[Heroes/Il Padrino] Godblessed (Nathan/Peter, NC-17)

Nov 06, 2007 17:30

Titolo: Godblessed
Fandom: Heroes/Il Padrino
Personaggi: Nathan Petrelli, Peter Petrelli, Angela Petrelli, Arthur Petrelli
Rating: NC-17
Pairing: Nathan/Peter, accennati Peter/OC e Nathan/Heidi
Spoiler(s): Nessuno per Heroes. Qualcuno per Il Padrino, ma se non l'avete visto o letto non è facile distinguere cosa sia spoiler e cosa inventato.
Conteggio parole: 4.954
Warning(s): Incesto consensuale, accenni a pedofilia e sesso con minorenni.
Note: Questa fic mi ha tolto la salute per tutto il tempo che è servito a completarla (per fortuna, non molto). È stata scritta per reel_heroes e quindi al momento sono impegnata a tagliuzzarla e vandalizzarla traducendola in inglese. Questa, ovviamente, è la versione italiana non vandalizzata. Potete leggerla senza sapere niente di Heroes, ma conoscere Il Padrino aiuta parecchio a focalizzare l'ambientazione. In ogni caso è piena di riferimenti a entrambi.
Ringraziamenti: A eledh_3, juliettesaito e soprattutto eryslash per avermi sostenuto in questa follia. A eryslash anche per il fangirling, il pimping, e tutta una serie di altre cose interessanti che finiscono per -ing.



(banner by eryslash)

Godblessed

A man who doesn't spend time with his family can never be a real man.
-- The Godfather

«Praesta, quaesumus, omnipotens Deus, ut anima famuli tui Arthuri, quae hodie de hoc saeculo migravit, his sacrificiis purgata et a peccatis expedita, indulgentiam pariter et requiem capiat sempiternam. Per Dominum.»

È quando poi le note dell’organo si allungano e aumentano di volume in un crescendo di gloria, e una vibrazione lunga e straziante ti penetra sotto la pelle scuotendo la carne dall’interno, che ricordi perché a tredici anni hai smesso di andare in chiesa. Per un attimo sei di nuovo lì, ai piedi del corpo freddo e immobile nella bara, e c’è la mano di tuo padre sulla tua spalla e tua zia che non piange ma sibila preghiere tra le labbra spaccate e i denti macchiati di sangue. Poi l’immagine si dissolve come il fumo delle candele e la nebbia d’incenso ti brucia gli occhi, ma non hai bisogno di fingere che sia per quello che stai piangendo.

Il volto di Papà è liscio, le rughe di preoccupazione finalmente spianate dalla fronte e le mani giunte sotto lo sterno in un gesto che gli era solito anche da vivo, quando si rilassava in poltrona. Il ricordo è sbiadito e consumato ai bordi come una vecchia fotografia, ma nondimeno ancora vivido e bruciante.

È stato Nathan a chiamarti, lo stesso che ora tiene una mano sulla tua spalla come Papà quella volta. Ti impressiona pensare che la stretta è identica e anche tutto il resto potrebbe esserlo - la gente intorno, la musica dell’organo, il dolciastro ottundente della cera bruciata - se non fosse che allora non hai pianto e non ti hanno neppure lasciato arrivare abbastanza vicino da vedere la faccia. C’è quel modo strano che ha il tuo cuore di battere, però, adesso come allora - quel battito storto che hai impiegato quattordici anni a decifrare, e adesso sai che altro non è che senso di colpa.

La più vicina è tua madre. La vedi chinarsi su di lui e posargli un bacio sulla sua fronte, indugiando a lungo, il movimento una sequenza di fotogrammi al rallentatore. Per un solo istante ti chiedi come sia, anche se lui non è più lì e non può sentirlo, che sensazioni dia un bacio del genere. Devi aver avuto anche tu i baci di tua madre, un tempo. Le labbra di Angela Petrelli si muovono vicine al volto di tuo padre, rapide e disegnate dal rossetto come ferite nella carne della bocca, e potresti giurare che non è una preghiera quella che sta bisbigliando. È una donna forte, tua madre, e tu non hai mai smesso di amarla dal giorno in cui sei nato.

