Inception; Arthur/Eames; (Won't let you get away) If we ever meet again 1/2

Sep 08, 2011 23:13

Titolo: (Won't let you get away) If we ever meet again
Autore: chibi_saru11 
Beta: ///
Fandom: Inception
Personaggio: Arthur, Eames, Dom, Ariadne, Yusuf (menzionata Mal)
Paring: Arthur/Eames
Rating: NC-17
Warning: Slash, Post-Inception fic, UST, rough!sex (più o meno, ma è colpa mia che faccio schifo a scrivere porn), biting
Parole: 9.803 (FiDiPua) [in totale]
Riassunto: Dopo Inception Arthur sta scappando da qualcosa, Eames aspetta e in qualche modo è tutto collegato. [Sequel di (I'll never be the same) If we ever meet again
Note:
1.  Quando scrissi la prima dissi che era un prequel ad inception, poi ci sarebbe stato il film e poi... e poi apparentemente questo.
2. Io questa fic l'ho un poco odiata perchè Arthur si è mosso tutto da solo - una cosa da far venire l'orticaria, non avete idea - e si è mosso in maniera assolutamente assurda, oltre tutto. Proprio una cosa da prenderlo a schiaffi e poi Eames gli è andato dietro, non capirò mai perchè e boh...
Disclaimer: Inception non mi appartiene. A meno che io non abbia fatto
un'inception su Nolan, certo. Ma purtroppo no. Bummer.

Arthur prese la sua valigia e la mise sul carrello. Non aveva portato molto con sé, aveva in mente di tornare a Los Angeles dopo questo, nel suo appartamento, dove c’erano ancora la maggior parte dei suoi vestiti.

Sarebbe andato a trovare Dom, poi. A vedere come stavano Philippa e James a… Arthur non aveva idea di cosa avrebbe fatto, a dire il vero.

Aveva passato gli ultimi anni a seguire Dom come un’ombra, ad assicurarsi che stesse bene, a proteggerlo come Mal avrebbe voluto fare, ma non avrebbe mai potuto.

E ora Dom aveva avuto quello che voleva. Aveva rischiato di ucciderli tutti, ma l’aveva avuto ed Arthur lo guardò abbracciare Miles con un senso di… abbandono.

Il che era stupido: Dom (e Mal, sempre Mal, la bella bellissima Mal) gli avevano dato tutto. Gli avevano dato la vita che credeva di avere perso, la vita che credeva di aver esaurito in uno dei mille sogni che il governo gli aveva dato.

Gli avevano dato un nome (Mal, gliel’aveva dato, mentre gli accarezzava i capelli, con un brano di Chopin in sottofondo), un lavoro ed uno scopo. Arthur aveva promesso che la sua vita sarebbe stata loro, sempre e comunque.

Quando Mal era morta (e Arthur avrebbe dovuto capirlo, Arthur avrebbe dovuto stare più attento) Arthur aveva lasciato tutto (…) ed era volato da Dom.

Spinse il carrello fuori dall’aeroporto, ma non si guardò indietro. Non controllò cosa stesse facendo Eames, non cercò di scorgerlo tra la folla.

Era stato Arthur a lasciare Mombasa. Era stato Arthur ad andarsene e non poteva tornare indietro. Non ora.
Era passato troppo tempo, erano passati anni ed erano persone diverse.

Non importava che Arthur potesse ancora sentire il tocco di Eames sul suo dado. Eames non doveva sapere che l’aveva tenuto, non ne aveva bisogno.

Non voleva dire niente.

Arthur si chiese se Eames avesse ancora la sua medaglietta.

*

Casa sua era vuota esattamente come l’ultima volta che c’era tornato. Era ordinata e pulita, impersonale.

Le foto di Mal, lui e Dom erano sparite tanto tempo prima, nascoste dentro un cassetto chiuso a chiave che non aveva mai aperto.

Si chiese se ora sarebbe stato più facile, ora che Mal riposava in pace e Dom era a casa. Guardò la sua camera da letto, seduto in soggiorno, e il pensiero di aprire quel cassetto gli faceva venire la nausea.

Aveva la sua risposta, dunque.

*

Avrebbe voluto fare un altro lavoro, ma non aveva mai davvero lavorato con qualcuno che non fosse Dom come estrattore (se non si contava Mal, ovviamente, ma Arthur cercava sempre di non pensarci a Mal, era un istinto di difesa, non aveva idea di come sarebbe potuto andare avanti se si fosse lasciato trascinare dai ricordi del suo sorriso, delle sue mani).

Provò a sentire i suoi contatti, si informò sulle squadre migliori. Su che colpi erano in frase di progettazione. Era così facile controllare tutto, Arthur probabilmente era un poco troppo bravo in quello che faceva.

