Titolo: Il caso di Market Snodsbury
Fandom: Sherlock Holmes/Jeeves & Wooster
Rating: PG-13
Pairing: Holmes/Watson, Bertie/Jeeves
Conteggio parole: 23.500 (W)
Scritta per: La
IV Disfida di
Criticoni (Team Lambda ♥).
Prompt: "Lady Grey" @
12_teas + Fratello/Estraneo & "Questa volta non ci sarà rumore o intruso che tenga" (da Il cavaliere dell'ippopotamo, di
juliettesaito) per la
IV Disfida.
Note: Ho scritto la fic tenendo conto del fatto che nessuno (*sigh*) conosce Jeeves & Wooster (e il punto di vista del narratore è quello di un personaggio che li incontra per la prima volta), quindi dovreste essere a posto anche se non ne avete mai sentito parlare.
Ringraziamenti: All'amour
juliettesaito, che mi ha tenuto fedelmente la zampina parola dopo parola in questa lunghissima maratona vittoriana, e al Team Lambda (GO TEAM LAMBDA GO!) che è l'amore ♥.
Riassunto: Holmes ha deriso quello che definisce il mio “sciocco sentimentalismo”, che mi ha spinto a riprendere in mano la penna dopo così tanto tempo. Io lo chiamo diversamente: nostalgia, rammarico, malinconia. Perché ora e ora soltanto sono veramente certo, come mai lo sono stato dal giorno in cui lasciammo Baker Street, di aver testimoniato al compiersi dell’ultima avventura di Sherlock Holmes, ed è una consapevolezza quieta e dolorosa allo stesso tempo - un senso incombente di fine che mi accompagnerà, lo so bene, fino al giorno della mia morte.
1. Il funerale
Nel settembre del 1917, con una decisione non scevra da qualche rammarico, scrivevo la parola “fine” in calce al mio ultimo racconto. “Ho un assegno per cinquecento sterline che deve essere incassato prima possibile; il traente sarebbe capacissimo di bloccarlo, se potesse”: su questa nota a suo modo allegra, che voleva stemperare l’angoscia per il presentimento dei tempi bui che sarebbero venuti di lì a poco, ritenni di chiudere per sempre i racconti delle avventure del primo, e a tutt'oggi unico, consulente investigativo che il mondo abbia mai conosciuto.
La decisione, come annotai altrove, non fu interamente libera da parte mia. Già al tempo di Abbey Grange avevo promesso al mio più caro amico di porre fine alla resa letteraria delle sue imprese, promessa che - lo riferisco senza la minima vergogna - mi rimangiai poco dopo, quando gli chiesi licenza di pubblicare un breve numero di storie sconosciute al pubblico e conservate da tempo nei miei taccuini. Fui molto insistente e, è mia convinzione, particolarmente persuasivo; forse perché il plauso genuino che il pubblico gli creditava aveva sempre saputo toccare una certa corda segreta nel cuore orgoglioso del mio amico, o forse perché egli era ben conscio che poche cose mi rendevano altrettanto felice quanto il semplice atto di registrare e divulgare le sue prodezze, Holmes acconsentì. Dopo il ’17, però, la mia penna fu riposta con cura, e da allora ha diligentemente taciuto fino al giorno presente.
L'appartamento al 221B di Baker Street; o per meglio dire le stanze in affitto che Mr. Holmes ed io coabitammo dal 1878 al 1888 e di nuovo per alcuni anni dopo il 1894; o meglio ancora, l'ufficio che Mr. Holmes aveva stabilito nelle suddette stanze, aveva chiuso i battenti già da diverso tempo.
Chi ha letto le ultime battute della saga del mio formidabile amico ricorderà che verso i primi anni del nuovo secolo Mr. Holmes si era ritirato dalla sua onorata carriera di investigatore privato, deludendo, se non l'Inghilterra intera, certamente l'intera città di Londra, che ormai da vent'anni si affidava quasi ciecamente al suo genio deduttivo. La decisione fu presa senza troppi rimpianti, e mantenuta con fermezza fino al tempo degli avvenimenti che sto per narrare.
A me fu concesso il raro privilegio, e al tempo stesso la poco invidiabile seccatura, di assistere Mr. Holmes nella sua nuova vita di comune cittadino, accompagnandolo nel suo ritiro in Sussex. (Le ragioni dell’omissione di questo particolare nelle pubblicazioni precedenti, se non già evidenti di per sé, diverranno tali nel corso di questa narrazione.)
