[Sherlock BBC] Forget about your past, Why so divine, the pain of love

Sep 25, 2012 12:21

Titolo: Forget about your past, Why so divine, the pain of love
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson
Rating: R
Avvertimenti: Slash
Conteggio parole: 4064 (fiumidiparole)
Riassunto: È un attimo, e la voce del dottore di scioglie in un gemito. Così vuole sentirlo, così gli piace, lui che spinge le labbra sul collo, e John che finalmente si volta e lo calcola, appoggiando le sue gambe corte sopra le sue e avvolgendogli la testa con le braccia e premendosi contro di lui.
È caldo. Scotta come la sabbia a Kabul, come il sole su tutto il distretto di Kandahar. Lo mangia con le labbra, morsi da bestia affamata che non lasciano il segno.
John è un enigma, oggi più degli altri giorni. Ma è caldo, contro il suo corpo, e il resto, al momento, è qualcosa che tiene in secondo piano - il resto, al momento, non ha nemmeno diritto di esistere, nella sua testa.
Note:Mi chiedo se continuerò così per tutti i 500 prompt dei 500themes_ita. Stavolta tocca a 82. Nel silenzio della notte. Pare che qualcuno già mi odi per questa fic. Dai, mi odio anche io. <3 Non vi dico cosa vuol dire la frase in pashto perché insomma, LO SAPPIAMO TUTTI COSA VUOL DIRE. Ciao.


X Gennaio 2015

Non si sono mai incontrati fuori da casa di John. Per i quasi due anni e mezzo in cui si sono frequentati, è sempre stato Sebastian ad entrare in casa di John - di soppiatto, invitato, mentre non c’era, non ha mai fatto differenza, per lui.
Per questo, mentre lo aspetta sotto i portici della stazione di Victoria, Sebastian si sente un po’ fuori posto. Ha una sciarpa stretta attorno al collo, il fiato che si condensa appena abbandona la sua bocca. L’orologio della stazione, alle sue spalle, segna mezzogiorno meno venti.
È in anticipo.
Stringe i pugni guantati dentro il cappotto, guardandosi attorno. Piega appena la testa per nascondere la bocca dietro la sciarpa, la punta del naso che sta diventando rapidamente insensibile. Batte il piede sul marciapiede, impaziente. Certo, avrebbe dovuto calcolare meglio i tempi, ma lui non è abituato a queste cose, lui scassina le serrature e aspetta con le sue tempistiche, e qualcosa di imposto lo manda su di giri.
Si guarda indietro, e l’orologio lo guarda impietosito, spostando la lancetta dei minuti in avanti. Decisamente il tempo non è dalla sua parte. Guarda al cielo, quel poco che riesce a vedere oltre i palazzi davanti a lui; è bianco, c’è aria di neve. Lo sguardo ricade sul traffico, sull’andirivieni di persone che affollano le strade, intasano il passaggio verso i treni ai tornelli. Il nervoso sta lentamente abbracciando i suoi pugni, e se John non arriverà quanto meno in orario, è sicuro che andrà via per entrare a casa sua e lasciargli un avvertimento - così, per ricordargli che lui non accetta ritardi.
“S-Sebastian.” Si volta di scatto verso la voce, abbassando lo sguardo per trovare il naso di John davanti ai suoi occhi, rosso e screpolato sull’arco di Cupido. Tira su col naso, guardandosi attorno e fregandosi le mani sulle braccia. “Pensavo di essere in anticipo.”
Deve aver sentito le sue minacce. Non ci sono altre spiegazioni plausibili. Si incanta sul suo naso arrossato, abbozzando un sorriso sghembo. “Lo sei, John, non preoccuparti. Sono qua solo da venti minuti.”
“Vent-“
“Ho finito un lavoro prima del previsto, e sono venuto direttamente qui.”
John stringe le labbra screpolate e annuisce, guardandolo. Imbottito dentro strati di stoffa, oggi sembra ancora più basso. Gli sistema il bavero della giacca, sollevandoglielo attorno alle orecchie. “E adesso andiamo, su. Mi sono già stancato di stare fermo qui.”

