Titolo: Puppet on a lonely string
Parte: 10/17
Autore:
el_defe &
lisachanoandoFandom: RPF - Sportivi
Rating: VM18
Warning: A capitoli, Alternate Universe (AU), Hurt/Comfort, Linguaggio pesante, MaleSlash, Sesso esplicito, Ucronia, Underage, Violenza
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato nelle fanfiction qui contenute è realmente accaduto e non si pretende di dare tramite esse un ritratto veritiero di eventi o personalità. È una serie di pura fantasia e non vuole descrivere atteggiamenti reali. La presenza di contenuti espliciti o non adatti a tutte le età sarà debitamente segnalata, pertanto l'eventuale fruizione di tali contenuti ricade sotto la piena responsabilità degli utenti. *piange*
Introduzione: (Ucronia) "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Dedicata a Fae e Graffias, con semplicità.
Prologo -
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Epilogo Quando sente crocchiare il mazzetto di banconote sotto le sue dita - soltanto due partite, e sono abbastanza da poterci fare un mucchio di cose; no, abbastanza per poter fare una grande cosa - sa esattamente cosa deve dire. Non è troppo certo su chi debba essere il destinatario delle sue parole, visto che José non può interessarsi della cosa e il bunker a cielo aperto non ha molte persone che possano aiutarlo. Giusto un paio, osserva facendo mente locale: e uno, quello giusto, è giusto a portata di occhio e orecchio.
«Ehi» balbetta non appena lo vede, scoprendo mentalmente con un certo sconcerto che non solo non sa il nome dell’agente, ma non si ricorda neanche il cognome; ed è costretto a corrergli dietro con un altro «Ehi!» prima che De Faveri rallenti il suo passo abbastanza da permettere a Zlatan di raggiungerlo, sebbene dopo parecchi metri.
La guardia si volta quasi con disinteresse e lo osserva con educata incredulità, le braccia conserte e il volto inespressivo. Probabilmente nessuno, a parte José, gli ha mai rivolto una qualsivoglia parola ad eccezione del saluto mattutino e di quello pomeridiano; e probabilmente nessuno ha voglia di farlo, perché non è una presenza che invoglia alla conversazione - in primo luogo non parla mai, e poi è abbastanza alto e ben piantato da intimidire l’interlocutore. Zlatan guarda raramente negli occhi chicchessia, e il fatto che questa volta siano alla stessa altezza dei suoi non è una motivazione sufficiente per farlo, dopotutto.
«Scusa De… F-fav… De Faveri» ansima in un italiano ancora troppo incerto, riprendendo fiato dopo la corsa e ricordandosi all’improvviso del suo cognome. «Devo chiederti una cosa. Un… favore.»
L’altro non risponde alcunché - a Zlatan comincia a stare un po’ sul cazzo, è come parlare con la versione armadio a muro di José - ma qualcosa, un guizzo della sua mascella, spinge lo svedese a continuare. «Err, sai, io ho lasciato mia moglie e mio figlio, forse due figli, non sono ancora sicuro, su a casa, a Malmö. Non so se sai dov’è, è su in Svezia… più sopra della Germania e della Danimarca… hai capito?» gli spiega balbettando e storpiando probabilmente la metà delle parole; Filippo annuisce rigidamente, senza smuoversi di un centimetro.
«Ecco, volevo sapere se c’è un modo per organizzare il loro viaggio. Pago bene» aggiunge in fretta, e dopo un istante riflette che non sono i soldi il problema principale dei capitani della sorveglianza, proprio no, perché tra due lavori e il giro di scommesse a cui quasi certamente partecipano anche loro non possono assolutamente avere problemi di soldi. «Sì, scusa, ho detto una cazzata» borbotta. «Ma è importante. Troppo importante. E sono disposto a tutto.»
De Faveri sta cominciando a guardarlo come se fosse un alieno, o una qualsiasi altra cosa che valga assolutamente la pena di essere guardata per la sua rarità; per la mente di Zlatan passa un aspetto del “tutto” che potrebbe spiegare un sacco di cose, ma non fa in tempo ad avvicinarsi di un passo che il carabiniere gli volta le spalle e se ne va, lasciandolo a bordo campo come un idiota. Zlatan non sa spiegarsi questo comportamento - stupido ed estremamente irritante - se non quando José, venti secondi dopo, fa la sua comparsa dietro di lui e gli sbraita contro qualcosa su quanto tempo sta perdendo a cincischiare col vuoto.
