il drammatico scontro dei ricordi dà origine a una realtà ideale.

Jan 18, 2008 20:04

Stupisce anche me che sto postando per la seconda volta in un giorno, ma d'altra parte sarà meglio battere il ferrò finchè è caldo. E quindi eccomi qui con la prima Long in un milione di anni, ovviamente dedicata alla nuova ship più bella del mondo. La trovo un po' inutile e pretenziosa, ma d'altra parte non mi viene in mente nulla che abbia scritto e mi soddisfi, e tanto vale accontentarsi.
Alla fine i personaggi sono pressochè inventati, se vi fanno schifo non esitate a dirmelo.
E, si, il titolo della fic non è quello dell'header, ma è così bello associare i Doors e poi come avrei potuto scrivere 'dramma in cinque atti' in un header? o_o

Title: Ritrovarsi e Perdersi - dramma in cinque atti, il drammatico scontro dei ricordi dà origine a una realtà ideale.
Fandom: Heroes
Rating: G
Avvertimenti: Long Fic, slash.
With: Daniel Linderman, Arthur Petrelli. Una breve apparizione di Angela Petrelli e Adam Monroe nominato.
Word Count: 3.222 parole. uau.
Note&Ringraziamenti: Uhm, di notevole non c'è molto, tranne che questo è tutto il contrario di un progetto, vorrei essere più razionale e creativa nelle cose che scrivo. Vorrei ringraziare irish_breeze e eide_oconrad per il supporto morale, il betaggio eccetera. Insomma, ragazze, vi amo, ok?ç_ç E anche eryslash!<3<3<3



ATTO I

"Da non crederci" pausa "Sei venuto davvero."
Se Dan potesse farlo applaudirebbe, ma in fondo non è stupito. E' questo quel che diventa un buon soldato finita la sua guerra: un uomo di spettacolo.
Arthur gli sorride con quella sua bella faccia, come fosse davvero uno sconosciuto. E' una strana sensazione. Strana davvero, si dice Dan.
"Che meraviglia, amico."
D'altra parte, si dice, l'attesa, la pretesa, la dissimulazione hanno sempre avuto un ruolo importante nella loro relazione. E' un meccanismo malsano e non funziona poi neanche bene, ma è quel che hanno.
E nonostante tutto, per quanto si renda conto della farsa, qualcosa fa male in fondo allo stomaco.
Arthur tradisce sé stesso quando gli afferra la spalla con quel suo fare diretto, e gli sussurra con gli occhi tristi che vorrebbe trovarsi ovunque tranne lì. Il suo modo di fare lento, affermativo, non è cambiato.
Ha una faccia espressiva, Arthur, mentre Dan pare abbia dipinto in faccia sempre lo stesso sorriso disadattato.

Appoggiato il cappotto nero, Dan ha il dubbio piacere di riuscire a guardarsi attorno.
La casa è noiosa, ha il gusto stantio delle persone non di molto più vecchie di Arthur; moquette e pochi mobili, beige e marrone.
Anche la musica è noiosa. Musica d'ambiente, troppo impersonale per essere rilassante.
La gente è noiosa. Giacche e girocolli neri, e discorsi altoborghesi.
Arthur sospira.
"Lo so cosa stai pensando. Devi capirla. Lei era ricca, poi non lo è stata più e adesso lo è di nuovo."
"Cosa?"
"Piantala. Ti si legge in faccia" Dan scuote il capo "Sei uno di quei ragazzini che giudicano i figli del boom. Cosa pensi, che il tuo Dylan sia meglio di questo?"
Dan ride.
"Andiamo, dillo. Come pensi che sia, questo? Dillo."
"Capisco, si. Diciamo che non incontra il mio gusto. Sai, è piuttosto grossolano."
Arthur sorride. Ha questa strana cosa indefinita giù nel petto, e si spiega perfettamente da dove venga, ma non riuscirebbe a descrivere di che materia sia fatta. Non è ingenuo abbastanza da volerlo negare.
"Si, è piuttosto grossolano."