Non sa perché abbiano deciso di pranzare in un ristorante a caso a Southbank - o meglio. Non sa perché Sebastian, di tanti ristoranti, abbia deciso di andare allo Skylon, decidendo sul momento e avendo una discreta botta di culo. Hanno preso un tavolo sul riverview, e forse non è stata una buona idea, perché John sembra attratto dal fiume, sembra distratto.
“John?”
Ha ancora il naso rosso, nonostante dentro il locale sembri primavera.
“Oh. Scusa. Il Tamigi ha un non so che di affascinante, oggi.”
Lui annuisce, e non risponde. Si limita a mandare giù un boccone di John Dory - oh, sì, ha scelto il piatto apposta per il nome, non certo per il pesce pregiato, certo - fissando la linea morbida del suo mento, il dolcevita scuro stretto attorno al collo. È strano, John, ma non gli permette di andare oltre, di trovare una motivazione nel suo comportamento distratto, nella punta accaldata del suo naso. China di nuovo la testa sul piatto e mangia, in silenzio.
John mangia due bocconi di salmone affumicato, poi solleva lo sguardo, e gli sorride.
Va tutto bene, gli dice con gli occhi.
È sicuro che gli stia mentendo.

Sono le tre e un quarto, minuto più, minuto meno. Il Tamigi è calmo, piccole imbarcazioni scuotono il letto d’acqua sfidando il freddo, musiche vecchie di decenni che riempiono l’aria sovrastante il fiume. Camminano fianco a fianco, Sebastian con le mani nel cappotto, John che alita sulle mani già secche.
“Avresti dovuto prendere dei guanti.” lo rimprovera lui, senza guardarlo. La risata di John è leggera, si infrange prima di raggiungere le sue orecchie, assorbita dai motori e dal chiacchiericcio della gente attorno.
“Lo so. Ho mollato l’ambulatorio di fretta non appena la gente ha smesso di venire. Domani li vado a recuperare.”
“Sei un idiota.”
John chiude gli occhi e sorride ancora, mentre infila le mani in tasca e tira su col naso. Sembra quasi un anatroccolo, con le braccia piegate ed aperte. Poi, non capisce bene perché, si ferma, guardando al cielo. Il London Eye brilla di blu.
“Andiamo a fare un giro.”
Sebastian annuisce con un grugnito, e riprende a camminare.
Non c’è fila, alla cassa. Chiunque più intelligente di loro ha preferito richiudersi in un bar, o di stare chiuso in casa sotto le coperte calde, davanti a una stufa alogena, o un camino. John paga prima che possa accorgersene, ma non importa - troverà il modo di restituirgli il favore, in un modo o nell’altro. Hanno la cabina tutta per loro.
John si siede immediatamente, guardando verso il fiume. Riesce a vedere le nuvole di condensa dentro la sua bocca crearsi e dissolversi rapidamente. Sebastian prende posto accanto a lui, ma non è il panorama che gli interessa. La sua pelle gli sembra di un colore troppo chiaro, ma forse è solo la luce del cielo, forse solo l’illuminazione della cabina. Persino le vene sul collo sono pallide. “John.”
“Dimmi.”
Solo il naso è rosso.
“Stai male.”
John non risponde. Si guarda attorno e poi decide di voltarsi definitivamente verso Sebastian, e lui vede i suoi occhi, e vede acqua, e pallore, va tutto bene.
“Il freddo mi fa colare il naso, ma sto bene.”
È una giustificazione che può accettare. John si volta di nuovo verso i vetri, senza permettergli di guardare ancora la punta del suo naso, le labbra screpolate. Guarda i muscoli del collo, forti, candidi, vorrebbe lasciarci sopra un morso, e macchiarlo di viola.
Sono quasi a metà del giro. Chiusi, lontani dagli aromi del cibo, lontani dal freddo che anestetizza i suoi recettori, Sebastian percepisce l’odore di John - un sottofondo di colonia che non riesce a soffocare il profumo invitante della sua pelle. Si avvicina, afferrando John per un polso. Lui si gira e lo osserva, incuriosito.
“Che succede, Seb?”
È un attimo, e la voce del dottore di scioglie in un gemito. Così vuole sentirlo, così gli piace, lui che spinge le labbra sul collo, e John che finalmente si volta e lo calcola, appoggiando le sue gambe corte sopra le sue e avvolgendogli la testa con le braccia e premendosi contro di lui.
È caldo. Scotta come la sabbia a Kabul, come il sole su tutto il distretto di Kandahar. Lo mangia con le labbra, morsi da bestia affamata che non lasciano il segno.
John è un enigma, oggi più degli altri giorni. Ma è caldo, contro il suo corpo, e il resto, al momento, è qualcosa che tiene in secondo piano - il resto, al momento, non ha nemmeno diritto di esistere, nella sua testa.
Cattura le sue labbra nel punto più alto del giro. Sanno di chewing gum alla menta e vino bianco. Lascia che la sua lingua assorba ogni briciola del suo sapore, perché quando tornerà a casa, e sarà solo, John sulle sue labbra sarà quello che gli rimarrà addosso fino al loro prossimo incontro.

