[Sherlock BBC] This is the world destruction, your life ain't nothing

Sep 22, 2012 15:34

Titolo:  This is the world destruction, your life ain't nothing
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sebastian Moran
Rating: PG13
Avvertimenti: Sangue. Guerra, boh.
Conteggio parole: 1125 (fiumidiparole)
Riassunto: Ci sono giorni in cui tutto va bene, lui ama definirli piccoli miracoli. Sono giornate in cui poco importa se fa caldo, se piove, se c’è poco da mangiare e qualche ferita infetta da ripulire: sono giornate in cui nessuno muore. In cui la sabbia non si solleva per colpa di un’esplosione, in cui non s’ha da seppellire nessuno e il puzzo di sangue sembra solo una memoria lontana.
Poi ci sono gli altri giorni. E lì diventa tutto più difficile.
Note: Sempre per la raccolta, stavolta il prompt è 102. Leggenda urbana di 500themes_ita. Aram sha è pashto e vuol dire stai calmo. Almeno credo. Buona lettura.


X aprile 2007

Ci sono giorni in cui tutto va bene, lui ama definirli piccoli miracoli. Sono giornate in cui poco importa se fa caldo, se piove, se c’è poco da mangiare e qualche ferita infetta da ripulire: sono giornate in cui nessuno muore. In cui la sabbia non si solleva per colpa di un’esplosione, in cui non s’ha da seppellire nessuno e il puzzo di sangue sembra solo una memoria lontana.
Poi ci sono gli altri giorni. E lì diventa tutto più difficile.
La sabbia graffia le labbra ed entra nella bocca, in parte scivolando nella gola, in parte rimanendo sulla lingua, a raschiare contro il palato e incastrarsi tra i denti. Il fucile, John, lo tiene così stretto che le nocche impallidiscono - sa sparare, sa mirare, colpire, uccidere, ed ogni volta è un fottuto casino. Non è nato per questo; lui cuce, disinfetta, riporta alla vita, e non è fatto per tenere in mano un’arma e mirare alla testa della gente. Ma quando sparare diventa una necessità, il suo cuore si stringe e gli chiede di non farlo, e lui è obbligato ad ignorare la sua voce, ed ogni volta spera che premendo il grilletto la sua mano tremi, e devi il colpo, non uccida, si limiti a lasciare un avvertimento.
Ma oggi è diverso dalle altre volte. In mattinata un camioncino imbottito di esplosivo si è schiantato contro la loro base, la macabra sveglia di una lunga giornata, e ha già visto tre commilitoni dilaniati da fuoco e detriti, e John non vuole unirsi a loro, né vuole infilare le mani nei corpi squarciati di altri compagni. Gli hanno messo il fucile tra le braccia e lo hanno strappato dal suo lavoro per buttarlo in mezzo al deserto, pronto a soccorrere chi sta in prima linea a sparare con più convinzione di lui.
Respira, e l’aria brucia nei polmoni.
È una manciata di secondi, quella che gli regala il silenzio. Una manciata di secondi prima che una raffica di proiettili si scarichi sopra le loro teste, scatenando urla d’odio, urla di dolore.
Gli occhi di John catturano un ragazzo che non avrà più di diciotto anni, con un pugnale legato in vita, un mitra allacciato al collo. Lo segue mentre corre, lo sguardo duro e la disperazione riflessa nelle iridi. Stringe tra le mani qualcosa, e quando John realizza, il fiato gli si blocca in gola e, oddio, se non fa qualcosa lui che non è occupato a sparare oltre la collina, salteranno tutti in aria e non ci sarà nessuno da curare, nessuno da riportare in vita, perché la polvere, lui, non la sa rimettere insieme.
Mira.
Se non preme il grilletto, quel dito aprirà le porte dell’inferno. Deglutisce sonoramente. Può salvare tutti senza uccidere nessuno. La mano del ragazzo si muove troppo, ma deve tentare, o sarà troppo tardi per tutti.
Spara.
È una raffica improvvisa di proiettili che volano sulla sua testa, ma i suoi occhi sono troppo occupati a guardare verso quel ragazzino che lo fissa con odio e cade a terra, con un tonfo che non percepisce tra il rumore degli spari.