Avrebbe giurato che vincere, no, dominare le prime due partite l’avrebbe calmato un po’, e invece José si sta agitando tantissimo. Ancora da bordo campo, Zlatan lo guarda e non può fare a meno di pensare che sembra stia accordando una qualche chitarra invisibile, la qual cosa è oltremodo divertente, perché José non sa suonare niente ed ha le dita troppo larghe e tozze per farlo, oltretutto.
Adriano lo manda a cagare al secondo “devi piantarla con le cazzate”, e Zlatan sospira pesantemente. È lì da meno di due settimane ma ha già capito alla perfezione come gira, fra quei due. Uno parla, l’altro non ascolta. Uno non parla, l’altro non capisce perché. Ci sarebbe da prenderli e infilarli in uno sgabuzzino per poi costringerli a sfogare quel po’ di tensione sessuale irrisolta che ancora impedisce loro una comunicazione serena, ma Zlatan sa perfettamente che non sono fatti suoi e, oltretutto, sa che non guadagnerebbe niente da un’improvvisa esplosione di amore fra Adri e José, perciò tace.
Lui gli passa accanto, infuriato, dopo aver lasciato perdere ed aver osservato il brasiliano allontanarsi, imprecando in tre lingue diverse.
«Ibra.» Lo chiama, dirigendosi stizzito verso gli spogliatoi. «Vieni con me.»
Con un altro sospiro, Zlatan lo segue. Un po’ lo infastidisce essere lui lo sfogo sul quale José brucia la rabbia. In generale, comunque, è a posto così.
Quando José lo spinge di prepotenza contro gli armadietti di alluminio che adornano, per così dire, le pareti degli spogliatoi, Zlatan ringhia e lo lascia fare. E pensa anche che ha sbagliato a giudicare, prima: c’è uno strumento che José sa suonare alla perfezione, e per il quale le sue dita non sono né troppo corte né troppo tozze. Solo che non è uno strumento a corda.
Mugola a bassa voce, stringendosi contro il suo corpo e sollevando le braccia per allacciarlo al collo, lasciandosi sfuggire un sorrisino strafottente che José non può fare a meno di cogliere e del quale - spingendosi con foga contro il suo bacino - non pare per nulla soddisfatto.
«Siamo nervosi...?» chiede Zlatan, già a corto di fiato, divaricando le gambe per aderire più facilmente al corpo di José ed accogliere le sue spinte con maggiore disinvoltura.
«Zitto» è la lapidaria risposta del portoghese, mentre gli lascia scivolare una mano lungo il fianco e scende fino ad afferrarlo saldamente da dietro un ginocchio. Zlatan ride a mezza voce, agevolandolo nel movimento e quasi stendendosi contro gli armadietti, nel tentativo di non pesargli troppo fra le braccia - ma José se ne frega di quanto pesi, se ne frega dei suoi accorgimenti e, ad occhio e croce, al momento se ne frega anche del fatto che sia proprio lui quello che sta stringendo e baciando e toccando ovunque; la cosa non rende certo Zlatan felice come un bambino, ma alla fine, è costretto ad ammettere, non può nemmeno lamentarsene davvero, perché magari José non si cura di chi sta toccando ma decisamente si cura di farlo bene. Tanto può bastare, per mandargli in blackout il cervello. Tanto può bastare per chiudere gli occhi, dimenticare i casini, il calcio, Milano, qualsiasi altra cosa, e lasciarsi semplicemente andare, seguendo il ritmo che, da bravo musicista, José impone, pressando tutti i suoi tasti, senza neanche una stonatura.
Quando José lo costringe a voltarsi e gli si pressa contro, Zlatan mugola e gli va incontro, strusciandosi contro la sua erezione prepotente anche sotto i jeans spessi e ruvidi.
«Ancora...» gli sussurra José, stringendolo con forza per i fianchi senza però cercare di costringerlo a movimenti precisi, «Fallo ancora. Muoviti ancora.»
«E in cambio…?» chiede lui, sfacciato, voltandosi appena per cercare le sue labbra. José non lo obbliga ad una ricerca troppo lunga e Zlatan lo trova lì a pochi centimetri, già pronto a baciarlo, umido e caldo.