Poi c’è Nathan, e la piega dura della sua bocca che è insieme promessa e minaccia di vita e di morte. Niente baci da parte sua; Nathan appoggia una mano su quelle di Papà raccolte in grembo e le stringe brevemente, cameratescamente, sfiorando con l’altra la fronte dove Mamma ha lasciato una vaga impronta di rosso. Stavolta sei abbastanza vicino e puoi sentire (“Ti giuro che quei bastardi ce la pagheranno, Papà, te lo giuro...”), ma preferisci lasciarti catturare dal mormorio sonnolento della chiesa, dallo sferragliare dell’incensiere che dondola debolmente appeso al suo sostegno, dall’eco lontana e distorta di pianti soffocati. Non credi che qualcuno stia piangendo davvero. Gli uomini come Papà se ne vanno senza lasciarsi dietro una lacrima.

È il tuo turno; Nathan ti passa accanto e non hai bisogno di guardare per sapere che ha gli occhi lucidi, e non hai bisogno di conoscerlo meglio di così per sapere che quelle lacrime scompariranno, asciugate, riassorbite, comunque mai versate. Appoggi una mano sul bordo della bara. Le dita di Papà sono morbide e fresche; pulite, al contrario di tutti gli altri cadaveri che hai visto.

È il tuo momento per dirgli tutto quello che non ha mai voluto ascoltare, e se c’è un inferno forse il messaggio gli arriverà più rapido passando dalle orecchie.

A cosa ti è servito, alla fine? Ammazzato come un cane in mezzo alla strada.

«Mi dispiace» mormori invece. Ti brucia la gola e sai che non si capiscono le parole, ma Papà non ha bisogno che tu ripeta. «Mi dispiace, Papà, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace…»

Mi dispiace di averti detto le cose che mi faceva tuo fratello. Mi dispiace che tu sia morto pensando che ti odiassi. Non volevo che finisse così. Per nessuno dei due, io… non volevo che finisse così.

Poi una mano ti accarezza lentamente la schiena e tu ti rialzi, asciugandoti il naso sul dorso della mano. Nathan ti porge il suo fazzoletto.

Quando la bara si richiude sul corpo di Arthur Petrelli e viene issata dai portantini, tutto quello che vedi nella sagoma lignea sfocata dalle lacrime è la forma della tua vita che ondeggia e si sfalda, senza direzione precisa, allontanandosi da te.

+ + +

New York City, dicembre 1945

«Dobbiamo fare qualcosa.»

Nello studio con gli scuri chiusi e la penombra che divora i mobili, la tua voce non risuona più forte del pigolio del pulcino. È come avere di nuovo tredici anni, pensi, prima che la tua vita cominciasse a deragliare dai binari. Guardi Nathan seduto sulla poltrona di Papà e ti disturba constatare che la sagoma è la stessa, le mani sono le stesse, solo i lineamenti del volto sono un po’ più dolci.

«Dobbiamo?» ripete lentamente, senza guardarti. Sai che ora arriverà il rifiuto, e questo è il tuo unico vantaggio.

«Tu non devi fare niente, Peter. Tu ora te ne torni al tuo appartamento e ci resti finché questa storia non è finita. Manderò qualcuno per la tua protezione.»

«Non ho bisogno di protezione. A nessuno importa di me.»

L’umor nero è una marea in tempesta che si muove in rapide ombre sulla faccia di Nathan.

«Non ho chiesto il tuo parere.»

Faresti fatica a ricordare una volta in cui l’ha fatto. «Voglio essere d’aiuto, Nathan. Posso essere d’aiuto.»

«Non abbiamo bisogno di gente che ci faccia punturine nel braccio, grazie. Torna dove sei utile.»

Dieci anni, e ancora non ti ha perdonato. Dieci anni, e tutti i vostri discorsi tornano sempre allo stesso punto, come se non ci fosse stato niente nel mezzo. Come se in guerra non avessi visto la morte in faccia. Come se la tua vita fosse stata marchiata per sempre il giorno che te ne sei andato. Ti chiedi se Papà non gli abbia lasciato in eredità anche l’incapacità di guardare avanti.

