la testa, destando la curiosità della stella.
“Mh? Perché ridi, Tomohisa?”
Gli piaceva rivolgersi a lui, chiamarlo, lasciarsi scivolare il suo nome tra labbra e lingua, pronunciandolo lentamente, ponendo enfasi su ognuna delle sillabe che lo componevano.
“Perché questa volta non l’hai detto, il tuo nome…”
Si era messo a ridere, una risata ancora diversa dalle precedenti, forse lievemente imbarazzata, con una mano sugli occhi e lo sguardo basso, lo sbirciava appena, tra le dita socchiuse, prima di abbassare anche quella mano, posandola sul tavolino accanto all’altra.
La traccia del ridere di se stesso era rimasta sul suo volto in un sorriso timido, scoperto nel divertimento che trovava nell’improvvisarsi stranamente impacciato davanti a qualcuno.
“Hai ragione… sarà per questo, che ho ricordato subito il tuo nome?”
Aveva posato nuovamente il mento sulla mano, osservandolo, tornando se stesso.
“Continui a non dirmi il tuo, però…”
E la voce di Tomohisa era sempre bassa, era sempre calma, ma si lasciava accordare con un po’ più di sicurezza, lo guardava in volto senza guardarlo mai del tutto, si beveva le curve del suo viso così vicino, con la vergogna tipica di chi sente il proprio cuore battere troppo forte.
“Sono un disastro, eh? E… sono Jin.”
Aveva sollevato gli occhi completamente, Tomohisa.
Aveva cercato nel suo sguardo la traccia di una bugia, di un muro eretto a difesa di se stesso, una falsa identità che affiorava spudoratamente nel non voler dire quel nome fasullo.
Ma non aveva trovato niente di insolito, nel suo sguardo.
Erano caldi occhi castani, sicuri di loro stessi e assorti nella contemplazione di qualcosa di nuovo, grandi, dal taglio sensuale, profondi.
“Davvero? Non è… voglio dire, non è un nome falso? Un nome d’arte?”
Jin aveva scosso la testa, lentamente, senza distogliere un solo istante lo sguardo dal volto di Tomohisa, alternandolo dai suoi occhi alle sue labbra, studiandone i movimenti mentre parlava.
Il suo mezzo sorriso non aveva subito tremori, era rimasto fermo sulle sue labbra piene, sicuro.
“Perché dovrei usare un nome d’arte? Le persone sono interessate al mio corpo, non al mio nome.”
Aveva lasciato scivolare via quella mano dal proprio mento, sollevandola in direzione del bancone, un cenno a qualche cameriera, una qualsiasi, per far sì che venissero notati anche in quel tavolino nascosto in fondo al locale.
“E poi, sono distratto. Se avessi un nome d’arte, non mi volterei, quando mi chiamano per strada, o al locale. Mi volto a malapena quando urlano il mio stesso nome, figuriamoci se ne gridassero un altro.”
Aveva sorriso di nuovo, e sarebbe stata troppo sincera, per essere una bugia vera.
Era crudo e deciso, il suo modo di parlare, era pieno delle linee della sua vita di tutti i giorni, non della maschera della stella di un locale di strip-tease.
Era tornato a guardarlo, più incuriosito dalle poche parole del ragazzo timido che dal mettere sotto i riflettori la vita di tutti i giorni di una stella.
“Cosa prendi?”
Tomohisa si era perso, perso nell’immaginare Jin per strada, perso nel rendersi conto che il nome che aveva sussurrato quelle decine di volte che si era toccato pensando a lui, era davvero il suo nome, perso nella sua voce calda.
Era tornato bruscamente sulla terraferma alla sua domanda, sorridendogli appena, smarrito, incerto sul cosa rispondergli.
Timoroso di sembrare solo un moccioso troppo cresciuto, non voleva davvero dirgli che non è il tipo che beve, perché gli alcolici fissano i grassi, e annebbiano la mente, e non gli piace il loro odore.