«In cambio…» José continua a sussurrare e la sua voce riempie Zlatan di brividi che non riesce ad identificare né a fermare: scorrono come onde lungo la schiena, gli rendono molli le ginocchia e lo fanno sentire duro fra le gambe come non è quasi mai stato in vita propria, e ora che ci pensa anche tutte le altre volte in cui lo è stato era José, solo José, sempre José, e in questo senso un po’ sì, un po’ lo scazza che José in questo momento se ne freghi di stare stringendo toccando scopando proprio lui, ma per un secondo - per il secondo in cui José soffia un ansito caldissimo direttamente contro il suo lobo - può anche disinteressarsene. «In cambio…» e non aggiunge altro, si spinge solamente contro di lui, è ancora fottutamente vestito e Zlatan sta già dando di matto per il bisogno che ha di sentirselo scivolare dentro.
Perciò obbedisce e, mugolando, si spinge contro di lui, una due tre volte, piantando le mani contro l’armadietto - che diventa subito caldo contro il suo corpo - e lasciando che José lo stringa ai fianchi come volesse saggiarne la consistenza. E mentre lui si spinge - e non fa altro - José si spoglia, lo prepara e poi lo penetra. José sta immobile. Fa tutto Zlatan. È come la prima volta, è come quando Zlatan ha scoperto che per José non era fondamentale fare qualcosa per farsi sentire, perché era perfettamente in grado di riuscirci anche stando fermo. E per un attimo è facilissimo dimenticare tutto il resto e sentirsi di nuovo a Malm&oulm;, in un letto che non gli manca ma che un po’ rimpiange, immerso fra odori disgustosi ma conosciuti, in una situazione di merda, okay, ma era la sua situazione di merda, lui la gestiva, lui la controllava, o almeno così credeva, e oh - cazzo - è troppo difficile pensare quando José comincia a muoversi piano, scavandosi un posto dentro di lui - e non ne ha nemmeno bisogno, il posto già c’è, è suo da sempre, lo resterà sempre.
Stringe forte i denti quando sente l’orgasmo di José esplodergli dentro, e si stringe attorno a lui con una forza tale che José è costretto a gemere e stringere a propria volta la presa sul suo cazzo, accarezzandolo svelto avanti e indietro avanti e indietro fino a quando anche lui non ce la fa più e si svuota con un ringhio roco contro la parete in alluminio. I suoi occhi viaggiano distratti sulla macchia di sperma che scivola lenta lungo la parete, e poi vanno altrove, cercano gli occhi di José, non li trovano e, alla fine, si chiudono.
Zlatan respira lento e José fa lo stesso, contro la sua schiena.
Sono di nuovo a Milano. E naturalmente non è cambiato niente.
* * *
Un tomo della sorveglianza ha appena finito di parlare con José - Zlatan li ha visti discutere abbastanza rapidamente, anche se in maniera tranquilla, e poi il mister gli ha detto di recarsi con… Gianni, Giovanni, quel che è, all’uscita di quel bunker a cielo aperto che comincia a essergli sempre più stretto.
Non era preparato, non dopo la discussione a senso unico di quella mattina: c’è una berlina scura con un lampeggiante sul tettuccio e De Faveri alla guida che gli sta facendo cenno di salire. Zlatan stringe nervosamente il marsupio, guardandosi attorno mentre il pomeriggio comincia a scemare, e poi sale rapidamente in macchina.
Per parecchi minuti, gli unici rumori che si sentono nell’abitacolo sono il volante che scorre sotto le mani di Filippo, rapidamente, mentre l’Alfa fende le strade già deserte di Milano, e i respiri profondi di Zlatan, nervoso per una situazione che ha generato lui - anche se non volontariamente - e per quel “sono disposto a tutto” che lo riempie di turbamento, sì, ma anche di un vago senso di eccitazione. A tratti la radio gracchia qualcosa del tipo “sospetta autovettura in zona Fiera” o “a tutte le auto in zona, convergere tra via Marghera e via Cuneo”, in un modo così simile a quello della polizia che si vedeva nei film da essere quasi inquietante.