Ricordo quel primo anno senza clienti alla porta, senza nuovi casi, senza investigazioni, come uno dei più graditi e al tempo stesso uno dei più profondamente frustranti della mia vita. Avevo temuto il momento del ritiro, e a ragione. Con mio profondo rammarico vidi il mio amico diventare sempre più cupo e irrequieto sotto i miei occhi, manifestamente annoiato, di quel tipo di tedio pernicioso che in passato l’aveva sospinto nella direzione della bottiglia di cocaina. Non ne faceva uso da diversi anni, ma questo non alleviava la mia preoccupazione; nel corso della mia carriera, mi è spesso capitato di assistere a ricadute improvvise e distruttive di pazienti che pure avevano da lungo tempo vinto la loro dipendenza.
La noia fu temporaneamente placata con la costruzione delle arnie e l’inizio degli studi di apicoltura. A questa nuova occupazione Holmes prese a consacrare la maggior parte delle sue giornate, e a sfinirvisi almeno quanto precedentemente usava fare con i casi più complicati. Più volte, in tarda serata, dovetti costringerlo a sedere a tavola e consumare la cena, poiché non avevo il minimo dubbio che da solo se ne sarebbe semplicemente dimenticato; si sarebbe abbandonato sul divano in soggiorno continuando a prendere note, la pipa stretta tra i denti, e in questa posa si sarebbe addormentato di fronte al fuoco.
Quando l’apicoltura ebbe esaurito il suo fascino (e prodotto un grosso volume che ancora oggi mi capita di ritrovare sugli scaffali delle librerie, fianco a fianco con le mie vecchie pubblicazioni), le arnie furono rapidamente smantellate, e ad altri oggetti di studio fu affidato l’arduo compito di tenere la mente del mio amico sempre impegnata.
Riporto questi fatti apparentemente di scarso o nullo interesse per sottolineare - se mai fosse ancora necessario - che nulla al mondo Sherlock Holmes ha mai detestato più del riposo. Il passaggio a uno stile di vita più moderato e più salubre di quello che aveva condotto per vent’anni non fu indolore; in un paio di occasioni disperai che il mio amico potesse adattarvisi e fui sul punto di suggerirgli di riconsiderare l’idea del ritiro. Ma dopo un primo anno di intensa attività, durante il quale Holmes cercò scientemente di portare il suo corpo e la sua mente sulla soglia dell’esaurimento e solo per miracolo non vi riuscì, le cose andarono migliorando. La fiamma ardente del suo intelletto non si spense, naturalmente; con fatica Holmes riuscì a domarla e rieducarla come un destriero selvaggio, convogliandone l’energia in attività più distese (gli studi di filosofia e di agricoltura altrove menzionati). L’entusiasmo più indomito rimase vivo come un fuoco che covi sotto le ceneri, visibile solo di tanto in tanto in improvvisi, brevissimi sprazzi di luce, sopito ma mai soppresso. Per molti anni siamo stati felici, della felicità che nasce dalla rinuncia.
Gli eventi che sto per narrare non sono destinati alla pubblicazione. Intendo tenere fede alla decisione di non arricchire ulteriormente la collezione delle avventure di Sherlock Holmes, e dopo un decennio di silenzio sarebbe ridicolo pensare altrimenti; inoltre, nella narrazione saranno adombrate rivelazioni di natura eminentemente privata che non sono autorizzato a divulgare. Tuttavia non posso escludere l’eventualità che questo manoscritto cada in mani indegne dopo la dipartita del mio amico e mia; per questo devo pregare i due gentiluomini londinesi che lo riceveranno di distruggerlo immediatamente dopo la lettura.
Holmes ha deriso quello che definisce il mio “sciocco sentimentalismo”, che mi ha spinto a riprendere in mano la penna dopo così tanto tempo. Io lo chiamo diversamente: nostalgia, rammarico, malinconia. Perché ora e ora soltanto sono veramente certo, come mai lo sono stato dal giorno in cui lasciammo Baker Street, di aver testimoniato al compiersi dell’ultima avventura di Sherlock Holmes, ed è una consapevolezza quieta e dolorosa allo stesso tempo - un senso incombente di fine che mi accompagnerà, lo so bene, fino al giorno della mia morte.
Una delle mani dalle lunghe dita bianche del mio amico si strinse a pugno sopra la tovaglia; l’altra continuò a reggere alto il foglio spiegato con la massima delicatezza. Alzai silenziosamente gli occhi dalla mia colazione, aspettando di catturare il suo sguardo per ricevere un chiarimento, ma prima ancora che Holmes dicesse una parola la verità si dipinse a chiare lettere sulla sua faccia.