“Stai bene?”
“Sto bene.”
“Allora ci vediamo.”
Un bacio sulla porta, e poi allunga la mano sul primo taxi che trova e ci si lascia cadere dentro, stringendo le labbra contro i denti e sentendo ancora il sapore di John.

Non si vedono mai ogni giorno, e John non decide mai nulla a riguardo. È lui che tiene in mano le redini, lui che gli concede il privilegio di poterlo avere sopra di sé, tra le sue mani, dentro la sua bocca. È lui che adesso si sente trascinare da qualcosa di invisibile verso l’ambulatorio per vedere se John sta bene, perché il sapore delle sue labbra è scomparso e ha lasciato spazio a una sensazione amara che non lo lascia tranquillo da ore.
Quando chiede del dottor Watson, una biondina gli risponde che questa mattina non si è presentato, e a lui si rizzano i peli sotto il cappotto militare.
Non aspetta il taxi, sono le dieci e il traffico gli impedirebbe di arrivare ad un orario decente. Preferisce correre, e poco importa se andrà a sbattere addosso a qualche anziano, o se farà cadere un bambino a faccia in giù contro il marciapiede. È John, il resto diventa inutile.
Quando è diventato così?
Oxford Street, Orchard Street, Baker Street.
Vorrebbe portarselo a casa. Perché non lo ha mai fatto? Lo terrebbe sottocontrollo, saprebbe quello che fa, saprebbe perché il suo naso è rosso senza aspettare che glielo dica lui.
Non suona. Entra in un vicolo, si arrampica fino a raggiungere la finestra della camera da letto e con un colpo via, la serratura salta e lui può entrare.
Silenzio. La tv che manda in onda la pubblicità.
Cammina a passo felpato, ma il pavimento è vecchio e scricchiola, gli dà il benvenuto in casa. Poggia le mani sull’andito stretto, e si stupisce del buio che aleggia nella stanza - fuori nevica, ma il cielo è chiaro. Qui invece c’è solo l’illuminazione fredda del monitor acceso.
John ha il naso rosso.
È sdraiato sul divano, la testa poggiata sul bracciolo. Ha una coperta che ha malapena gli copre le spalle, messa male com’è.
Al diavolo l’effetto sorpresa. Si avvicina a passi da gigante, cadendogli davanti in ginocchio.
Perché non ha guardato meglio, il giorno prima? Perché non ha pensato alla sua pelle troppo calda?
“John. John, svegliati.”
Una sottile protesta, gli occhi che si stringono e lasciano scivolare una lacrima. Lo guarda stranito, forse lo vede sfuocato. Allunga la mano per toccarlo e la coperta cade del tutto. “Seb, cosa…”
“Perché non mi hai detto che stai male?”
John socchiude gli occhi e tira su col naso senza successo. “Ho solo il raffreddore.”
“Cristo, sei un idiota.”
Gli preme una mano sulla fronte, e la sente calda. Ma che cazzo ne sa lui di se ha la febbre, se ce l’ha alta, quando le sue mani gelano perché s’è dimenticato di mettere i guanti nella fretta, e ora i suoi palmi sono gelati? “Un idiota, cazzo, John.”
“Sto bene.”
Come fa a sorridergli anche adesso?
“Non stai bene, cazzo.”
Sebastian lo prende per le spalle, aiutandolo a mettersi seduto. Lo vede stringere le palpebre, forse per un capogiro e a lui, porca puttana, gli si stringe il cuore. “Soffiati il naso, sembri un moccioso. Ti preparo qualcosa, osa muoverti e ti gambizzo.”