«Era anche mio padre, Nate. Ed è morto. Ammazzato. E…»

«No, Peter. Mio padre è morto. Tu l’hai abbandonato dieci anni fa. Lui ti ha dato tutto e tu gli hai sputato in faccia. Ora torna in quel tuo minchia di appartamento e restaci. Non voglio vederti qui in giro finché non è di nuovo sicuro.»

«Mi stai cacciando da casa mia?» mormori, tendendoti verso di lui sopra il piano della scrivania. Sei appoggiato sulle nocche e le senti scricchiolare dolorosamente contro il legno.

«Non era casa tua quando te ne sei andato. Nessuno ti ha cacciato. È stata una tua scelta.»

È così difficile, a volte, con Nathan, e ti verrebbe da ridere se non facesse così male. Lui non capisce. Non ha mai capito.

«Sì, e ora sono qui, Nathan. È la mia famiglia. È la mia vita. Era mio padre, e io ci ho provato, Dio, Nathan, ci ho provato per tutta la vita, ma ora so che non basta volerlo per cancellare chi sei, perché chi sei ti segue ovunque, te lo porti dentro, nel sangue, te lo porti dentro per sempre. Ora lo so, Nathan. Ora capisco i discorsi di Papà. Non mi manderai via.»

Sei abbastanza abituato a occhiate fugaci e di sufficienza da riconoscere quello sguardo, quello con cui Nathan finalmente ti considera. Senti i suoi occhi bruciare nei tuoi, ma non indietreggi. È un’altra piccola guerra personale, un conto aperto tra voi due, finché la resa si fa strada quasi impercettibile nella sua voce, crepandone la durezza.
«È troppo pericoloso per te.»

«Ma non per i tuoi figli e tua moglie?»

«Linderman non se la prende con le donne e i bambini.»

«Bene» rispondi. C’è qualcosa in grado di frenare uomini come Linderman, uomini come Papà? Bene. Forse c’è speranza per tutti. «Per favore, pensaci, Nathan. Linderman non si aspetterà che io resti qui. Si aspetterà che tu mi mandi via, si aspetterà che me ne torni a farmi gli affari miei. Io sono il figlio scemo, giusto? Il frocetto.»

«No» sibila Nathan. «Non è vero.»

Scuoti la testa, impaziente. Non è quello il punto. «Mi sottovaluterà, Nathan. Non si aspetterà che io faccia qualcosa! Pensaci solo un attimo, pensaci. Come diceva Papà? Chi ti sottovaluta…»

«… non si guarda le spalle.» Nathan si passa le mani sui capelli pettinati indietro con la brillantina. Sai che non può essere lo stesso, ma il suo gilet scuro è uguale a quello che indossava quella volta. La prima volta. «Va bene. Mettiamo - per ipotesi - che io ti lasci restare qui. Mettiamo che non ti rimandi a cambiare le flebo ai tuoi malati. Mettiamo che non ti rispedisca a fare il tuo dovere verso la tua Patria.» Il tono è sarcastico, una ferita aperta, ma lo ignori. «Che cosa credi di poter fare?»

Il vantaggio, ti mormora la voce di tuo padre nelle orecchie. Sfrutta il vantaggio. Ma tu non sei tuo padre, Nathan non è il tuo avversario, e questo non è il tuo campo di battaglia. Quando si tratta di convincere ti muovi senza strategia, sfrutti un carisma che sai di avere anche se non ne conosci l’origine, tiri a istinto le corde giuste. È nell’argomentazione che le forze ti abbandonano.

«Non lo so ancora» ammetti. «Non so cosa precisamente, ma…»

«Ma?» Nathan si sporge verso di te, appoggiando i gomiti sul tavolo e giungendo le mani mentre ti osserva. È strano notarlo adesso, ma non ti sei mai soffermato sul fatto che Nathan avesse le labbra a cuore. È un particolare insolitamente dolce su un volto che non sorride mai.

«Sei tu che devi dirmelo. Io sono… io farò quello che mi dici di fare. Qualsiasi cosa. Lo so che non so niente di come si gestisce questa cosa, ma io sono pronto, Nate. Usami.»

È qui che la considerazione trema e vacilla nello sguardo di Nathan e viene sostituita da un miscuglio di affetto, esasperazione e pietà che conosci fin troppo bene. Si alza dalla poltrona, gira intorno alla scrivania, e tu vedi arrivare l’abbraccio fraterno prima ancora che lui ti raggiunga. Non ti sottrai e non rispondi, sospirando piano.