Controllò Ariadne (era tornata a Parigi), controllò Yusuf (di nuovo a Mombasa) e Saito (ricco come al solito). Aveva sentito Dom la sera prima (“Devi venire uno di questi giorni, Arthur. I bambini hanno voglia di vederti”) e sospirò, preparandosi a chiudere il portatile.

Si fermò.

Avrebbe potuto cercare e vedere dove si trovava Eames. Aveva controllato tutti, sarebbe stato solo normale vedere dove si trovasse, no? Controllare cosa stesse facendo.

Sfiorò il dado che aveva in tasca e chiuse il portatile.

*

Andò a trovare Dom.

Philippa gli si aggrappò ad una gamba e rise, chiamandolo “Zio Arthur” e “mi sono occupata per bene del peluche che mi hai portato l’ultima volta”.

Arthur le sorrise e le scompigliò un poco i capelli.

Philippa era come Dom, aveva solo gli occhi di sua madre, grandi e pieni di vita. Gli occhi che l’avevano convinto a seguirla, quel giorno di pioggia, gli occhi che l’avevano salvato quando Arthur non era nulla se non un corpo.

Però era James quello che Arthur trovava impressionante. Se Mal avesse avuto i capelli corti sarebbe stata come James.

Era quasi doloroso vederlo. Aveva così tanto di lei in lui e Arthur avrebbe voluto proteggerlo, chiuderlo da qualche parte ed essere sicuro che nulla e nessuno potesse fargli del male.

Non toccava a lui, però. Lo sapeva.

«Come ti stanno trattando queste vacanze, Arthur?» gli chiese Dom, passandogli una tazza di caffè. I bambini erano usciti a giocare, dimentichi dello Zio Arthur.

Dom sembrava rilassato. Quella solitudine che l’aveva accompagnato per tutti quegli anni c’era ancora, certo, ma ora Arthur poteva anche vedere qualcos’altro. Poteva vedere qualcosa del vecchio Dom lì, di quello a cui Arthur aveva promesso la vita.

Pensò a come avrebbe potuto rispondere a quella domanda. Non era esattamente annoiato, semplicemente non aveva stimoli.

Era perfetto.

«Non posso lamentarmi,» rispose quindi, perché Arthur aveva smesso di cercare il caos tanto tempo prima.
Essere vivi è pericoloso, si era detto tante volte e si era permesso di dimenticarlo solo una volta, in una spiaggia di un paese lontano. Non poteva commettere lo stesso errore ancora una volta.

«Io…» e Dom sembrava quasi in imbarazzo, come se non sapesse cosa dire «io non ti ho mai ringraziato, Arthur. Per tutto quello che hai fatto.»

Lo guardò. Non capiva, di cosa lo stava ringraziando? Arthur non l’aveva fatto perché si sentiva in dovere, l’aveva fatto perché non c’era mai stata nessun’altra alternativa. Perché, per Arthur, non c’era mai stata scelta.

«Ma Arthur…» e ora Dom sembrava più deciso, come se fosse qualcosa a cui aveva pensato seriamente e non fosse disponibile a lasciare correre «perché non pensi un poco a te, ora?»

Aveva pensato a se stesso una volta. Aveva pensato a musei, a spiagge e ad una casa che era come una realtà parallela a sé stante. A cosa era servito?

Era stato troppo impegnato a pensare a se stesso per rendersi conto di cosa stava accadendo.

Non rispose, quindi, perché sapeva che Dom non sarebbe stato felice di quella risposta, perché non voleva ricordare. Perché non voleva che Dom ricordasse.

Arthur era il point man, Arthur era quello che rimaneva indietro a combattere mentre gli altri andavano avanti. Era l’esca.

Gli era sempre andato bene così.

*

La lettera arrivò due settimane dopo. Arthur non aveva ancora aperto lo scatolo e non aveva preso un altro lavoro. Era rimasto fermo, intrappolato da qualcosa di invisibile.

La lettera era intestata ad un certo David Tennant. Arthur la guardò, ma non l’aprì. La lasciò sopra il comodino e cercò di dimenticarsene.

*

Arthur partì dopo tre settimane.

Andò a Parigi, ma non entrò in contatto con Ariadne, non le disse se volevano vedersi. Camminò per le strade così familiari di Parigi e si lasciò trasportare dalle persone intorno a lui.

Milioni persone. Milioni di persone vive.

Milioni di persone che non erano Eames o Dom o Mal. Arthur strinse il suo totem, ma non lo lanciò.