Non voleva dirgli che i ballerini di famose compagnia di danza classica non possono nemmeno avvicinarsi, agli alcolici, non voleva nemmeno dirgli di essere un ballerino, in effetti.
“Lasci fare a me?”
Aveva annuito, semplicemente, sentendosi un completo idiota ad aver sorriso radiosamente per il semplice motivo che gli occhi di Jin fossero rimasti puntati su di lui, tutto il tempo.
Anche quando si era avvicinata una cameriera, un’altra - stessa pelle scura, stessi capelli chiarissimi, trucco pesante e gomma da masticare -, con un blocchetto rovinato in una mano ed una penna rosa tra le dita dell’altra.
E Jin aveva continuato a guardarlo, il mento nuovamente posato sulla mano, le dita dell’altra a tamburellare il ritmo trascinato della canzone.
“Una birra chiara e… anzi. No. Due Bellini.”
La ragazza aveva annotato pigramente l’ordinazione, masticando il chewing-gum a labbra dischiuse, gli incisivi lievemente sporgenti che sembravano meno bianchi, in confronto al rossetto chiarissimo sulle sue labbra.
Si era allontanata senza dire nulla, traballando sulle zeppe altissime - forse.
Tomohisa non sapeva dire cosa stesse facendo la ragazza con assoluta certezza, in effetti, era solo un punto scuro che si allontanava dalla sua visuale, gli occhi timidi erano puntati solo su Jin.
“Cos’hai ordinato?”
“Ti piacerà.”
Tomohisa non riusciva a capire se lo sguardo costante di Jin su di sé fosse atto a semplice curiosità nei suoi confronti, o ad un modo sicuro e veloce per imbarazzarlo davvero a morte.
Perché, nel secondo caso, ci stava riuscendo perfettamente.
Non era abituato ad avere un paio di occhi così sensuali puntati su di sé, non era abituato a sentirsi oggetto delle attenzioni di qualcuno, e, per quanto quel piccolo dubbio che tutto fosse uno scherzo rimanesse, in un angolo della sua mente, non era disposto a cedere a quell’insicurezza.
Aveva persino deciso che poteva anche non prestarvi attenzione, godersi il corso degli avvenimenti senza chiedersene il motivo.
Si era stretto nelle spalle, consapevole di non essere assolutamente in grado di cominciare un discorso, di potersi solo abbandonare a piccole domande di circostanza.
“È… una cosa pesante?”
Era difficile, per lui, guardarlo negli occhi quando gli parlava, anche se si trattava solamente di poche parole.
I suoi occhi si rifiutavano di alzarsi, di incontrare quello sguardo deciso fisso sul proprio volto, rimanevano lì, su quella bruciatura di cera rossa sulla superficie di legno del tavolo.
Era in un angolo del suo campo visivo, però, poteva intuire la direzione del suo sguardo, l’ampiezza del suo sorriso, i movimenti del capo.
Fu per quello che riuscì a rendersi conto del sorriso lievemente più divertito di Jin, del suo sguardo che camminava lentamente sui suoi lineamenti tesi, di quel piccolo cenno di diniego, risposta ad una domanda posta senza un vero interesse, per riempire un silenzio che gli pesava.
Poi, la sua mano si era sollevata, accostandosi al suo volto, come a volerlo convincere con gentilezza a sollevare lo sguardo, ma non l’aveva sfiorato, era rimasta lì, a mezz’aria, immobile nell’intenzione di una carezza.
Si era poi abbassata, perché Jin l’aveva toccato poco, da quando erano entrati nel locale.
Si limitava a guardarlo fisso in volto, a sorridergli, senza tentare di imporgli fisicamente la propria presenza, probabilmente resosi conto, dopo lo scambio di qualche battuta, delle difficoltà che aveva Tomohisa nel relazionarsi con le persone.
“Sei uno di quelli che parlano poco, con gli sconosciuti, vero, Tomohisa?”
Non era un rimprovero, tutt’altro.
Era una constatazione, dettata dalla curiosità che Jin provava nei confronti di Tomohisa, di un ragazzo completamente diverso da tutti quelli che aveva conosciuto sino a quel momento, così silenzioso, chiuso, dai sorrisi rari che sembravano sempre più belli ogni volta che si mostravano.