Il telegramma riguardava suo fratello Mycroft. Anche se le mie capacità deduttive sono mediocri, non è possibile vivere per quasi cinquant’anni al fianco di una persona amata e non imparare a leggerne le espressioni. Holmes era più pallido del solito, le labbra tirate in una linea sottile; non credo di ingannarmi nel ricordare che le mani gli tremavano leggermente. Di una sola persona al mondo gli importava a sufficienza per ottenere un simile effetto.
“Mi dispiace immensamente, amico mio” mormorai, appoggiando le dita sul suo pugno chiuso.
Holmes lasciò cadere il telegramma al centro del tavolo, e con la mano libera si prese la radice del naso tra pollice e medio. “Suppongo che ce lo si dovesse aspettare, prima o poi” commentò a bassa voce.
Gettai uno sguardo al telegramma, che esordiva: “Mi rincresce sentitamente comunicarLe…”. Mycroft Holmes era stato un uomo dalla fibra eccezionalmente forte, che aveva superati i settantacinque anni sereno e senza l’ombra di un acciacco. Non aveva mai sottoposto il suo corpo a nessuno degli strapazzi che il fratello minore aveva imposto al proprio; la sua vita era stata operosa ma tranquilla, e senza difficoltà lo si sarebbe potuto definire un uomo senza vizi. E tuttavia era lì, nero su bianco: una morte pacifica nel sonno.
“Non ha sofferto” osservai, tentando di offrirgli un minimo conforto. Più di una volta i cari dei miei pazienti deceduti avevano tratto qualche consolazione dal pensiero che l’inevitabile era giunto senza dolore.
Ma Holmes sottrasse la sua mano alla mia e scattò bruscamente: “Non ho mai sentito una frase più ovvia e ridicola, dottore”. Disse “dottore” come avrebbe lanciato un coltello, e io seppi che ancora una volta mi aveva letto nella mente. “È questa la patetica manfrina che riservi alle vedove quando…”
Non me la presi. Catturai di nuovo la sua mano e stavolta la strinsi con energia. “Mycroft ha avuto una vita lunga, amico mio. Una vita lunga e…”
“Felice?” suggerì Holmes, con un guizzo sarcastico del sopracciglio.
“Non so dirlo” ammisi lentamente. “So solo che gli è stata concessa la morte serena e riservata che desideriamo tutti. Credo che non avrebbe voluto andarsene in nessun altro modo.”
Holmes si coprì per un attimo gli occhi dietro la coppa delle dita, poi con riluttanza strinse la mia mano.
“Tutti dobbiamo morire” aggiunsi senza contenermi.
Gli occhi grigi di Holmes mi guatarono la faccia con un lampo di fastidio improvviso e feroce, che però si dileguò un attimo dopo, sostituito dalla più atteggiata freddezza. “Ti consolerai con questa filosofia anche della mia dipartita, suppongo.”
Mio malgrado sentii un debole sorriso distendermi le labbra. Questo argomento di conversazione mi era più familiare, avendolo affrontato con Holmes innumerevoli volte nel corso degli anni. “È gentile da parte tua presumere che mi precederai nel grande passo. Per come la vedo io, sono più vecchio, un invalido di guerra, e d’inverno le mie articolazioni, non le tue, stridono come un violino scordato.”
Era un riferimento alla prefazione de L’ultimo saluto, con la quale avevo inteso regalare all’Inghilterra l’immagine dilettevole e assolutamente falsa della più grande mente del secolo prostrata dai reumatismi.
“Quello fu un tiro mancino da parte tua, senza dubbio” mormorò Holmes, seguendo ancora una volta il corso dei miei pensieri, e intrecciando le dita con le mie. “E uno per il quale non ti ho ancora perdonato.”
“Mi hai perdonato quello stesso anno, intorno a Natale” gli rammentai, “dopo avermi costretto a fare ammenda. Fu un atto particolarmente spregevole da parte tua.”
“Criminale.”
“Non ho dubbi che ti sarebbe valso almeno un paio d’anni ai lavori forzati, se solo ti avessi denunciato.”
“Mio Dio, è vero. Devo essere eccezionalmente grato al tuo buon cuore, dottore. Mi dicono che il carcere di Reading è pieno di spifferi.”
Poi riportò gli occhi sul telegramma aperto e la sua faccia tornò cupa. Nonostante nelle mie cronache l’avessi colpevolmente descritto come una macchina senza sentimenti, sapevo che il mio amico era capace di piangere, e una volta o due ero stato testimone dell’avvenimento - una volta o due, la causa. Ma sapevo anche che non sarebbe successo oggi. Domani, forse, o tra cinque anni; ma non oggi.