Dom l’aveva chiamato tre volte, ma lui non aveva risposto. L’aria Parigina era frizzante e viva, come Arthur non era stato in anni.

Tutte quelle persone vorticavano intorno a lui, ma non si fermavano, non erano nessuno di importante.

Arthur non era nessuno lì ed era quello di cui aveva bisogno.

*

Dopo Parigi andò ad Amsterdam e a Berlino.

Andò a Venezia e poi a Madrid.

Madrid che era calda e si rese conto che era in viaggio da un mese e che non aveva sentito nessuno di loro in tutto quel tempo. Non si era preso la briga di coprire le sue tacce, non era stato attento a chi lo stesse seguendo.

Aveva così tanti soldi che non sapeva che farne e stava galleggiando. Si stava lasciando trasportare dalla corrente.

Dopo Madrid andò a Barcellona.

*

Barcellona non era cambiata poi molto dall’ultima volta che era stata lì in sogno. Eames l’aveva costretto a camminare per ore per La Rambla. L’aveva portato ad ammirare i palazzi di Gaudì.

Non era cambiato da quando Arthur era stato lì l’ultima volta. A parte il fatto che ora Arthur era solo.

Arthur era solo e sarebbe dovuto andare meglio così, avrebbe dovuto preferirlo. Ma non era vero.

Gli mancava sentirsi vivo, gli mancava il caos. Gli mancava.

E non avrebbe dovuto perché era sempre lì che cominciava la fine. Era sempre da quella sensazione che tutto andava male.

(E ricordava la prima boccata d’aria dopo essere stato colpito da un proiettile, ricordava quella sensazione elettrizzante, ricordava di non essersi mai sentito più vivo in vita sua. E poi morte e morte e morte e morte).

Non avrebbe dovuto mancargli, avrebbe dovuto essere felice così.

Arthur scappò a Roma.

*

Dopo Roma venne Marsiglia e poi di nuovo Parigi.

Questa volta chiamò Ariadne e lei lo invitò a prendersi un caffè con lei. Ariadne aveva i capelli un poco più corti di quanto ricordasse e sorrideva con un poco meno spensieratezza.

Non si era fatto raccontare da Dom cosa fosse successo nel limbo e non sapeva quanto Ariadne sapesse della storia di Dom e Mal (a volte pensava che c’erano tante cose che sfuggivano anche a lui, ma non gli era mai interessato investigare più di così, non ne vedeva il motivo).

«Non ho intenzione di fare qualche altro lavoro,» gli disse Ariadne, sorseggiando il suo caffè «non… non credo di potere reggerlo. Non ora, almeno.»

Arthur poteva capirla. Si chiese come sarebbe stata diversa la sua vita se lui avesse avuto una chance di tirarsi indietro prima che tutto andasse per il verso sbagliato.

Magari Arthur non sarebbe mai nato, magari non avrebbe mai incontrato Mal o Dom o Eames. Magari non sarebbe stato così spaventato di vivere, se questo fosse successo.

«Non devi fare niente che non ti senti di fare,» le disse allora, perché era importante che Ariadne avesse una scelta, quella che lui non aveva mai avuto.

Lei gli sorrise.

«Hai sentito gli altri?» gli chiese e Arthur le raccontò di Dom - anche se non lo sentiva da un mese e probabilmente l’altro stava per impazzire.

«Ed Eames?» gli chiese lei, dopo un poco, guardandolo come se stesse cercando di capire qualcosa, come se fossero dentro ad un sogno e lei potesse prendere tutti i suoi segreti da una cassaforte (Ariadne non sarebbe rimasta a lungo lontana dal mondo dei sogni, Arthur lo capì in quel momento).

«Eames?» chiese, confuso.

«Ti stava cercando… quando siamo scesi dall’aereo, non avete parlato?» Eames l’aveva cercato? Per dirgli cosa, esattamente?

Non aveva idea di cosa potessero dirsi. Avevano lavorato bene, ma non era stato nulla più di questo. Non sarebbe mai più potuto essere qualcosa più di quello.

«No,» rispose, guardando il cielo blu (come la sfera, come Zurigo) e chiudendo gli occhi. «No, non abbiamo parlato.»

Il giorno dopo Arthur era a Zurigo.

*

Era strano come in questi ultimi anni Arthur fosse sempre riuscito ad evitare questa città.

Zurigo, bella bellissima Zurigo, ed era sempre riuscito a convincere tutti ad incontrarlo a Ginevra o a Berna. Mai mai a Zurigo.

Zurigo era fredda e grigia quando era arrivato. Arthur aveva chiuso gli occhi e aveva sentito qualcosa dentro di lui che si rompeva.