John annuisce, ed è un suono flebile. Mentre si alza, Sebastian afferra il telecomando e spegne il televisore, prima di scomparire verso la cucina e cominciare a rovistare. John è un teinomane, il tè lo aiuterà a stare meglio - deve, perché altrimenti non ha idea di che altro inventarsi. Mette l’acqua a bollire in un pentolino, mentre cerca la tazza più grande che ha.
Vorrebbe prenderlo a pugni, ma non ne ha cuore.
Il tempo non è clemente nemmeno oggi. Cinque minuti passano come se fossero secoli, e poi l’acqua comincia a creare vapore, e decide che può andar bene così, che John non ha da aspettare.
Quando torna nel soggiorno, John ha la testa riversa all’indietro, e gli occhi chiusi. Lui lo scuote appena, prendendo posto al suo fianco.
“Ho la testa pesante.”
“Lo so. Ce la fai?” chiede, porgendogli il tè. John china la testa, e prova a respirare l’aria calda proveniente dalla tazza. Non risponde, limitandosi a portare la tazza alle labbra e a bagnarsele di Earl Grey.
Il sospiro di sollievo che emette lo rincuora. Non ha bisogno di dirgli di berlo piano, John manda giù piccoli sorsi e aspetta che il caldo si dissipi del tutto, prima di continuare a bere.
Mentre John non lo guarda, Sebastian recupera la coperta di pile, sistemandogliela sulle spalle. Si sbagliava, ieri, pensandolo piccolo avvolto dal piumino.
Adesso gli sembra quasi fragile.
Poggia una mano sulla sua coscia. È morbida, calda persino attraverso i pantaloni del pigiama. La accarezza finché le dita non cominciano a premere con più forza, e John geme di dolore. “Scusa.” mormora, e riprende ad accarezzarlo.
“Hai la febbre?”
John poggia le mani sulle gambe, la tazza che poggia sui pantaloni e lascia il segno. “Un po’.”
“Sei un medico, un po’ non vuol dire un cazzo.”
John alza lo sguardo, cerca i suoi occhi. Lo stomaco si stringe di nuovo, quando riesce a vedere un riflesso distorto di se stesso nelle sue iridi umide. “Trentotto e uno. Non è alta. Sono solo stanco.”
Non è alta, per John, no. A lui sembra decisamente troppo.
“Ti porto a letto.”
John non protesta. Si limita a tentar di poggiare la tazza sul tavolo, ma le sue mani lo tradiscono, e la ceramica tintinna contro il legno, scheggiandosi. Per fortuna, la tazza è quasi vuota. La sua espressione cambia, sembra un bambino che ha appena compiuto un danno irreparabile, la mortificazione incisa nelle pieghe delle sue rughe.
“Non pensarci nemmeno, idiota.” Si siede affianco a lui, passandogli un braccio sotto la sua ascella. “Aggrappati. A quello ci penso io dopo.”
È mansueto come un gattino. Sente la sua mano stringergli la spalla con poca convinzione, e lui si piega appena per appoggiare la mano sulla sua pancia, e reggerlo mentre camminano verso la stanza, a passi piccoli, a passi di topo.
Una volta ne avrebbe approfittato.
Una volta lo avrebbe lasciato stendere sul divano e lo avrebbe assaltato, consapevole del fatto che non avrebbe potuto reagire. Lo avrebbe martoriato, mangiato, distrutto in qualunque modo, lo avrebbe scopato e forse, preso da un moto di compassione, lo avrebbe ripulito, prima di andare via.
Non si ricorda quando una volta è diventato adesso, quando una volta abbia deciso per conto suo di imboccare una strada nuova. E mentre apre la porta della sua camera, accompagnato solo dal respirare malato di John, Sebastian si rende conto che qualcosa non va, e non riesce a capire quanto questo non andare sia un bene o un male.