Holmes accarezzò il dorso della mia mano con il pollice e poi si tirò indietro.
“Che cosa pensi di fare?”
Spinse indietro la sedia, sollevandosi in tutta la sua considerevole altezza. “Mi ritiro per un po’ nella mia stanza, se non ti dispiace.”
Raccolse il telegramma e, mentre si dirigeva alla porta, lo buttò nel camino acceso.
Trascorsi la maggior parte della mattinata immerso nella lettura di alcuni vecchi taccuini, normalmente custoditi in un vano della libreria di cui solo Holmes e io possedevamo la chiave. (Troppi segreti e troppe indiscrezioni, in grado di rovinare la reputazione e la vita di troppe persone, erano contenuti in quei taccuini.) Alcuni erano riempiti con righe e righe di una grafia così minuta e incomprensibile che non solo feci immensa fatica a decifrarle, ma mi meravigliai di essere riuscito a vergarle in primo luogo.
Un malinconico concerto per violino mi tenne compagnia per quasi un’ora, poi tacque.
Quando infine riemersi dalle memorie ingiallite degli anni di Baker Street, erano quasi suonate le undici, e la porta della camera di Holmes era ancora chiusa. Entrando senza bussare, lo trovai seduto in poltrona vicino alla finestra, gli occhi chiusi ma non addormentato, apparentemente immerso in profonda meditazione.
Gli appoggiai le mani sulle spalle, sciogliendo silenziosamente la tensione dei muscoli intorno al collo. Se Holmes avesse preferito restare solo me l’avrebbe comunicato tempestivamente, nel modo più brusco e incerimonioso possibile, ma non disse nulla del genere. Invece prese la mia mano e se ne portò il palmo alle labbra.
“Sei un vecchio nostalgico” mi disse, a mo’ di rimprovero.
“Non lo nego. Quali brillanti deduzioni te lo suggeriscono, stavolta?”
“Niente di così brillante. Hai le dita sporche di polvere, e l’unico angolo di questa casa che il feroce senso della pulizia di Mrs. Arrington non riesce a raggiungere è lo scaffale con i tuoi quaderni.” Mi spostai al suo fianco, sedendo sul bracciolo della poltrona. “Non sento l’odore della pomata che usi per i baffi, quindi non li hai pettinati e impomatati dopo la colazione come fai di solito. Qualcosa ti ha distratto e interessato a sufficienza da fartene dimenticare fino a questo momento. E infatti,” alzò gli occhi sul mio volto per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare, “hai i segni dei naselli degli occhiali. Potrebbe essersi trattato di un romanzo, ma sei un uomo abitudinario, e la tua abitudine è leggere la sera di fronte al fuoco. In ogni caso, non sei persona da dedicarsi a letture ricreative dopo aver ricevuto una notizia simile. Con ogni probabilità, e questa è una semplice scommessa, hai sfogliato le tue note sul vostro primo incontro. Ho sempre pensato che quello che hai lasciato fuori da L’interprete greco fosse di gran lunga più interessante di quello che vi hai inserito.”
Sorrisi al mio compagno, le cui capacità deduttive non avevo mai smesso di ammirare neppure per un giorno, sebbene dopo molti anni avessero perso il fascino magico delle prime volte.
“Quella tremenda conversazione in cui Mycroft mi chiamò un invertito nel bel mezzo del suo circolo…?”
“Anche quella, certo. No, alludevo piuttosto alla notte che seguì.” E con ciò appoggiò la mano sul mio ginocchio e io la strinsi immediatamente, e per qualche minuto restammo vicini e in silenzio, immersi negli stessi pensieri.
Quattro persone presenziarono alle esequie di Mycroft Holmes: Sherlock Holmes, io stesso, e due membri fondatori del Diogenes Club, conoscenze di vecchia data del defunto. I due erano entrambi sopra l’ottantina e in ottima salute, cosa che in seguito diede lo spunto al mio amico per affermare che il miglior elisir di lunga vita è la totale inerzia.
Confesso di aver completamente dimenticato il nome di uno dei due gentiluomini - mentre ricordo il nome dell’altro solo per ragioni che saranno spiegate più avanti - e di avere solo una vaga memoria delle loro facce. Li ricordo come personaggi assolutamente nella media, facili da confondere con una qualsiasi altra coppia di gentiluomini in abito scuro. Lo stesso Mycroft, devo riconoscere, se il suo volto non mi avesse ricordato tanto da vicino quello del mio amico, difficilmente avrebbe mai catturato il mio interesse per più di qualche istante.