“Sai cosa dovresti fare? Dovresti provare a immaginarle nude, le persone. Dicono che funzioni.”
Era uno di quei consigli che si danno senza averli pensati prima, per strappare un sorriso, per essere certi di non prendersi mai troppo sul serio.
Jin si era reso conto solo qualche istante dopo dell’assurdità di quanto aveva appena detto, nella loro situazione, e aveva abbassato lo sguardo, ridendo piano di se stesso, perdendosi per un soffio il sorriso divertito di Tomohisa.
Riuscì a catturare il colorito imbarazzato delle sue guance, però, quando rialzò lo sguardo, chiedendosi per un attimo il motivo di quel sorriso morbido sulle sue labbra, del movimento incerto della sua spalla destra.
Aveva scosso la testa, lentamente, posando gli occhi sulla cameriera, in lontananza, che posava le loro ordinazioni su un piccolo vassoio, scambiando qualche parola con il ragazzo abbronzato dall’altra parte del bancone.
“Non credo funzionerebbe, per me…”
Jin si era avvicinato appena a lui, sentendo la sua voce, senza secondi fini, semplicemente per non perdersi una sola sillaba di quelle parole pronunciate così flebilmente, che la musica non faceva fatica a sovrastare con i suoi toni.
“Dici di no?”
Gli aveva risposto prontamente, poi, senza disturbarsi di ringraziare le ragazza che posava i due bicchieri sul tavolino in legno, preferendo godersi il modo che aveva Tomohisa di chinare lievemente il capo, senza sollevare lo sguardo.
Aveva allungato la mano, prendendo lo scontrino, approfittando del fatto che gli occhi del ragazzo accanto a sé fossero addirittura più bassi del solito, con la presenza della cameriera.
Tomohisa aveva aspettato che la ragazza si allontanasse, prima di ricominciare a parlare, un accorgimento che forse sarebbe passato inosservato a chiunque, ma che aveva fatto sorridere Jin, muovendolo a domandarsi se per caso non avesse già guadagnato qualche piccolo punto di fiducia in più rispetto ad un estraneo qualsiasi.
“Non… mi piace molto parlare. Nemmeno con le persone che conosco bene…”
Aveva le unghie chiare e perfette, le dita sottili che si stringevano attorno al vetro fresco del bicchiere, mentre lo portava più vicino a sé, osservando il colore della bibita, sentendo il profumo di pesca, l’ombra dell’odore alcolico.
Ed era la volta di Jin, di perdersi nei particolari, nel suo modo di comportarsi come se tutto ciò che aveva intorno fosse completamente nuovo per lui - e non lo sapeva, non ne aveva idea, ma lo era davvero -, dai sorrisi timidi agli sguardi schivi, incuriositi.
“Non ha importanza, se non vuoi parlare. Però, puoi sorridere… così posso capire qualcosa di te dai modi diversi in cui sorridi, mentre sono io a parlare.”
Tomohisa aveva alzato nuovamente lo sguardo, dritto nel suo, solamente per la seconda volta da quando erano lì.
Gli aveva sorriso appena, stringendosi nelle spalle e abbassandolo nuovamente sulla bibita, rigirandosi una cannuccia tra il pollice e il dito medio, accostandosela alle labbra.
“Sei… molto diretto.”
Aveva lasciato da parte per qualche istante l’idea delle scommesse, delle prese in giro, del fatto che tutta quella serata potesse essere uno scherzo della propria mente, uno scherzo di pessimo gusto.
E Jin gli aveva sorriso, di nuovo, osservando il suo naso arricciarsi lievemente non appena venne colpito dal gusto della bibita, per poi prendere un altro piccolo sorso.
“Non lo sono quasi mai, di solito. Però, sai… sarebbe un problema girare attorno al punto del discorso, se a te non piace parlare. Ho paura che poi mi scappi.”