“Domani starai meglio.”
Non è mai stato bravo con le bugie bianche. Ma John lo guardava con occhi che ha scoperto di non poter sopportare a lungo, e la sua bocca non è stata capace di dire altro. Lo ha messo a letto ed è stato lì a vegliarlo per tutta la notte, addormentandosi come un bambino in ginocchio, la testa sulla pancia morbida di John.
Ma domani è arrivato, e non è cambiato niente.
La stanza di John è fredda. La colpa è sua, ma non lo ammetterà mai. Mentre l’altro ancora dorme, si avvicina e studia la serratura difettosa, giocando col meccanismo. Spinge la finestra contro gli stipiti e clac, si blocca, e non entra più un alito di vento.
John ha la fronte umida. La sfiora con le dita, raccoglie gocce di sudore che scivolano subito nella sua bocca. È salato, sa di John, ma di un John sfiancato, un John debole, che non ha mai visto prima di adesso. Esce dalla sua camera richiudendosi la porta alle spalle, entrando in una sala pranzo che senza il suo proprietario sembra solo una stanza vuota.
Si china sul camino, raccogliendo la cenere per sostituirla con legna nuova. Non riesce a stare con le mani in mano, ha bisogno di muoversi, di fare qualcosa - non penserà mai che vuole rendersi utile, perché non lo ha mai fatto in tutta la sua vita, e sta già affrontando troppe prime volte, al momento.
Il crepitio della legna che arde soffoca gli scricchiolii alle sue spalle. Mentre cerca di attizzare il fuoco, pigro e ancora debole dentro il camino, sente la porta di camera di John cigolare, e il rumore metallico del bastone interrompe il silenzio.
“Che cosa- John, che cazzo stai-“
“Non c’eri.”
La voce gli si secca in gola. Non riesce a far altro che avvolgergli le spalle ed accompagnarlo alla sua poltrona. Vede il viso di John piegarsi in un sorriso, quando vede il fuoco.
Forse in fondo non ha detto una bugia.
“Aspetta.”
È un sussurro che sparisce dentro il rumore della pelle del divano che si appiattisce sotto il suo peso. Sebastian poggia una gamba a terra, l’altra invece la preme contro lo schienale. Prende John per i fianchi e lo fa girare, piano, prima di farlo accomodare nello spazio tra le sue gambe. “Stai qui.”
Il mugolio di piacere che esce dalla gola di John gli scalda il cuore.
È suo. Con l’odore leggero di sudore, la fronte bagnata, le mani calde. È suo, suoi sono gli occhi lucidi e la bocca secca e screpolata. Alza una mano per accarezzarla, piano. Ci sono i suoi morsi, nascosti sotto la superficie rotta delle sue labbra.
Soltanto i suoi.
La mano di John accarezza il braccio che è fermo sulla sua pancia. Sebastian gli dà un colpo leggero con naso sulla testa, e quella pende lentamente di lato, lasciandogli spazio.
Potrebbe spezzarlo. Ma il suo cuore perde un battito, quando lo pensa.