De Faveri si ferma soltanto di fronte a un cancello di metallo verde, che scorre lentamente di lato soltanto quando schiaccia il tasto dell’apertura telecomandata, e infine parcheggia sotto il porticato di una piccola casa a due piani. Zlatan è sempre più perplesso, ma il fatto che abbia sfilato le chiavi dal quadro è senz’altro il segnale di scendere dall’auto e seguirlo al piano terra.
Zlatan comincia a rassegnarsi alle attese in perfetto silenzio: quella specie di soggiorno - ordinato quasi maniacalmente, con poche concessioni allo svago e dove perfino gli scaffali ospitano i libri suddivisi per grandezza e colore - è più tranquillo di un cimitero la domenica notte. E non saprebbe definire se sia una visione rassicurante o più degna di una scena del crimine appena ripulita.
Filippo prende un fascio di fogli piccoli e un paio di penne e scarabocchia per un po’, prima di assicurarsi che sì, la biro effettivamente scrive ancora ragionevolmente; accartoccia il foglio imbrattato con la sinistra e disegna rapidamente una specie di tabella con la destra, sotto gli occhi allibiti di Zlatan - che, ormai, pensa che il gendarme sia suonato del tutto e che, se proprio ha intenzione di scopare per concedergli di mandare a prendere Helena (e sempre se ha capito bene, perché parlare con i muti non è esattamente il modo migliore per intendere alla perfezione qualcosa di così delicato), è meglio che non perda tempo con bozze di contratti senza valore.
Per questo quasi sobbalza quando scopre che il carabiniere, effettivamente, non è muto.
«Primo, mi devi dire tutto quello che può servirmi per recuperarla.» È una voce molto sicura, anche se riesce a seguirla appena e nonostante il silenzio sia rotto solo dallo stridio della penna. «Secondo, mi chiamo Filippo. E terzo, non posso garantirti niente, ma penso che tu lo sappia.»
Zlatan resta a bocca aperta, ma l’altro non si scompone e attacca a dirgli esattamente le stesse cose, questa volta in inglese, per poi aggiungere «Mi hai capito?»
«Sì,» gli risponde in italiano. «Avevo capito pure prima. Mi stupivo del fatto che avessi parlato, sai com’è» ridacchia; il volto di Filippo si distende appena (dev’essere il suo modo di sorridere, probabilmente) mentre gli passa la tabella che ha appena disegnato: a sinistra ha scritto, in tutte e due le lingue, i dati che gli servono - nome, indirizzo, situazione della città, cose che deve sapere di lei e tutto il resto, non si può dire che difetti in efficienza - e a destra ha lasciato gli spazi vuoti perché possa compilare la scheda in santa pace. Zlatan ci mette un po’ a riempire le caselle, lanciando ogni tanto un’occhiata di sottecchi all’altro, che continua a dargli le spalle, in attesa.
«Fatto» dice dopo qualche minuto, allontanando da sé il foglio: in un attimo quest’ultimo finisce tra le mani di Filippo, che si siede a mezzo metro da lui e comincia a esaminare attentamente la tabella, confrontandola con un paio di volumi che, nel frattempo, ha tirato fuori dalla libreria - un atlante, una lista di orari, alcuni fogli bianchi per dei calcoli la cui utilità sfugge al calciatore. L’italiano alza la testa un paio di volte, poi chiude con uno scatto tutto quanto e intasca la tabella coi dati.
«Fatto» risponde a sua volta con una leggerissima sfumatura ironica, guardandolo fisso al punto da permettere a Zlatan di notare le sfumature di marrone degli occhi; non si scompone neanche di fronte alla sua smorfia interrogativa, né al fatto che non voglia abbassare lo sguardo per primo.
«Be’… bene» commenta, torcendosi le mani per il nervosismo di aver perso una quantità indicibile di tempo - e per l’ansia di non sapere come andrà a finire col capitano. «E quanto mi costerà?» gli chiede, ma in risposta non ottiene che un mezzo respiro che somiglia a una risatina di scherno.
«Mh. Hai detto che eri disposto a tutto, prima.»
Zlatan sospira frustrato, lasciando che la sirena spiegata di un mezzo si perda in lontananza. «Sì» borbotta, alzandosi e avvicinandoglisi con una calma innaturale, «e me ne sono pentito cinque secondi dopo.»