Dan succhia una fetta di lime e butta giù dal bicchiere col bordo di sale.
"Oh. Non posso crederci che tu lo abbia bevuto davvero."
Cosa?
"Avevo i miei sospetti, ma non credevo potessi arrivare buttar giù qualcosa tanto da femmine."
"Ah-ah. Arthur. Signor maschio. Se vuoi punirmi per aver detto che tua moglie è grossolana, beh, io credo in te, Petrelli. Puoi fare di meglio."
E' un bel momento, e Arthur si chiede da cosa derivi la sensazione miracolosa di quando le due parti combaciano.
"Sul serio, Arthur" prosegue. Il divanetto è piccolo e un po' duro ma deve essere un oggetto di design, e nonostante tutti quei quasi quarantenni, avvocati, ragionieri, intellettuali di poche pretese, scrittori senza speranze e arrampicatori sociali, pare che questi, la musica pessima e il mobilio noioso, li abbiano lasciati del tutto soli, unico punto di luce in un salotto buio.

"Dico, non mi rende felice ammetterlo, ma sono diventato uno snob anche io. Non mi sono mai sentito fuori posto come adesso."
Per quanto Dan non sia poi serissimo, Arthur si stringe nella spalle a dire che capisce e poi gli ordina un altro Mojito.

"Insomma, quante possibilità ci sono che la incontri stasera? An-ge-la."
Arthur sorride. Lo fa sorridere che ricordi il suo nome. Dalle lettere?
"Mi auguro nessuna."
In quello stesso momento, come per lodare la banalità del suo umorismo, un tizio esile, con dei baffi ridicoli, applaude nella sala grande e tutti gli altri dietro. Dan ha assunto una posa plastica, che rende giustizia a quel suo aspetto fresco e adolescente e decide di non scomporsi. Ha qualcosa di storto e sbagliato, oltre a quest'aria rinnovata di ragazzino travestito da adulto, che unita a quella manciata di bei ricordi è il motivo per cui Arthur non ha avuto bisogno di pensarci, quando si è presentato alla sua porta.
Arthur scopre la piacevole sensazione di riaprire un capitolo chiuso.

ATTO II

"Pare che la festa sia finita." dice, alzandosi. Dan si sente sollevato dalla prospettiva privata che sembrano sottintendere le sue parole. Mentre va a prendere il cappotto cerca con gli occhi qualcuno che possa essere lei, spinto da una certa curiosità infertile, ma niente.
E' solo nel momento in cui i due si rincrociano, mentre Arthur prende dal cappotto quel rumoroso e pesante mazzo di chiavi che lei compare.
Davvero credeva che non sarebbe accaduto?

Lei non è poi diversa da come l'aveva immaginata nel momento stesso in cui un Arthur più giovane di una manciata d'anni aveva bisbigliato masticando una sigaretta 'Sai, io ho una moglie' nel gesto di infilarsi la canotta dalla testa.

Se l'avesse vista prima l'avrebbe riconosciuta, si dice.
Lei ha un aspetto austero, come la figlia del proprietario terriero di una soap opera ambientata in Europa. Occhi grandi, inquieti e sicuri, e lunghe ciglia, lineamenti non troppo fini. Un bel taglio corto che le rende la faccia interessante.
Potrebbe anche ammettere che sia piuttosto bella, nonostante le labbra sottili.
"Dove stai andando?" mormora, distaccata.
Lui risponde in uno strano vocalismo gutturale.
"Pensavo che la festa fosse finita, tesoro."
Dan sorride di quella formalità.
"Una festa finisce quando l'ultimo invitato sen'è andato, Arthur."
"Andiamo. Lo sai cosa intendo."
Se a Dan importasse qualcosa della possibilità che Angela capisca, lo chiamerebbe un silenzio imbarazzante.
"Il tuo ospite?"
"Oh" esita Arthur "Questo è - è Dan Linderman. E' stato in Vietnam con me."
"Si. Quelle due settimane rilassanti ed esotiche. E' un piacere, Angela."
"Lo stesso per me, Daniel. Daniel?"
Dan annuisce, senza nascondere ad Arthur la bieca soddisfazione che gli procura l'idea d'esser stato un segreto.
"Dove ve ne andate?" dice lei appena fanno cenno di muoversi. Arthur temporeggia.
"Sono cose da soldati, Angela" risponde Dan "Bere scotch, ricordare canti di camerata, sparare a animali notturni."
"Oh, piantala" Arthur sembra divertito. Angela non molto. Dan è deluso dal suo senso dell'umorismo.