Il quarto e più anziano fondatore del club mancava all’appello; e non, seppi più tardi, perché la salute cagionevole non gli consentisse di lasciare il letto o perché egli stesso fosse già passato a miglior vita (entrambe mie supposizioni), ma perché proprio in quel giorno si celebrava il suo matrimonio con una giovane e avvenente cameriera di Brixton.
Holmes rifiutò di parlare in memoria di suo fratello. “Gli elogi funebri servono a rassicurare i vivi che non hanno sprecato il loro tempo curandosi di una canaglia. I morti sono morti, e dubito che abbiano interesse in materia. Questo morto in ogni caso non ne ha alcuno, te lo posso assicurare. Mycroft riderebbe sonoramente a sentirsi definire ‘fratello adorato e amico carissimo’.”
“Ma sarebbe vero” gli feci notare. “Entrambe le cose sarebbero vere.”
“Se sono vere, non c’è bisogno di dirle” rispose Holmes, ostinato. “Chi deve saperle le sa già.”
Mi sembrava semplicemente rispettoso che Mycroft avesse il suo elogio funebre, ma Holmes scosse la testa e mi disse di pensarci io stesso, se volevo. Poi quella luce strana gli ritornò nello sguardo, quella che era già apparsa quando avevamo discusso al tavolo della colazione, e aggiunse: “Dammi la tua parola che non farai nulla del genere al mio funerale. Il pensiero della montagna di ipocrisie che dovresti mettere insieme per farmi passare per una persona rispettabile mi disgusta profondamente”.
“Nessuno ha mai creduto che tu fossi una persona rispettabile” replicai in tono leggero. “Forse potrei dire la verità. Dubito che manderebbero un vecchio medico in pensione a spaccare pietre.”
Ma il tono era scherzoso e l’argomento venne presto accantonato.
Mi risolsi perciò a scrivere qualche riga e quella mattina pronunciai io stesso l’elogio funebre. Condivido con Holmes l’idea che l’elogio serva ai vivi e non ai morti, e poiché l’unico vivo di cui mi importasse era Holmes stesso, tentai di lasciare fuori ogni sciocca banalità, ogni vacua retorica che sapevo l’avrebbe irritato. Fui schietto: dissi che non avevo mai frequentato Mycroft intimamente, ma che l’avevo sempre conosciuto come un uomo dall’intelligenza eccezionale e la grande onestà, un uomo che aveva dedicato la sua intera vita al servizio di Sua Maestà senza mai pretendere alcun riconoscimento; e aggiunsi che se l’Inghilterra non gli aveva tributato i dovuti onori non era perché non se li fosse guadagnati, ma solo perché la sua natura schiva rifuggiva ogni genere di pubblicità. Conclusi dicendo che nessuno al mondo gli era più grato di me, perché un giorno il suo sguardo aveva letto la mia anima meglio di quanto fossi in grado io stesso, e con ciò mi aveva reso un servizio per il quale non avrei mai potuto, neppure nello spazio di dieci vite, ripagarlo abbastanza.
Fu un discorso ispirato, io credo, e nonostante tutto Holmes parve gradirlo. Forse mi sbagliai, ma per un istante vidi un bagliore umido nei suoi occhi, subito cancellato da un battito di ciglia.
Solo allora mi accorsi di un uomo che sedeva in fondo alla piccola cappella, composto e immobile come una statua, lo sguardo fisso di fronte a sé. Era vestito di nero dalla testa ai piedi; sulle gambe, in mezzo alle mani guantate e appoggiate rigidamente sulle ginocchia, teneva una bombetta dello stesso colore. I capelli corvini erano spartiti in due ali da una riga su un lato della testa e accuratamente impomatati.
Al termine della funzione, Holmes si alzò e sostò a lungo di fronte alla bara aperta, leggermente curvo in avanti e con la fronte aggrottata, come se tentasse di imprimersi in mente una volta per sempre i lineamenti di suo fratello. Dopo un minuto o due gli appoggiai una mano sulla spalla e lo affiancai. Chiunque, vedendo Mycroft in quel momento, avrebbe capito che era morto senza il minimo dolore: pur nel pallore spettrale della morte, il suo viso era florido e sereno come se dovesse svegliarsi a momenti.
La mano di Holmes era appoggiata su quella di Mycroft; vi posi sopra la mia, trovandole entrambe ugualmente gelide, e strinsi gentilmente le dita di Holmes. Holmes non mi guardò.