Finalmente, e in maniera quasi inaspettata, Filippo ride; ha un sorriso storto per tutte le volte che non ha potuto ridere, un tono di voce un po’ meno freddo e impersonale di prima e una mano fredda e grande con cui gli ha appena dato una pacca alla base del collo. «E va be’, non pentirtene troppo. Niente che tu non voglia, okay?»
Zlatan non capisce più nulla. Gli afferra la nuca e lo bacia. Dopo mezzo secondo sente le mani di Filippo sul petto, e poi si ritrova a barcollare per non cadere a terra.
«Cazzo fai?» gli urla contro il carabiniere, passandosi il dorso della mano sulle labbra, «sei tutto matto?»; una risatina chioccia risuona a poca distanza dai due, ed entrambi si voltano di scatto quasi contemporaneamente a guardare Rosalia.
«Minchia, se sei incazzato» continua a ridacchiare, e poi nota Zlatan appoggiato al muro. «Oh, tu sei uno dei ragazzi del Mou. Filì, se strilli un altro po’ ti sentono fino al Duomo, ah.»
Lui risponde con un cenno imbarazzato, grato che la presenza di lei impedisca al collega di mettergli le mani addosso - e non ne avrebbe neanche tutti i torti, dopotutto: a parti invertite avrebbe dato fastidio anche a lui.
«Non metterti in mezzo. Questa è casa mia» ribatte truce, stringendo gli occhi. Rosalia non si scompone più di tanto, si limita a stiracchiarsi un po’ e a sbuffare.
«Tesoruccio, è casa nostra. Sopra ci sto io, sotto ci stai tu, e in mezzo un solaio che ci è costato un occhio della testa. E se vuoi gridare al mondo quanto sei minchione sono anche cazzi miei.»
Zlatan è impressionato dalla carica della donna; non ha mai confidato nella buona sorte, ma è arrivata davvero al momento giusto, e può cercare con calma un modo per sgattaiolare via dal manicomio in cui si è volontariamente cacciato, senza troppi danni.
«Rosa, mi urlo quanto mi pare. Mi ha…» mormora, premendosi la nocca dell’indice sulle labbra; Rosa, se possibile, ridacchia ancora più forte.
«Tu… Zlatan, giusto? non hai impegni, no?» dice, rivolgendosi improvvisamente a Zlatan; lui fa spallucce, sorpreso. «Certo che no, ovvio, siete nel ritiro. Filì, posso mettere qualcosa sul fuoco senza che tenti di uccidere nessuno, per favore?»
L’uomo incrocia le braccia e volge lo sguardo di lato, senza rispondere.
Il primo pensiero di Zlatan è che in quella casa devono essere davvero abituati al silenzio; non si sente altro che il tintinnare delle forchette contro i piatti da quando è stata scolata la pasta, e per quanto possano essere squisite le pennette alle olive di Rosalia - “Rosy, ah! L’ho detto anche quando ci siamo visti la prima volta!” - non può ignorare l’aria malmostosa con cui Filippo sta ingollando i maccheroni, uno dopo l’altro, fissando prima lui, poi lei come se volesse ridurli in poltiglia a suon di pugni.
«Sono ottime» è tutto ciò che riesce a dire tra un boccone e l’altro, ma non ottiene più che un sorriso radioso da parte di lei e una sonora sbuffata da parte di lui, che non appena termina di mangiare si alza da tavola e si stende di traverso sulla poltrona poco più in là, dando loro le spalle e assumendo una posizione contorta e scomodissima da un bracciolo all’altro. Zlatan teme di aver buttato mezza giornata con quel colpo di testa - e senza neanche avere il tempo di capire se ne è valsa la pena, almeno - e fissa Rosalia con aria dimessa; lei gli posa una mano sul braccio, comprensiva, e si avvicina a lui strusciando la sedia.
«È un po’ così» gli sussurra, «ma se gli hai chiesto una cosa e se te la può fare, la farà.»
Un colpetto di tosse dall’altra parte della stanza la interrompe. «Questo non è mai stato in discussione» commenta Filippo, senza smuoversi da lì.
Rosalia ghigna. «Be’, potevi anche dircelo qua a tavola, senza fare le tue pose da strafigo in poltrona.»
«Devo trovare la posizione più adatta per dormire» risponde imperturbabile.