«Questa cosa», mormora Nathan, prendendoti il volto tra le mani, «non è uno scherzo, Peter. Non puoi improvvisare. È una guerra, lo capisci?»

«Sono stato in guerra» rispondi, ma Nathan scuote la testa.

«L’ultima volta che siamo stati in guerra con le Famiglie è stato più di vent’anni fa. È cominciata con un attentato a Papà, come questa volta, e poi li abbiamo avuti addosso. Ci sono entrati dentro casa, Peter. Questa la devo a loro.» Volta appena il viso per mostrarti la cicatrice sulla mascella. «Credimi. Tu non lo sai com’è.»

Le sue mani sono calde sulle tue guance ancora più calde, ma la determinazione è l’unico tratto di famiglia che sei fiero di aver ereditato. «Io non ho paura, Nate.» Non sai perché stai sussurrando, ma è come se il volto di Nathan così vicino ti impedisse di parlare con tutta la voce, come se te la risucchiasse direttamente dalla gola. «Non ti posso lasciare solo. Non questa volta. Lo capisci che non posso, Nate? Lo capisci perché non posso?»

Così tanto tempo, pensi. L’ultima volta non avevi fatto la guerra, non avevi visto morire un uomo, non avevi disegnato croci sulla fronte dei feriti senza speranza. Eri una persona diversa. È questo che Nathan non riesce a capire. Crede di parlare con lo stesso ragazzo a cui ogni volta diceva “Questa è l’ultima”, e non lo era mai. Non sa quanto si sbaglia, e tu non hai parole per farglielo capire.

Quando lo baci, le sue labbra sono morbide e sorprese contro le tue, come impreparate, ma tu sai che Nathan ti ha letto l’intenzione negli occhi e ti ha lasciato la prima mossa. Ora come sempre la colpa è tua, ma non te la prendi perché dei due sei quello che sa sopportarla meglio. Il resto è un susseguirsi di gesti così familiari da essere diventati parte del rito, la mano posata sulla tua nuca, il braccio intorno alla tua vita, le labbra che indugiano solo un attimo sulle tue prima di aprirle per succhiarti la lingua. Il corpo di Nathan è solido come ogni volta, è una promessa, la tua promessa personale, il ricordo a cui ti sei aggrappato quando niente aveva più senso.

Lo ami, e a volte fa così male che vorresti urlare.

«Mi sei mancato» bisbigli, vergognandoti della tua voce che non è salda come vorresti, e ti tradisce l’unica volta che vorresti mostrarti forte, sicuro.

«Lo so.» Nathan ti bacia la guancia, l’angolo della bocca, di nuovo le labbra. «Lo so.»

Il corpo di vostro padre è sottoterra da meno di due ore, e guarda cosa state facendo nel suo studio. È sempre stato il suo regno, il luogo a cui avevate accesso alle condizioni che perfino Nathan, che ha lavorato con lui per vent’anni, non avrebbe mai violato. Certe cose le sbrigavate in fretta in altre stanze della villa, o con più calma in luoghi sicuri, protetti dall’anonimato, o nel letto del tuo appartamento con le molle che cigolavano e l’imbottitura che fuoriusciva dal materasso.

Ma Papà è morto, e questo significa che lo studio adesso è di Nathan, giusto? Le regole sono cambiate.

«Ah, Dio, Pete» mormora Nathan, guardandoti negli occhi. C’è una leggera sfumatura di colpa nella sua voce, e tu sai che ancora una volta state pensando la stessa cosa. «Questo non è il momento.»

«In Europa ogni momento era il momento» ribatti, e lo senti irrigidirsi all’istante, vedi la dolcezza asciugarsi dal suo volto e le labbra serrarsi in una linea. Puoi quasi sentire i denti sbattere gli uni sugli altri come lo scatto di una tagliola.

Ti chiedi se Papà fosse consapevole di alcuni difetti del carattere di Nathan, quelli che lo rendono un pessimo candidato a Padrino. Ad esempio hai sempre trovato vergognosamente facile sorprenderlo; per certe cose, Nathan sa essere ingenuo come un bambino. Hai sempre pensato che il suo problema più grande fosse l’incapacità di chiamare le cose col proprio nome.