ATTO III

"E' carina, più o meno. Non è diversa da come la immaginavo", dice lui con l'aria polemica che hanno i bambini gelosi, mentre appoggia la fronte al finestrino.
Arthur si sente confortato dal fatto che non sia cresciuto. Già.
Sembrerebbe il tipo d'uomo che dà un nome alla propria macchina sportiva e la coccola e pulisce con le sue mani ogni fine settimana, ma non è così. In realtà ha la forma di un portasigarette per signore e Dan si dice che probabilmente si tratta di un ennesimo vezzo di Angela.
"D'altra parte, sei sempre stato un tipo prevedibile."
Arthur ride un po' con la gola, e sterza con violenza lungo una strada di periferia. Dan si volta verso di lui e scuote il capo.
"Gi,à prevedibile. Perché tu lo sapevi, avevi previsto come sarebbe andata, alla fine. Come sarebbe finita."
Dan esita, non gli piace sentirsi prendere in giro, e accompagnandosi con la testa risponde di si, con quel suo tono saccente.
"Oh, sta' zitto, ragazzino", ride Arthur.
"Sono serio. Davvero, chiamala come vuoi. Chiamala empatia."
"Come preferisci, Dan."

ATTO IV

La casa ha pereti, soffitto e pavimento marroni, e rammenta quel pragmatismo ruvido che ha sempre fatto parte del fascino di Arthur. Probabilmente si tratta di una sua proprietà privata.
"Carino. Uhm, pare proprio che questo sia il tuo posto. Una tv, un giradischi e un bicchiere di whiskey, scotch o qualcuna delle tue schifezze da maschio. Lontano il giusto dalla mogliettina e dal pargolo, no?"
"Qualcosa del genere, si."
Dan sbuffa
"Sai, vero, sei un clichè che cammina?"
Pausa.
"Sai, vero, allora non parlavi tanto", risponde Arthur mentre tira fuori dalla credenza di legno scuro un paio di bicchieri pesanti e una bottiglia di whiskey, scotch o qualcuna delle sue schifezze da maschio, sedendosi sul divanetto a destra della tv. Dan si accomoda sulla poltrona, dall'altra parte di un tavolino compatto, decorato da una confusione di dischi d'epoca.
"E com'è che lei non viene qui e non sistema tutto? Sembra di stare su un altro pianeta, amico."
"Dubito che lei sappia dell'esistenza di questo posto, Dan", risponde mentre riempie un bicchiere di due dita di liquore e lo allunga a Dan. Dan lo afferra e indica Arthur in un ghigno.
"Ah-ah, credo di aver capito. Maledetto bastardo. Questo è il posto dove porti le tue amanti, ah?"
Arthur sospira "Oh. Fa sil...-"
"Sul serio, sei sempre più prevedibile, da ogni dettaglio."
Dan butta giù tutto insieme il suo liquore, ma è forte e tossisce e Arthur sorride.
"Dico, fai bene ad avere un posto segreto. Lei fa paura."
"Diavolo, si. E' minacciosa, vero?"
"Fa paura, si. E poi non sembra intelligente come dicevi tu."
"Oh, piantala. Alla fine t'innamorerai di lei. Tutti se ne innamorano, alla fine. Non ho gusti molto originali, io." Ed ha uno sguardo così dolce che se ne avesse voglia, Dan si sentirebbe in imbarazzo.
"Fa paura anche a me" e butta giù tutto insieme, come se niente fosse. Un clichè che cammina.
Pausa.
"Tu l'ami?"
Pausa
"Oh, si."