Sfiora la curvatura del collo col naso, gli occhi chiusi per assorbire le sensazioni come fosse una spugna. Il respiro di John accelera appena, reso difficoltoso dal raffreddore. Al naso, Sebastian sostituisce presto la bocca, i denti che sfregano sulla carne senza morderla. La testa di John si abbandona sulla sua spalla, il suo corpo morbido intrappolato tra le sue braccia. Una mano scivola sotto la maglia del pigiama, e Sebastian sa che quel calore è spropositato, ed è troppo per un corpo così piccolo, ma non resiste alla tentazione di sentirlo direttamente sulla sua pelle, intossicato come un drogato. Stringe la pancia tra le dita, immaginandola diventare rossa, e sbiancare dopo pochi secondi. Non vuole fargli male, non vuole farlo stancare. Si limita ad accarezzarlo, a pizzicarlo, mentre le sue labbra fresche si appoggiano sul suo orecchio, baciandone ogni centimetro.
Sente le dita di John stringersi sul suo avambraccio. Gli viene spontaneo sorridere, e prendergli il lobo tra i denti.
“Rilassati.”
Non ce la fa. Resistere non è mai stato il suo forte, ma non vuole perdere il controllo come una bestia - non è un animale, cazzo, è uno strafottuto essere umano anche lui, anche se non sembra.
Sente John cominciare a respirare con la bocca, quando dalla pancia, le sue dita scivolano fino all’orlo dei pantaloni, e lo forzano per fermarsi sotto l’elastico delle mutande. Se è possibile, lì la pelle è ancora più calda. La leggera peluria frega contro i suoi polpastrelli, e Dio solo sa quanto vorrebbe affondarci il naso, adesso, e respirare.
Raccoglierebbe John in pezzi da classificare in base all’odore, se potesse. Li appenderebbe al muro, li bacerebbe uno ad uno, al mattino appena sveglio.
Gli stringe un braccio intorno alla vita, facendolo aderire meglio al suo petto. Non riesce a guardarlo in faccia, ma si limita a lasciar scivolare naso e labbra sulla pelle sudata del collo, mentre l’altra mano scivola tra le sue gambe, e quasi si sente scottare. “Lascia che mi prenda cura di te.”
Il sospiro che scappa dalle labbra di John quando stringe la carne bollente tra le dita è una benedizione. L’umidità che si incastra tra le dita, le vene che sfregano contro i calli delle sue mani, sono tutte cose per cui, si rende conto, vale la pena sentirsi vulnerabili.
Perché è questo che sente. È John che penetra nel suo cervello allo stesso modo con cui lui è penetrato mille volte nel suo corpo. Con una violenza secca, crudele, ammorbidita solo dai suoi occhi stanchi, dal suo tono di voce gentile, a volte ironico, a volte troppo caldo. È tutto troppo, inverosimilmente caldo, attorno a John, e non è assolutamente concepibile che sia tutto suo.
Lo vuole per lui.
La mano scivola lenta, ma più pensa e più i pensieri affollano la sua testa, e più il ritmo aumenta. John non ansima, respira forte, stringe e allenta la presa sul suo braccio come fosse un gatto che fa la pasta. E a Sebastian piace, per una volta, dare tutte le sue attenzioni a una persona che non sia se stessa. Lui, per una volta, si accontenta della leggera frizione della schiena di John su un’erezione che nemmeno vuole.
Sente qualcosa spingere sulle sue labbra per venire fuori, ma quando John lo stringe così forte da fargli male, mentre sporca la sua mano, le parole scappano via, e probabilmente non torneranno più.