«Nathan» lo chiami, tenendolo fermo.

«Perfetto» sibila lui. «Avevo proprio bisogno di sapere che mio fratello ha fatto la puttana in giro per il mondo.»

Uno dei tuoi pochi pregi, invece, è che le parole non ti feriscono. Non l’hanno mai fatto. «Se sono una puttana sono la tua puttana, Nate. Non c’è mai stato nessun altro, okay? Un cazzo è solo un cazzo.»

«Parli pure come una puttana» replica Nathan, disgustato.

Tu sai che non è solo una posa. Nathan è molte cose, ma non un ipocrita e nemmeno un puritano. Tu sai che, nella sua maniera contorta, lui ti rispetta, ma sai anche che quando Nathan ti rispetta le distinzioni cessano di esistere. Diventa tutto personale; diventa tutto con lui o contro di lui. Tu sai che il giorno in cui Nathan ha iniziato a rispettarti è iniziato il giudizio. E sai che per gli standard di Nathan, che sono quelli di Papà, tu non lo passerai mai.

Lo baci di nuovo, con prepotenza e disperazione, e Nathan resta rigido e non ti ricambia ma neppure si sottrae. Potrebbe allontanarti facilmente; è più forte di te. Ma anche lui è intrappolato nelle maglie di questo rapporto morboso che vi tiene insieme, questa condanna per cui non può mai averti del tutto e neppure cacciarti via. È uno strazio che vi portate dietro da prima che lui ti fottesse in quella stanza d’albergo dieci anni fa, da prima che tu gli chiedessi se sua moglie gli aveva mai fatto una “francese”, da prima ancora che tuo zio pensasse di toccarti dove non doveva e Papà lo facesse ammazzare.

È una cosa più vecchia di voi, contro la quale non potete combattere. Ed è per questo che Nathan si arrende rapidamente, anche se la rabbia trapela nel modo in cui ti stringe la gola e ti sbottona furiosamente i pantaloni.

Anche dopo quattro anni, le sue mani si muovono sicure su di te e così le tue su di lui. Sai che il tempo trascorso è lì in bella vista: Nathan è un po’ più robusto di quanto ricordassi, mentre tu sei molto più magro; sul tuo corpo ci sono cicatrici che prima non c’erano e sulla sua faccia delle rughe nuove. Ma sai anche che certe cose non cambiano, che il tocco di Nathan ti fa vibrare con la stessa intensità di tutte le volte, che ci sono punti del tuo corpo che solo lui conosce e solo lui sa stimolare. È così che deve essere. È così che è sempre stato.

Lo spingi verso la poltrona e Nathan ti lascia fare, indietreggiando alla cieca. Quando atterra sulla morbida pelle nera c’è il rumore dell’aria schiacciata che sgonfia l’imbottitura e quello dell’aria trattenuta che esce dai suoi polmoni. Ti sfili la giacca e la cravatta nera e ti abbassi le bretelle, montando sulle sue gambe.

La posizione è nuova ma stranamente confortevole. A letto Nathan non ha mai spiccato per originalità, e in sei anni l’avete sempre fatto nel solo modo che conoscevate. Non che tu abbia mai pensato di lamentarti. Per come stavano le cose al tempo, la monotonia era un lusso.

Nathan ti segue con lo sguardo mentre ti stringe nella mano, gli occhi fissi nei tuoi, bevendosi ogni tuo sussulto. Ti piace. Ti fa sentire pulito, come se non ci fosse niente da nascondere. Quasi ti dispiace interrompere il contatto, ma c’è un punto invitante sul collo di Nathan e lui ha già reclinato il capo di lato per farti spazio.

La giugulare pulsa con forza sotto la tua lingua.

«Ti amo» gli sussurri in italiano all’orecchio, e Nathan si irrigidisce. Ti chiedi se sua moglie glielo dica nello stesso modo, con lo stesso tono.

E poi ci sono cose che non avete mai fatto, che lui non ti ha mai permesso di fare, ma non sei sopravvissuto alla guerra per lasciarti intrappolare di nuovo nelle stesse idiozie. Scivoli in ginocchio sul pavimento, finisci di sganciargli la cintura e gli sbottoni i pantaloni.
«Peter» arriva l’avvertimento, brusco.