“Non lo conosco” mormorò.
“Prego?”
“Quell’uomo. Ha qualcosa di strano.”
Corrugai la fronte. “Che cosa? Mi sembra perfettamente a modo.”
Holmes volse il capo dalla mia parte e mi rivolse quello sguardo misto di affetto e frustrazione che un tempo aveva l’abitudine di affiorare alle sue labbra quattro o cinque volte al giorno. “Ah, mio caro Watson, tu non…”
Ma uno dei colleghi del Diogenes Club si era avvicinato per rendere l’estremo saluto al defunto, e Holmes si premette un dito sulle labbra e mi prese per un braccio perché ci allontanassimo.
L’uomo con la bombetta, frattanto, era uscito. Quando ci alzammo per seguire i portantini fuori dalla cappella lo rividi sostare vicino all’ingresso, un po’ discosto, non come se tentasse di fingere d’essere lì per qualche altro motivo, ma come se si tenesse discretamente da parte per non disturbare.
“No, una spia non sarebbe così ovvia” borbottò Holmes, prendendomi a braccetto.
“Una spia, Holmes?”
Egli aprì la bocca come per replicare, poi la richiuse. “No. Naturalmente.”
Da quel momento per tutto il tempo della sepoltura Holmes parve dimenticarsi dell’uomo con la bombetta, e così feci anch’io. Il triste ufficio venne concluso, il pastore ci rinnovò le sue condoglianze, i gentiluomini del Diogenes Club ci strinsero le mani con aria commossa e partirono. Holmes ed io restammo soli di fronte al tumulo che conteneva le spoglie mortali di Mycroft.
Come per una decisione improvvisa, Holmes girò sui tacchi e prese a camminare rapidamente verso l’uscita del cimitero. Sul momento pensai che volesse andare via, ma poi vidi che l’uomo con la bombetta era fermo presso i cancelli, le mani giunte di fronte a sé e un ombrello nero appeso al braccio.
“Mr. Holmes” salutò lo sconosciuto, levandosi il cappello. “Dottor Watson. Permettetemi di…”
“Non accetto un caso da vent’anni” lo interruppe Holmes, bruscamente. ”E non è mia intenzione riprendere ora.”
I lineamenti dello sconosciuto non tradirono alcuna sorpresa. Da vicino notai che aveva gli occhi azzurri e il naso visibilmente storto, segno di una brutta frattura saldatasi male. Non so da cosa Holmes avesse dedotto le sue reali intenzioni, ma non dubitai neanche per un istante che avesse ragione.
“Sono a conoscenza di questa circostanza, Mr. Holmes” rispose in tono pacato. “Vi prego di credere che non avrei mai osato disturbare due gentiluomini in pensione se le circostanze non fossero della massima gravità. Vi prego anche di accettare le mie più sentite scuse per questa imperdonabile intrusione in un momento così delicato. Le mie condoglianze per la vostra perdita” aggiunse, abbassando gli occhi per un istante.
“Il necrologio sul Times, ovviamente.”
“Confesso di aver pensato di trarre vantaggio dalla fortunata combinazione stabilitasi a seguito di questa dolorosa evenienza.”
“E il vostro datore di lavoro condivide la vostra decisione, o data la corrente ubicazione della sua dimora non avete ancora avuto modo di informarlo, Mr. Jeeves?”
Neppure questo parve sconvolgere eccessivamente l’uomo. Mr. Jeeves, se questo era davvero il suo nome, si limitò ad inarcare di una frazione entrambe le sopracciglia e continuò a guardare Holmes dritto negli occhi.
“Mi rendo conto di aver sottovalutato quello che credevo in gran parte un prodotto della fictio letteraria, e che invece mi appare ora una rappresentazione veritiera e degna della massima fede.” Mi guardò, come per sottolineare che quest’ultima affermazione era esplicitamente rivolta a me. “Non posso esprimere la portata della mia riluttanza a incomodarvi in un simile momento, ma vi prego di accordarmi”, trasse fuori un orologio dal taschino interno della giacca, “un’ora del vostro tempo. Non un minuto di più. Una vita innocente dipende dalla vostra risposta, Mr. Holmes, dottore.”
Se potessi avere uno scellino per ogni volta che ho sentito questa frase!, pensai tra me e me, sentendo un brivido familiare e quasi dimenticato scuotermi le membra.
Per lunghissimi istanti Holmes e Mr. Jeeves si guardarono negli occhi come se si studiassero a vicenda. La cosa mi impressionò vagamente: non molte persone al mondo erano in grado di sostenere lo sguardo indagatore del mio amico per più di qualche momento. Mycroft era stato tra quei pochi.