Le sue guance si erano colorite di nuovo, e aveva alzato brevemente lo sguardo, probabilmente per sondare l’espressione di Jin, per cercare di capire quanto di ciò che aveva appena detto corrispondesse alla effettiva verità.
Ed era tornato a rigirarsi la cannuccia tra le dita, bevendo un altro sorso da quella bibita dal sapore di pesca e spumante, frizzante, particolare.
Poi si era stretto nelle spalle, sorridendo appena, senza sollevare lo sguardo.
“Non penso che scapperò…”
E Jin gli aveva sorriso, togliendo la cannuccia dal proprio bicchiere per posarla sul tavolino, per poi sollevarlo, facendolo tintinnare lievemente contro il suo.
“Cheers, piccolo. Al nostro incontro.”

Gli occhi di Tomohisa erano bassi, a seguire pigramente i propri passi sull’asfalto scuro illuminato dai lampioni, una scusa come un’altra per non posare lo sguardo sul ragazzo che camminava al proprio fianco, per non aumentare l’imbarazzo già fortissimo che si sentiva bollire sulle guance.
La voce di Jin era bassa, calda, tranquilla come lo era stata per il resto della serata.
Aveva limitato il contatto fisico con lui, resosi conto nel corso della serata quanto la cosa mettesse in imbarazzo Tomohisa, ma non era riuscito a imporsi di distogliere lo sguardo dal suo viso.
Aveva pagato il conto senza permettergli nemmeno di vedere lo scontrino, forte del fatto che l’altro ragazzo fosse sin troppo timido per recriminare, e gli aveva sorriso, indicandogli l’uscita con un cenno lieve del capo.
Poi aveva insistito, dolcemente eppure con fermezza, con il sorriso tipico di chi non accetta un no come risposta, voleva accompagnarlo a casa.
Solamente un pezzo di strada, e poi l’avrebbe lasciato in pace, aveva giurato.
A Tomohisa non disturbava affatto, in realtà, la presenza di Jin accanto a sé.
Era un ragazzo strano - parlava di cose strane, una vita strana, piena di persone diverse, tipi di persone che Tomohisa non aveva mai avuto la possibilità di incontrare, nell’ambiente in cui viveva da quando era piccolo.
E forse un po’ era lui a vergognarsi della propria vita, silenziosa, dipinta di eleganti toni in bianco e nero, tra donne troppo truccate che gli tenevano la mano, gli regalavano fiori, lasciavano tracce dei loro profumi costosi sul suo collo quando lo abbracciavano, bramose di complimentarsi per la sua danza morbida e studiata.
Era un talento creato con anni di studio, il suo, ed una sensualità naturale come quella che vedeva negli spettacoli di Jin era lontana da tutto ciò che aveva vissuto.
Probabilmente era quello il motivo del suo silenzio, un timore di scoprirsi che aveva preferito travestire di timidezza cronica, e non aveva lasciato che Jin intuisse nulla della propria vita.
Però seguiva i suoi discorsi, e sorrideva, stringendosi nelle spalle e sentendo i brividi corrergli lungo la colonna vertebrale quando le loro mani si sfioravano per sbaglio.
“Sono… sono quasi arrivato. Grazie.”
Aveva chinato il capo, lievemente, chiuso in un’educazione quasi eccessiva, non necessaria, sentendosi fermare in quel movimento lento da due dita sotto il proprio mento, gentili, che lo guidavano a risollevare lo sguardo.
Il sorriso di Jin era bello come sempre, o forse persino di più, a così poca distanza, con il volto illuminato dai lampioni di quella strada stretta.
Aveva abbandonato l’indice ed il medio sotto il suo mento, lasciando scorrere il pollice a tracciare la linea del suo labbro inferiore, delicatamente, guardandolo negli occhi.
“Grazie a te, per avermi tenuto compagnia questa sera.”
I suoi occhi avevano qualcosa di ipnotizzante, tanto che Tomohisa non riuscì ad abbassare il proprio sguardo, mantenendolo fisso nel suo.