Lo ignori. Nathan sarebbe capace di sentirsi offeso per il fatto che vuoi succhiarglielo, ma per una volta non è quello che Nathan dice o pensa a contare. Lo stringi nella mano, iniziando a massaggiarlo lentamente.

«Peter.» Il secondo avvertimento è severo ma più pacato, la voce più morbida. Devi essergli mancato. Quattro anni fa ti avrebbe allontanato con un calcio.

Lo accarezzi con la punta della lingua, un paio di lente leccate di prova prima di prenderlo nella bocca. Lo senti trattenere il fiato; il bracciolo di pelle scricchiola sotto le sue dita. Senti i suoi pensieri, il disgusto e il piacere e il rifiuto e la rabbia - perché c’è ancora rabbia sul fondo, e sai che non se ne andrà tanto presto.

«Lo succhiavi così ai soldati in Europa?» mormora Nathan, la voce rauca.

Non alzi neppure lo sguardo. «È la prima volta che lo faccio.»

Nathan si zittisce, non sai se per la rivelazione o il fatto che hai ripreso a succhiarlo. Quello che Nathan si rifiuta di capire è che quando siete soli non avete bisogno di dimostrare niente. Lui non ha bisogno di fingere che questo non gli piaccia, e neppure tu. Pensi che vorresti spiegarglielo, insegnarglielo, ma poi Nathan ti appoggia una mano sulla guancia e ti guarda con occhi intensi, liquidi di piacere. (È questo che ti è mancato più di ogni cosa. Questo. Fa quasi male.)

Nathan ti accarezza il labbro inferiore con il pollice e tu lo baci, succhiandolo leggermente tra le labbra, senza smettere di guardarlo. Il suo sguardo ti riscalda la faccia e ti rende ancora più dolorosamente consapevole della tua erezione che aspetta; è bruciante e possessivo come sempre, ma vedi anche sfrigolare la collera per la ciurma indefinita degli altri che ti hanno avuto. Puoi quasi sentire la domanda (Quanti? Quanti altri?) echeggiargli nel cervello.

Ti sollevi e ti sfili in due gesti scarpe e calze, gettandole lontano. Infili i pollici nell’orlo dei pantaloni e li tiri via insieme alle mutande. È dicembre e la metà inferiore del tuo corpo protesta per la nudità improvvisa, ma i brividi che ti attraversano quando sali di nuovo sulle gambe di Nathan non sono di freddo.

«Io ho sempre voluto solo te» mormori, la voce vagamente tremante per l’eccitazione. «Sempre.»

Le sue mani ti accarezzano la bassa schiena, ti stringono le natiche, le separano gentilmente. Lo senti premere in mezzo e sai che farà male, ma non importa.

«Sei sicuro?» domanda Nathan, la fronte corrugata.

Annuisci. Sono solo mesi ma sembra una vita intera - tutto quello che è stato in questi quattro anni improvvisamente cancellato con un colpo di spugna.

«Solo… aiutami, okay?»

I vestiti di Nathan frusciano contro la tua camicia e le tue gambe nude. Ti sposti leggermente in avanti, e le vostre erezioni si sfregano per un istante abbastanza lungo da toglierti il fiato. Nathan ti penetra cautamente con un dito bagnato di saliva e tu d’istinto abbassi lo sguardo, ma lui ti solleva il mento con la mano libera. Vuole guardare, e tu ti rendi conto che non l’avete mai fatto guardandovi. Delle altre volte hai solo immagini di scorci di letto, lenzuola disfatte e testiere più o meno arrugginite.

«Sei stretto» mormora Nathan, con il tono di una constatazione.

«Ah… scusa.»

«Mi chiedi scusa?»

Scuoti la testa e lo baci, stringendogli le braccia. Le dita di Nathan si muovono dentro di te, quasi asciutte e non particolarmente delicate. Come preparazione è meno che sufficiente, ma sono anni che non ricordi neppure cosa significhi, preparazione. Sei abituato al dolore. Col tempo, te lo sei fatto piacere. «Va bene così. Vieni.»