«E perché dev-»
«Sono le ventidue» continua, spostandosi contro lo schienale alla ricerca di una posizione più comoda. «Non possiamo accompagnarlo al centro, e non lo vorrei fare neanche se potessi. E nello stesso letto con lui non ci dormo, o invece che una lingua in bocca mi ritrovo qualcos’altro in qualche altro posto.»
Zlatan abbassa gli occhi, imbarazzato, ma Rosalia ride fragorosamente a quella che, probabilmente, è la frase più lunga detta da Filippo negli ultimi mesi.
«Ha ragione» dice, asciugandosi gli occhi per il troppo ridere, «è meglio se resti a dormire qua. Sopra ho solo il mio letto singolo, qua c’è il matrimoniale… e se vuole restarsene in poltrona, te lo tieni tutto per te.»
«Ma...» balbetta, pensando a José - pensando per la prima volta a José nelle ultime ore, c’è da dirlo - che non sa che fine abbia fatto.
Si rigira ancora. «Mister Mourinho sa dove sei. E sei al sicuro. Non si preoccupa.»
Zlatan vorrebbe ribattergli che non è preoccupazione quella che sta nella testa di José in questo momento - a meno che non si sia intrufolato nella camera di Adri, ed è fuori discussione - ma capisce che non è il caso di sfidare ulteriormente la fortuna, per una sera. Annuisce, proprio mentre Filippo torna a mettersi seduto in maniera vagamente composta.
«Hai detto che eri disposto a tutto.»
Annuisce di nuovo; Rosalia si preme una mano sulla bocca per non ridere.
«Allora tieni le mani - no, tieni tutto a posto, e resta dalla tua parte del letto. La poltrona è troppo scomoda per dormirci.»
* * *
Lo squillo che strappa Zlatan dal sogno - un sogno che lo ha lasciato madido di sudore e carico di eccitazione, ma non ci sarebbe neanche bisogno di specificarlo, dopotutto - è così forte che, probabilmente, non ne ha mai udito uno simile. Riesce a puntellarsi sui gomiti e a tornare dalla sua parte del letto (non può controllarsi mentre si rigira nel sonno, che pretese) un attimo prima che Filippo scatti a sedere e interrompa la chiamata al secondo trillo angosciante.
«De Faveri» risponde, affondando una mano nei capelli corti e soffocando gli sbadigli. «Sì. Sì. Quindici, massimo venti minuti» conclude, la voce venata di allarme. Schiaccia un pulsante accanto al comodino, e immediatamente si sente ronzare qualcosa al piano di sopra.
«Filì, che minchia fai! Sono le quattro!» Il grido di Rosalia è soffocato, ma Filippo continua a schiacciare imperterrito il cicalino; in trenta secondi lei si precipita giù fino a metà scala, infagottata in un pigiama rosa pastello.
«Che è successo?» urla.
«Due polli non sono al pollaio.»
«Che… merda» sibila, risalendo in fretta i gradini, mentre Filippo scuote Zlatan con decisione.
«Tu- bene, sei sveglio; vestiti. Devi venire con noi.»
«Ma...»
«Dobbiamo tornare alla Pinetina. Due tuoi compagni sono spariti.»
Zlatan è in piedi in un secondo, spaventato, e nella foga i pantaloni del pigiama che l’altro gli ha prestato - della lunghezza giusta, ma un po’ larghi - gli cascano fino a metà gamba; Filippo alza gli occhi al cielo quando nota la stoffa dei boxer tesa, borbottando imprecazioni di varia natura - se il suo scopo è quello di imbarazzarlo ulteriormente, ci riesce benissimo - e decide che è meglio voltargli le spalle, mentre si veste in fretta.
Sette minuti dopo, l’Alfa sfreccia lampeggiando per imboccare la strada che porta fuori Milano.
TBC...
Nota dell'autrice femmina: *SQUEEEEEEEEEEEEEEEEEE*
Traduzione dell'autore maschio: quando abbiamo cominciato a scrivere, era la ventisettesima giornata di campionato e l'Inter attendeva la Fiorentina, nella speranza di mantenere il vantaggio di 7 punti sulla Juventus e di 12 sul Milan; aggiungo questa nota oggi, 16 maggio 2009, perché quella lì *indica la Liz* è interista fino ai denti e il Milan ieri si è suicidato regalando ai rivali un altro scudetto. Lei fangirla e pregusta la festa di domani sera. Io rido. Non di lei, eh: con lei. XD