[...]
"...e poi ti rendi conto che nemmeno ti piacciono i bambini. Non ti piacciono per niente. E non c'è nessun modo in cui puoi cambiare le cose, o tornare indietro. E siccome mi sentivo davvero uno schifo a stare con lei e pensare questa cosa, ho ripescato il numero di Ed del college e mi sono fatto trovare questo posto, perchè avevo bisogno di quel minimo di cui hanno bisogno tutti, no?" pausa "E questo è tutto."
Dan sorride attraverso il bicchiere. Ha occhi umidi e un po' stanchi ma non assonnati, e le guance cominciano ad arrossarsi.
Un sorso dopo l'altro di quel liquore acido, caldo, fastidioso, e inizia a credere di aver perso per sempre il lusso di possedere delle papille gustative.
La sua risata è di una tonalità più bassa e si stropiccia gli occhi come un'adolescente un po' brilla.
Con lo sguardo fisso, strizza la sigaretta (perché Dan non ha smesso e anzi se non fosse più vecchio di quanto sembra, Arthur si sentirebbe legittimato a preoccuparsi del suo vizio) e la scuote davanti a se, come alla ricerca della forza necessaria a fare un gran discorso.
"Quel giorno", mormora affondando la testa nel divano "mi trovavo in un pub. Era piccolo, per ragazzi. Non troppo luminoso, ma era pomeriggio. Mangiavo un sandwich con le olive e probabilmente stavo morendo di fame. Era una grande città. Chicago, credo. Chicago. ... quelle cose a quella gente, e anche come ti fossi sentito in diritto di spaccarmi la fottuta mascella. Era perché non ci avevo pensato mentre colava tutto a picco, e mi trovavo tutto solo e bagnato, capisci? Cazzo. Voglio dire, ero piuttosto ottuso, si?"
Arthur ride di una risata calda. Dan sembra quasi una persona vera in questo momento, com'era pochi anni prima, quando l'aveva conosciuto, e si ritrova intenerito.
"Era un periodo così. Non riuscivo a dormire molto, bevevo un po' e non avevo dove andare, come molti di noi. Credo. E insomma me ne stavo lì, coi capelli in disordine e il cappotto militare tutto sporco e puzzolente, quando un ragazzino, un attivista, mette su una di quelle canzoni. Doveva essere Dylan o McGuire o qualcosa del genere. Per qualche istante non provai niente. Assolutamente niente. Fu fantastico, sul serio. E poi solo della rabbia. Direi di si. Era tanta che faceva male.
"Alla visita, avevo diciannove anni e tre giorni. Finii con te perché ero nato in gennaio, e perché ero bravo a scuola. Ed è così stupido, capisci? E poi in un pub di Chicago, un ragazzino, e dico ragazzino, perché nonostante la barba e i buffi occhiali da sole dopo il tramonto avrà avuto sedici anni, quel bastardo, che non ha nessuna fottuta idea di cosa significhi, di cosa sia essere lì, con l'odore, i morti, la terra che trema e le esplosioni che sembrano lampi, non fuochi d'artificio, insomma questo idiota, questo cretino, si vuol fare insegnare cosa sia da un tizio che scrive canzoncine e non ha nessuna idea di queste cose fottute.
"Allora capii. Davvero, quello che avevi cercato d'insegnarmi, in quel tuo modo per niente didattico. La lascia cadere, quella morale del cazzo. Morale cosa? Avevo sedici anni quando me ne sono andato perché quelli mi chiamavano mostro. Morale."