“Watson stai giù!” sente gridare alle sue spalle. Non gli presta attenzione, perché le gambe hanno cominciato a muoversi da sole, e poco importa se rischia di diventare cibo per cani in poltiglia, lui si tiene basso e corre verso quel giovane che ha avuto solo la sfortuna di nascere dalla parte sbagliata.
“Watson cosa cazzo stai facendo?!”
La prima cosa che fa una volta caduto sulle ginocchia è sfilargli il coltello e tagliare via quel dannato connettore. Sarà un incosciente, ma non vuole saltare in aria col resto del plotone. Il ragazzo ringhia, bisbiglia tra gli ansiti qualcosa che lui non capisce, a cui riesce solo a rispondere aram sha, ripetutamente, mentre gli strappa i vestiti con poca grazia e viene colpito da un moto di nausea.
Si rende conto solo ora che stanno tremando entrambi. Il sangue inzuppa lentamente la sabbia sotto i loro corpi, assieme alle sue mani. Il foro del proiettile vomita rosso senza fermarsi, sembra una piccola bocca aperta che grida in continuazione. Arteria succlavia. Deve muoversi.
Invoca ripetutamente Dio, mentre le sue dita premono contro l’ascella del ragazzo, che trema, e trema, e a John sembra che ci sia un terremoto sotto le sue ginocchia. Strappa un pezzo di stoffa che già sa essere inutile, ma non importa, perché deve fermare l’emorragia e portarlo in infermeria il più presto possibile perché non può permettere che muoia non può non può non-
Una mano si poggia sulla sua spalla con una forza tale da scuotere il suo torace di dolore. Si gira di scatto, la bocca semiaperta e tremante, mentre il colonnello Moran lo guarda dall’altro con aria severa, ora inginocchiato dietro di lui.
“Devi andartene da qui.”
John lo fissa, e scuote la testa, tornando a guardare il ragazzo. Dio, no. Ha gli occhi riversi, un bianco che lo spaventa.
“No, no, no.”
Sente il panico prendere possesso del suo corpo rapidamente, e si sistema davanti a lui, cominciando le pratiche di rianimazione. “No per favore, no.” Batte sul petto, una, due, tre, dieci volte, ma ogni volta che preme il sangue che non circola più schizza fuori da quel buco maledetto, la sabbia che puzza di sangue, le sue mani che puzzano di sangue.
“Watson, per amor del Cielo!”
Come può chiedergli di fermarsi? Come può anche solo pensare una cosa del genere? Deve rianimarlo, deve respirare, non può morire, non così, non adesso.
Il colonnello lo tira per la spalla, facendolo cadere seduto. È un attimo, prima che si ritrovi con le sue mani sul bavero della giacca. “Piantala di fare il coglione.”
“Devo salvarlo, sono ancora in tempo, devo-“
La guancia brucia, e finalmente John si rende conto che gli spari sono cessati, e ad essi s’è sostituito il lamento dei suoi compagni feriti. Gli occhi del colonnello sono scuri, freddi, incollati ai suoi.
“I morti non ritornano indietro, Watson. È una fottutissima leggenda metropolitana. Smettila, e aiuta chi è ancora vivo.”
Non riesce a reggere il suo sguardo. China la testa, mordendo così tanto il labbro da bucarlo, e le mani sporche di sabbia e sangue premono contro i suoi occhi per soffocare la voglia di piangere, lo shock che si spande sottoforma di tremiti. Il colonnello si alza, dandogli una pacca sulla spalla.
“Non sarà l’ultima persona a morire per mano tua, Watson. Fattene una ragione e rimettiti in piedi.”
C’è gente che urla, mentre Moran si allontana. C’è gente che urla e il suo stomaco sottosopra, e il corpo morto di un afgano che lo fissa con occhi bianchi.
Non può stare lì. Deve alzarsi e fare il suo lavoro. Non s’è mai nutrito delle grida disperate dei soldati feriti, ma dovrà farlo, se vuole trovare un motivo per andare avanti.

2012, fandom: sherlock bbc, pg13, personaggio: sebastian moran, personaggio: john watson

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