“Siete consapevole che con ogni probabilità, allo scadere dei sessanta minuti, rifiuterò di prendere in considerazione il vostro caso e voi avrete solo sprecato il vostro tempo? Quel tempo” aggiunse Holmes, “che avreste potuto dedicare più fruttuosamente a tentare di procurarvi un nuovo datore di lavoro.”
Credo di non sbagliarmi se riporto qui che vidi qualcosa di molto pericoloso passare nello sguardo dell’uomo; qualcosa di simile a una singola nube foriera di tempesta in un cielo altrimenti limpido. Non fosse stato per questo dettaglio, il suo volto non avrebbe espresso assolutamente nulla. Ma poi, rapida com’era venuta, la nube passò.
“Ne sono consapevole, Mr. Holmes” rispose Mr. Jeeves in tono garbato.
“Bene, allora” disse Holmes. “Se il dottore non ha obiezioni, non ne ho neppure io.”
“Nessuna obiezione” confermai. Mentre parlavo, una goccia di pioggia mi bagnò le labbra. Guardai in alto, e trovai una scarsa ma crescente salva di gocce precipitare su di noi. “Sembra che…”
Un’ombra larga e nera si stagliò sulla mia testa e quella del mio amico.
“Signori, prego” disse Mr. Jeeves, porgendoci il manico dell’ombrello aperto. “La considererei una mia personale mancanza se vi bagnaste i vestiti durante il tragitto.”
“Suppongo che difficilmente vi si possa incolpare di non avere il controllo degli elementi naturali” replicai, accettando l’offerta.
Il volto di Mr. Jeeves sembrò tradire per un attimo tutto il suo fastidio in proposito, come se il controllo del sole e della pioggia fosse l’unico esame scolastico che non gli fosse mai riuscito di passare.
“Come dite voi, signore.”
Compimmo il tragitto in macchina; Mr. Jeeves sedeva alla guida, Holmes alla sua sinistra ed io sul sedile posteriore. Lungo la strada Holmes illustrò, dietro mia insistenza, il ragionamento che l’aveva portato ad affermare con tanta sicurezza il nome di Mr. Jeeves e gli altri dettagli sulla sua situazione.
“Questa volta resterai profondamente deluso, mio caro Watson” esordì Holmes. “Non c’è nulla di lontanamente deduttivo; solo buon udito e buona memoria per quella che tu chiami ‘cronaca scandalistica’.”
“Sono tutto orecchi.”
“Ti sarà forse sfuggito che a un certo punto uno dei due gentiluomini del Diogenes Club ha fatto mostra di conoscere Mr. Jeeves. È successo appena fuori dalla cappella, e la conversazione è stata breve ma illuminante. Il gentiluomo…”
“Suppongo che vi riferiate a Lord Yaxley” interloquì Mr. Jeeves, con una certa qual freddezza.
“Yaxley, sì” confermò Holmes. “Al secolo George Wooster. Il gentiluomo ha non solo inavvertitamente rivelato il nome di Mr. Jeeves, ma ha anche menzionato un certo ‘disgraziato’ Bertram, al momento ospite delle prigioni di Sua Maestà. L’associazione con un tale Bertram Wooster, comparso recentemente in un trafiletto di cronaca del Times, è stata nient’altro che incredibilmente banale.”
“Con quale imputazione?”
“Omicidio.” Holmes appoggiò il gomito sul bordo dello sportello, perfettamente a suo agio come se stesse conversando del tempo o dell’incapacità degli ispettori di Scotland Yard. “A quanto pare, Mr. Wooster è stato colto in flagrante delicto. Il giornalista del Times si è compiaciuto particolarmente di riportare il dettaglio delle maniche sporche di sangue fino al gomito.”
“Buon Dio.”
“Mr. Wooster non si è macchiato di alcun delitto” disse Mr. Jeeves, lentamente. “Vi prego di non prestare fede a quello che hanno riportato i giornali.”
Calò un lungo istante di silenzio, poi Holmes commentò: “Di certo dovete credere appassionatamente alla sua innocenza, se vi siete scomodato a venire a cercarci di vostra iniziativa invece di levare le tende con l’argenteria”.
“Holmes!”
Mr. Jeeves strinse più saldamente lo sterzo nelle mani e fermò la macchina. Quando si voltò dalla parte di Holmes, pensai che avrebbe parlato in tono alterato, e se l’avesse fatto non credo che avrei potuto biasimarlo. Con gli anni, le maniere del mio amico si erano fatte ancora più rudi e schiette, a tratti francamente insopportabili. Invece l’uomo si limitò ad annunciare in tono piano: “Siamo arrivati. Se volete seguirmi, signori, prego”.