Il mozzicone si assottiglia, via via che Dan cresce in enfasi. Arthur è preoccupato che si bruci o si alzi e inizi a lanciare cose qua e là. Ha gli occhi assorti, pare si stia impegnando davvero per riportare quegli eventi e quelle sue sensazioni nel modo più vivido possibile. Ne è terrorizzato e affascinato.
"Mi sono spiegato tutto. Tu ci credevi, e avevi agito di conseguenza. Perché chi eri tu, cazzo, per decidere di far passare avanti la tua morale al bene del tuo fottuto paese? Mi sono spiegato tutto. La guerra, il male e quello che so fare."
"C'è qualcosa che devo dirti in proposito", interrompe Arthur senza aspettare una pausa. E Dan lo sa che è imprudente e sciocco ma deve finire di dire quello che sta dicendo, e allora
"Lo so. Lasciami finire. Lo so."
Arthur non si scompone e annuisce.
"Io ero, ero così stupido. Ero un peso. Lei era una minaccia, no? Una minaccia. Quello che doveva esser fatto è stato fatto, ah? Non era una minaccia per noi due, magari. ma lo era per...per l'intera umanità e mi chiedo, diavolo, come ho fatto a non pensarci prima. Tu non volevi che io mi nascondessi. Ricordo che forse, dico forse, iniziai a piangere. Era strano, che tutto avesse senso."
Dan respira profondo e dopo una pausa silenziosa, prosegue:
"E' con una buona approssimazione di certezza che posso affermare che Dallas mi abbia insegnato lo stesso valore della verità. Che niente vale davvero niente, ah? Ma la pace, voglio dire, il benessere. La realtà. Che ci sono elementi sacrificabili. Che noi stessi siamo elementi sacrificabili. Anzi, che ci sono elementi che meritano di essere eliminati. Ed altri meno. Quello che tu ed io sappiamo fare, Arthur è un segno, no? Voglio dire, magari noi potremmo... potremmo cambiare le cose, no?"
Arthur lo trova ingenuo. Deve essere quella sensazione tiepida che gl'impedisce di assorbire più chiaramente il messaggio. Dan adesso sembra sereno, libero da questo fardello, si avvia con la testa leggera verso la collezione di dischi di Arthur, dietro la tv.
"Dallas e io. Non siamo la stessa persona, Daniel."
"Ah no?" risponde Dan. E' sarcasmo, quello?
"Ero volontario. Non avevo un soldo, le cose con Angela non andavano bene e odiavo la mia facoltà. Dimentica le stronzate che dissi laggiù. Quel posto mi ha insegnato una cosa sola: non sarei mai stato una brava persona. Dev’essere per questo che me la cavo bene in quello che faccio."
Ah-ah. Battuta sulla disonestà degli avvocati. Arthur torna serio, ma è semplice. Ampolloso non lo è mai stato. "Mio padre non era una brava persona. Sulla mensola di cucina, c'erano tre barattoli di latta. Al centro mamma teneva i biscotti, a destra gli spiccioli che guadagnava in mance alla caffetteria sotto casa. Il terzo barattolo era vuoto solo quando lui aveva qualche conto da saldare."
"Una pistola?" mormora Dan semplicemente-
"Già." sospira "ho pensato a te e a quella ragazzina ogni singolo giorno e, Cristo, non mi sarei mai immaginato di avere qualcosa da insegnarti."