Viene sul water premendo la testa contro il muro, e dentro si sente soffocare.

Non ha mai passato così tanto tempo in un posto che non fosse casa sua.
Ha chiuso tutte le finestre e tirato le tende, lasciando l’appartamento nel buio quasi totale, il fuoco l’unica e fioca fonte di luce. Ha provato a mettere piede in camera di John, ma un brivido di freddo ha attraversato la sua schiena, e così ha fatto l’unica cosa sensata da fare: ha preso le coperte più pesanti che ha trovato, e le ha portate in cucina per coprire entrambi.
La temperatura non è scesa. È strano, come qualcosa che può dar sollievo perda efficacia dopo una manciata di minuti. John è raggomitolato sul divano, trema nonostante abbia addosso chili di lana. Sebastian non è mai stato bravo con il pronto soccorso. L’unica cosa che gli viene in mente, qualcosa che forse tornerà più utile che infilare una mano nelle sue mutande, è usare i panni da cucina puliti che ha trovato per inzupparli d’acqua fredda, e metterli sulla sua fronte. Ma John sogna, si agita, e lui non sa più cosa inventarsi.
Cerca la sua mano sotto le lenzuola. Il calore pizzica sulla sua pelle come mille aghi, lui che invece è gelido come l’acqua su cui continua a mettere le mani. Quando John chiama il suo nome, lui accarezza il dorso col pollice, sussurrandogli all’orecchio “Sono qui, John.”
Lo ha avvelenato. La sua strafottenza gli si è ribellata, permettendo a una persona così piccola e insignificante di farsi spazio sottopelle. Anni fa non lo avrebbe mai permesso.
Ma d’altronde, anni fa avrebbe dovuto ucciderlo.
Si china sulla sua fronte, il panno a dividere le loro pelli. Il naso di John sfrega contro il suo - quello stupido naso rosso che prenderebbe a morsi, se solo potesse, adesso. Si risolleva prima che possa baciarlo.
Non molla la mano, mentre lascia cadere la testa sulla pancia dell’altro, il cuore che gli batte forte contro la fronte. È un martello irregolare che lo farà impazzire.
Ammesso che non sia già impazzito del tutto.
Preme le labbra contro le coperte, stringendo forte gli occhi. John Watson è un uomo di merda, e lui è l’unico che se n’è accorto. Un uomo a cui tre anni fa dovevi far saltare le cervella non può permettersi di ridurti in questo stato.
E adesso che lo ha fatto, Sebastian non riesce a capire se potrà tornare indietro. Si stupisce a scoprire che non vuole.
“John…” lo chiama sottovoce. Ma lui non apre gli occhi, non lo guarda, non risponde. Sente la sua carne sotto le unghie. Se sanguinerà, come farà a spiegargli che sentiva il cuore esplodergli nel petto?
Respira, poggiando l’altra mano sulla testa del dottore. Lascia affondare il naso nelle coperte, gli occhi chiusi sulla lana verde.
È una casa infetta. Dovrebbe andarsene, dovrebbe scappare, e mettersi al sicuro.
Stringe più forte. Le parole tornano, ma non può dirle. Non così.
“Za la ta sara kawom.”sibila piano, per essere sicuro che John non lo sentirà mai.
Non ricordava più cosa si provasse a piangere.

“Non lo hai mai fatto.”
Sebastian si gira a guardarlo. Il colorito sulle sue guance è più sano, la sua fronte non suda più. Tiene una tazza di tè tra le mani e non trema, e sorride, ed è tutto ciò che conta.
“Cosa?”
Guarda le sue labbra macchiarsi di tè. La pelle morta ha lasciato posto ad una morbidezza che spera di poter provare alla prima occasione. Per un momento il cuore si ferma, ma cerca di incoraggiarlo con un sorriso che il muscolo non può vedere.
“Di restare qui. Per una notte.”
“Questa è la quarta, in verità.”
“Appunto.”
Ha un sorriso strafottente che a lui fa solo tenerezza. Scuote la testa, avvicinandoglisi e sistemandogli la coperta sulle spalle. “Se ti fossi visto, nemmeno tu ti saresti lasciato da solo.”
John non risponde, gli sorride e basta.
È il momento buono per dargli un pugno, ma si limita a prendere il viso tra le sue mani. “Sei un idiota.”
“Lo so. Credo tu me lo abbia ripetuto anche mentre dormivo.”
Sebastian gli sorride e si inchina, mordendo le sue labbra. Sente John ringraziarlo attraverso le mani strette sulle sue spalle.
Il suo cuore, però, non ringrazia. Perché Sebastian pensa che se potesse, se lo strapperebbe dal petto e lo donerebbe all’unica persona che gli ha avvelenato l’anima.

2012, fandom: sherlock bbc, r, personaggio: sebastian moran, !500themes_ita, personaggio: john watson, !fanfiction

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