La macchina si era fermata in Berkeley Mansions. Riposi in tasca il taccuino sul quale avevo preso qualche nota durante il viaggio. Il gesto non passò inosservato agli occhi di Holmes, che era sceso dalla macchina prima di me; il mio amico mi scoccò uno sguardo dapprima incuriosito, poi irritato. Aprì la portiera e mi offrì la mano per aiutarmi a uscire dalla vettura.
“Grazie, Holmes, sono ancora in possesso delle mia facoltà motorie” replicai scherzosamente, ignorando il gesto. Nell’ultimo mese, complice il brusco abbassamento della temperatura, la gamba lesa mi aveva tormentato quasi incessantemente; credevo di essere riuscito a nasconderlo bene, ma non c’era nulla che si potesse tenere nascosto a lungo a Sherlock Holmes.
“Sono lieto di notare che solo quelle mentali sono state compromesse dalla vecchiaia.” Mi afferrò il braccio con una presa che non lasciava scampo e mi costrinse ad appoggiarmi a lui. Per un attimo mi chiesi che immagine fosse mai la nostra; due vecchi che si sostenevano a vicenda, la mente più geniale della storia e il suo fedele biografo, ormai irriconoscibili sotto il peso degli anni. Allontanai il pensiero; la malinconia non mi si addiceva.
“Prego” ripeté Mr. Jeeves, spalancando la porta dell’appartamento al numero 3A.
Mr. Jeeves prese i nostri soprabiti e cappelli e li appese con cura, poi scomparve brevemente in una stanza attigua e ricomparve anch’egli svestito del soprabito e della bombetta. “Brandy, signori?” Non feci in tempo a mormorare un assenso che Mr. Jeeves scomparve e ricomparve nuovamente nell’arco di qualche secondo, tenendo alto sulle punte delle dita un vassoio con una bottiglia di liquore e due bicchieri. Finito di versarlo ci porse graziosamente il vassoio, lo posò nuovamente sul tavolino senza produrre il minimo rumore, si raddrizzò sulle gambe e rimase fermo e in piedi dall’altra parte del tavolino che ci separava.
“Avete ancora quaranta minuti” disse Holmes, consultando un orologio da tavolo posato sul mobile più vicino. “Vi consiglio di iniziare a raccontarci del caso.”
“Esito a contraddirvi, signore, ma sono ragionevolmente sicuro che i minuti siano quarantatrè e una manciata di secondi.”
“Sedetevi, Mr. Jeeves, vi prego” gli dissi in tono gentile, perché avevo l’impressione che senza questa licenza l’uomo avrebbe passato i prossimi quarantatrè minuti e la manciata di secondi in piedi come una statua.
L’uomo sembrò esitare per una frazione di secondo, poi sedette sulla poltrona col cuscino leggermente incavato dall’utilizzo. Forse, pensai, era la poltrona preferita di Mr. Wooster, e l’esitazione era dovuta a una certa riluttanza feudale a disporre della proprietà del suo datore di lavoro. L’ombra di una minuscola ruga di disappunto, o forse solo di concentrazione, comparve tra le sopracciglia di Mr. Jeeves.
Trassi il taccuino dalla tasca e lo aprii su una pagina bianca. All’approfondirsi di quella ruga tra le sopracciglia del nostro aspirante cliente, mi affrettai a dire: “È solo una vecchia abitudine, per organizzare le idee. Vi do la mia parola che nessuno li leggerà. E in ogni caso, se Holmes dovesse rifiutare il caso, ve li consegnerò e potrete stracciarli o disporne a vostro piacimento”.
“Vi ringrazio, dottor Watson” rispose Mr. Jeeves. Diede un discreto colpo di tosse, come se si stesse schiarendo la gola. “Mi rincresce approfittare della vostra gentilezza, ma devo esigere la vostra parola d’onore che in nessun caso un adattamento letterario sarà realizzato a partire da questa storia. Anche se le identità degli interessati venissero nascoste da nomi di pura finzione, i conoscenti di Mr. Wooster sarebbero senza dubbio in grado di riconoscere i fatti di cui hanno avuto notizia.”
Lo rassicurai con la massima sincerità anche su questo punto. Mr. Jeeves si schiarì la voce per la seconda volta e poi iniziò a raccontare.
Capitolo 2 - Il racconto di Mr. Jeeves