E' uno di quegli strani momenti in cui pare che gli interlocutori parlino in una lingua che neanche loro conoscono. Arthur non si rende conto di cosa sta dicendo, e adesso pensa solo a quegli occhi sorridenti e acquosi, all'espressione sinistra e alla sua piccola bocca seducente.
Dan scoppia a ridere, quando l'altro si alza e inciampa sul tavolino di legno. Poi Arthur lo afferra per le spalle e lo stringe al petto, sente le sue piccole spalle premere contro la clavicola e non sembrava così magro, ma riesce a contare le costole, mentre le corre con le dita sotto la maglietta e Dan riconosce il tocco ruvido e quella sensazione di solletico, mentre l'altro scivola le mani sulla pancia.
Arthur è divertito dal fatto che Dan sia ancora abbastanza giovane da rinunciare all'uso della biancheria, mentre fa saltare via uno dopo l'altro i bottoni dei pantaloni, che è una liberazione, perché Dan ce l'ha duro e fa male contro i jeans, e allora si volta e fissa l'angolo basso dei suoi occhi tristi e si rende conto che non è diverso da come lo ricordava, il profumo denso, il sorriso stiracchiato e quel sapore metallico. E lo trova piacevole.

ATTO V

Dan ama le composizioni.
Dalla strana posizione in cui si trova, Arthur non riesce a vedere nulla più che il torace asciutto dell'altro, salire e scendere e portare con sé il posacenere di vetro. Arthur si ritrova incastrato lì, con la testa appoggiata sul letto, tra la spalla e il mento di Dan, e pare che non ci sia altro da fare che restare in silenzio e fissare il soffitto.
Solo il rivolo di fumo che sgorga dalle labbra di Dan sembra sfuggire all'andamento verticale di ogni cosa in quella stanza.
Dan si sente vuoto e soddisfatto e si trova al posto giusto. Si esprime in una risata incomprensibile, un po' forzata.
"Com'è che si chiama il tuo moccioso?" Arthur fissa la nuvola leggera alzarsi e disperdersi puzzolente.
"Nathan", si concentra "Si chiama Nathan."
"Uhm. E' stupido."
Cosa?
"Stupido. Considerando come ti chiami tu e come si chiama lei, avrebbe potuto essere, che ne so... Al, Anthony... Austin. Si, Austin."
Arthur ride rauco, e allunga la mano, afferrando la sigaretta tra il pollice e l'indice, indelicatamente.

Fa del suo meglio, Davvero, per riuscire a incrociare lo sguardo al suo, ma non riesce a sollevare il mento e allora mormora debolmente:
"Come lo sai?" pausa. Dan riesce a sentire il sangue salirgli alla faccia "Quello che so fare."
Dan gesticola ma non risponde. C'è qualcosa di sbagliato, no?
E allora Arthur tossisce, come dovesse dire qualcosa, ed è davvero buffo il modo in cui cerca di darsi un tono meno domestico. Sospira.
"Questo posto è davvero un casino. Sul serio", una risata breve e profonda "Ma no. Il fatto è che. Cristo. Il fatto è che mi sei mancato e credo di amarti."
Dan ha i riflessi pronti e in un solo istante rantola qualcosa d'incomprensibile, si butta le mani negli occhi e si siede spalle al muro.
"Cristo, Dan. Non ti facevo così sentimentale."
"Oh" pausa "Fottiti, Petrelli."
Pausa.
"D'accordo", trova il coraggio di dire Arthur "Credo mi ci vorrà un goccio."
E fa per alzarsi quando Dan gli afferra il polso e
"Quel giorno, a Chicago. Ho incontrato una persona." Dan non sa neanche per quale motivo prova quello che prova. Per quale motivo dovrebbe sentirsi in colpa. "Lui lo sapeva. Non l'ha detto a nessuno."
Pausa
"Ti ha usato?" Dan lo capisce che non è il momento e non vorrebbe, ma non può fare a meno di ridere.
"No. Lui sa tutto, sai. Mi ha detto di te. Potremmo anche essergli utili. Anche Angela"
Sa di Angela?
In una strana, spiacevole, complicata sensazione, Arthur s'è alzato e ha buttato giù il primo goccio di whiskey, direttamente dalla bottiglia.
"Oh, andiamo", mormora Dan lamentoso "Lo sai che per me è lo stesso."
"Lo so."

heroes, ship: arthur/dan, fanfiction

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