Gli sorrise, imbarazzato, sentendo il profumo particolare che c’era nella situazione, tra loro, affascinato da quello sguardo che non aveva mai visto su nessuno, se dedicato a lui.
“Non pensavo di trovare un ragazzo come te, in un locale come quello, sai?”
Fu Jin a dare voce ai pensieri di Tomohisa, con quella frase lasciata scivolare in un sussurro, con un sorriso divertito.
Ed era lo stesso suo pensiero, che non avrebbe mai avuto il coraggio di esprimere a voce alta, ma si limitava a stringere nella propria mente, chiedendosi come fosse possibile che un ragazzo come lui, la stella, fosse così assurdamente reale.
Reale, dolce in quel modo di fare, di osservarlo, di interessarsi ad una persona così diversa da se stesso e da tutto ciò che l’aveva circondato sino a quel momento.
“Come me?”
Jin annuì, lentamente, senza distogliere lo sguardo dal volto di Tomohisa, studiando la sua espressione, persa, imbarazzata.
“Diverso. Non sei il tipo da frequentare un locale del genere, e… in tutta sincerità, ancora mi chiedo cosa ci facessi lì.”
Il primo istinto di Tomohisa fu di tirarsi indietro, lievemente, sentendosi scoperto nella sua debolezza, nel suo non far parte di quel mondo, tanto da aver indotto Jin a chiedersi il motivo della sua presenza.
Ma rimase immobile, ipnotizzato da quegli occhi castani e dal movimento leggero del suo pollice sul proprio mento, come a tranquillizzarlo, in quella domanda repentina.
“Mi… mi piace guardarti ballare.”
Non aveva fatto fatica, in quell’istante, ad ammettere a se stesso che quella sembrava davvero la scusa più ridicola del mondo, completamente priva di senso - chi mai per vedere ballare qualcuno andrebbe in un locale dove i ballerini sono, effettivamente, spogliarellisti?
La verità a volte non è per niente efficace, se mormorata con occhi lucidi e le guance rosse di un imbarazzo che potrebbe essere causato solamente da una bugia detta per coprire qualcosa di peggiore, di più sporco.
Era la verità, gli piaceva guardare Jin che ballava - e poi immaginare le sue mani su di sé, pensarsi tra le sue braccia, a ballare con lui una danza diversa, primordiale, qualcosa che il suo stesso corpo non aveva mai provato, e riusciva a stento a immaginare.
Ma quella mezza verità sembrò far sorridere Jin, che lasciò scorrere la mano sulla sua guancia con più tranquillità, ed un velo di tenerezza scaturita da chissà dove.
“Tornerai a guardarmi ballare?”
Aveva atteso solamente che Tomohisa annuisse, appena, abbassando poi lo sguardo timidamente, prima di accostare le labbra alla sua fronte.
Era un tocco lieve, gentile, che non pretendeva di essere niente di più di quello.
Si era distaccato lievemente, poi, lasciando scorrere la mano che prima era sulla guancia di Tomohisa sul suo braccio, lentamente.
“Buona notte, piccolo.”
Un altro piccolo bacio sulla fronte, sullo stesso punto, prima di allontanarsi da lui di due piccoli passi, osservando quel ragazzo timido e silenzioso sorridergli, chinare lievemente il capo, sorridergli di nuovo, incapace di trattenersi.
E poi l’aveva guardato aggiustarsi i piccoli occhiali, mormorare un piccolo saluto e fare qualche passo, voltarsi, camminare in direzione di quello che probabilmente era il suo appartamento stringendosi nella maglia più grande di troppe taglie, per il freddo.
Riusciva a intuire che stesse sorridendo anche se era di spalle, e inconsciamente rispose a quel sorriso, prima di portarsi una mano al petto.
Il suo cuore aveva davvero uno strano modo di battere così forte.

Nya ♥ Fatemi sapere cosa ne pensate. Ora mi metto a scrivere un post stupido con tante screencaps, ecco! *_*

genre: fluff, jin, genre: smut, pin, fanfiction: italian, pi, rating: nc-17

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