Ha ragione Nathan, sei stretto, ma lo eri anche la prima volta e in qualche modo siete riusciti a far funzionare la cosa. Eri anche spaventato e avevi sedici anni e tremavi e quello era tuo fratello, Dio Cristo, e non potevi neanche guardarlo in faccia mentre ti fotteva. Se ha funzionato quella volta, può funzionare ogni volta.
«Stai bene?» mormora Nathan, mentre vi assestate con una lentezza che deve riuscirgli esasperante.

Ansimi un assenso, sentendolo penetrare un po’ più a fondo. Niente che tu non possa sopportare, ti ripeti, come facevi in guerra. Una volta hai preso un proiettile in un braccio e ti ha quasi spezzato un osso. Non c’è niente al mondo che tu non possa sopportare.

Le mani di Nathan ti stringono i fianchi, possessive, mentre vi muovete l’uno addosso all’altro, l’uno dentro l’altro, respirandovi sulla bocca e baciandovi dopo aver ripreso fiato. Il dolore è sempre lì, un lento, cadenzato basso continuo che risuona a ogni spinta, ma se c’è un vantaggio nel non avere più sedici anni è che ora sai come coprirlo. Ora sai come ricevere i colpi nel punto giusto, quello che ti fa vibrare come una corda e ti ricorda perché ne è sempre, sempre valsa la pena - con Nathan più che con ogni altro.

Il piacere è quella vibrazione che ti risuona dentro amplificata, sempre più forte, nell’inguine e nella gola, e Nathan deve baciarti per soffocarti la voce, perché i muri sono spessi ma non potete permettervi di fare troppo rumore. Ti tendi e ti aggrappi a lui, vicino, con l’adrenalina che ti gonfia le vene e ti fa sentire la testa leggera, l’odore della colonia di Nathan che ti entra nelle narici fino alla gola e quello più aspro del sudore di entrambi.

È sull’abisso della conclusione che la risposta ti si accende nella mente, limpida e chiara come una folgorazione, e per la prima volta nella tua vita finalmente senti e sai cosa devi fare. È un senso di trionfo contorto e appagante come un desiderio di morte, che si aggiunge al piacere, al dolore, alla frustrazione, al lutto, tutto compresso in un bozzolo accecante che ti si annida nell’inguine e da lì esplode in ogni direzione, lasciandoti stravolto, tremante, con le labbra spaccate dai denti nel tentativo di non gridare.

Nathan è ovunque intorno a te, in un abbraccio così stretto che a malapena riuscite a respirare. Appoggi la fronte sulla sua spalla e lasci cadere ai fianchi le braccia molli e indolenzite.

Tra un paio di minuti ti rimprovererà perché gli hai sporcato la camicia. Sorridi nell’incavo del suo collo, leccandogli una goccia di sudore dalla gola e aspettando il momento.

Un giorno avrete tempo infinito, un letto a due piazze, muri di cemento armato e lo farete con tutta la calma del mondo, senza la fretta, senza il silenzio, senza la disperazione. Ma fino a quel giorno, pensi che così possa bastare.

+ + +
«Lo uccido io.»

Fuori ormai è sera. Vi siete ripuliti alla meglio e rivestiti, Nathan ti ha rimproverato per avergli sporcato la camicia e tu gli hai risposto che la prossima volta farà bene a togliersela. Nathan ti ha lanciato uno sguardo ma non ha replicato, e questo è bastato a farti sorridere. Anche se non sei sicuro che ci sarà una prossima volta.

«Cosa?»

Appoggi le mani sui braccioli della poltrona. Nathan ti guarda dall’altra parte della scrivania, gli occhi che lampeggiano minacciosamente sopra la lampada accesa.

Ti lecchi il graffio sul labbro inferiore. Sa ancora un po’ di sangue.

«Linderman. Combina un incontro. Qualcosa in un luogo pubblico, magari. Trova il modo di farmi arrivare una pistola e io te lo ammazzo.»

La reazione di Nathan è una mesta risata senza allegria, breve e umiliante. Improvvisamente ti guarda come se fossi un bambino che ha detto una parolaccia di fronte agli ospiti.

«Molto divertente, Pete. Mi sto scialando. Altre minchiate per la serata?»

«Pensi che non ne sarei capace?»

«Lasciami pensare un attimo… Sì. Esatto.»

Sospiri. È così frustrante, a volte. «Non sto scherzando, Nathan.»

«Lo so che non stai scherzando. È esattamente questo il problema. È sempre stato questo il tuo problema. Sei convinto delle minchiate che dici.»

«So sparare. Mi ha insegnato Papà. Sono bravo.»

«Qui non si tratta di andare a sparare a due lattine, Peter. Qui si tratta di piantare una pallottola in testa a un uomo, e devi guardarlo negli occhi mentre lo fai. Devi guardarlo negli occhi mentre muore. Tu lo sai fare questo? No che non lo sai fare. Sei un cazzo di fottuto infermiere. Che ne sai di ammazzare la gente?»

«L’ho già fatto.»

Nathan corruga la fronte e tace, studiandoti.

«Due volte» continui. «E lo so com’è, okay? Lo so che è uno schifo. Non mi interessa. Posso farlo.»

Nathan si lascia cadere su una delle due sedie di fronte alla scrivania e sospira, massaggiandosi la radice del naso.

«Non è proprio per questo che te ne sei andato? L’ultima volta che hai parlato con Papà l’hai chiamato “fottuto assassino”, se non ricordo male.»

Probabilmente continuerà a ricordartelo per tutta la vita. Ti chiedi se Papà gliel’abbia lasciato scritto nel testamento.

«Sì, e avevo diciassette anni e senti, Nathan, quelle cose lo penso ancora, okay? Ma ora è cambiato tutto. Questa è anche la mia famiglia. E voglio proteggerla. Posso farlo. Non mi importa se uno come Linderman muore - non dopo quello che ha fatto a Papà - è solo meglio se ce n’è uno di meno in giro, giusto? Ora inventati qualcosa per combinare questo incontro, e io ti giuro che non sbaglierò la mira.»

C’è un istante in cui ti sembra che Nathan stia per cedere; niente di più di un vago lampo di resa negli occhi, la sua mano fende l’aria in un gesto che non sai decifrare, poi rialza gli occhi e il suo sguardo è granitico.

«No» ti risponde. «Tu non vai ad ammazzare nessuno. Non ti mando al macello, chiaro? Chiusa la discussione.»

«Non accetterà nessuno di meno, Nate! Se gli mandi uno dei tuoi…»

«Ti ho detto che la discussione è chiusa.»

Ti alzi di scatto dalla poltrona, mandandola a sbattere contro il muro. Nathan ti guarda senza impressionarsi, e tu pensi che invece dovrebbe. Non capisce, non capisce proprio. Dio, quant’è difficile.

«Va bene, Nathan. Possiamo fare questa cosa insieme, e farla funzionare, e non si farà male nessuno. Oppure puoi continuare a trattarmi come un ragazzino ritardato, e io andrò e me la vedrò da solo. Poi non venire a piangermi quando sarò morto, okay?»

Gli passi accanto puntando alla porta, volutamente vicino alla sua sedia, e Nathan lascia uscire in un sospiro tutta l’aria che ha nei polmoni e allunga una mano ad afferrare la tua, bloccandoti a metà strada.

«Avanti. Avanti, Pete, ora non fare minchiate. Datti una calmata, okay? Siediti.»

«È importante» ribatti, e non riesci a non suonare vagamente infantile alle tue stesse orecchie. «Tu non sai quant’è importante, Nate. Non ne hai idea.»

Nathan abbassa gli occhi e annuisce, continuando a stringerti la mano nella sua.

«Il bastardo controlla anche la polizia. Ha uno sbirro corrotto, un certo capitano Parkman, sulla busta paga della sua Famiglia.»

Ti accoccoli sui talloni di fronte a lui. Nathan ti passa una mano sulla guancia, accarezzandoti uno zigomo, e anche se il cuore ti batte furiosamente nel petto, nella gola, perfino sulle punte delle dita, socchiudi gli occhi e pensi che tutto andrà per il meglio. Non può andare altrimenti.

«Sta scritto da qualche parte che non si può ammazzare un poliziotto?»

-- The end

fic, language: italian, fic: heroes, crossover: heroes/godfather, pairing: nathan/peter, series: godblessed

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