*

Aveva preso una camera nell’hotel in cui era andato a cercare Eames per la prima volta e aveva dato come nome Godot.

Visitò il museo per primo e guardò la sedia che Eames aveva definito noiosa e la sfera che Arthur aveva sognato così tante volte a Mombasa.

Sembravano spente, anche loro. Non c’era nulla a Zurigo come non c’era stato nulla a Barcellona o a Parigi. Non c’era nulla ed Arthur non avrebbe dovuto sentire la mancanza di quello che non c’era. Arthur non avrebbe dovuto sentire la mancanza di sentirsi vivo.

Rimase a Zurigo per una settimana e ogni giorno andava al museo e guardava per ore ed ore quella sfera, che non aveva forma e non aveva senso. Era come Eames.

E ad Arthur mancava Eames, anche se non avrebbe dovuto, anche se non aveva alcun diritto. Anche se Eames non era mai stato suo.

Quando tornò in albergo c’era una copia di “Aspettando Godot” sul suo letto. Arthur la prese, ma non l’aprì.
Accese il portatile e cercò l’e-mail di Eames, quella che un tempo aveva avuto e aveva usato così spesso da conoscerla quasi a memoria.

Non sapeva se era ancora attiva - solitamente cambiavano indirizzo ogni anno, anche di meno se c’era bisogno.

Arthur utilizzò comunque quell’indirizzo.

Banale fu l’unica cosa che gli mandò. E poi spense il portatile e chiamò Dom.

*

«Sei un maledetto bastardo, lo sai questo, giusto?» gli disse Dom, ma non sembrava arrabbiato, sembrava più curioso che altro.

«Pensavo fossi tu che mi avevi detto di pensare un poco a me,» rispose, semplicemente, sedendosi sul balconcino della sua camera d’hotel e guardando il suo fiato che si condensava leggermente.

«Sì, e sappiamo benissimo entrambi che stavo parlando di qualcos’altro,» lo sapevano. Non aveva importanza.

«Cosa stai facendo Arthur?» gli chiese, come se onestamente non riuscisse a capirlo. Arthur non lo sapeva, non ne aveva la minima idea.

«Sto tornando a casa,» disse alla fine. Perché non aveva idea di cosa avesse fatto in quel viaggio, ma era come se gli fosse servito a qualcosa, come se ogni singola città che aveva visitato avesse avuto una ragione, avesse cambiato qualcosa dentro di lui.

Non sapeva cosa, non sapeva perché.

Non sapeva assolutamente nulla ed era qualcosa che lo stava mandando in bestia. Arthur era abituato a sapere sempre tutto, a conoscere ogni minimo dettaglio della vita di chiunque. La conoscenza era potere, dopotutto.

Conoscere qualcosa di qualcuno voleva dire avere qualcosa da usare contro di lui. Voleva dire essere potente. Arthur sapeva tutto di tutti, ma apparentemente non sapeva nulla di se stesso.

Oh, Eames avrebbe adorato tutto questo.

«Arthur...» lo richiamò alla realtà Dom. «Torna davvero a casa, per favore...»

Dom non gli aveva mai parlato così e si chiese cosa avesse fatto per averlo fatto preoccupare così tanto. E poi pensò a Mal, bella bellissima Mal, e a quello che probabilmente era diventata al ritorno dal Limbo.

Quello che Dom l'aveva vista diventare, il modo in cui era andata appassendo davanti ai suoi occhi. Si chiese se Dom pensasse che era questo che stava accadendo ad Arthur.

Probabilmente aveva ragione. Aveva avuto ragione per un po'. Era qualcosa di simile - Arthur sapeva quale era la realtà, sapeva riconoscere il sogno da quello che non lo era (ora, almeno, c'era stato un tempo in cui non ne era stato in grado, in cui i suoi compagni erano zombie ai suoi occhi, in cui qualcuno che respirava sembrava una visione estranea alla realtà). Arthur si era semplicemente perso nella realtà.

Chiuse la telefonata, prese il libro e prenotò un volo. Sì, poteva tornare a casa.

*

Quando arrivò la sua vicina gli disse che c'era un nuovo inquilino nel condominio.

Arthur la guardò e la pregò di non andare avanti. Non sapeva esattamente perché aveva sentito il bisogno di dire una cosa del genere, ma l'aveva fatto e quando aveva visto il nome nella cassetta della posta sapeva di aver fatto bene.

Andò al terzo piano, Arthur abitava al quarto e bussò alla porta del signor Christopher Eccleston.

Eames aprì la porta in boxer e con una maglietta a maniche corte grigie.

«Sto cominciando a percepire un tema con gli ultimi nomi,» lo informò ed Eames ghignò, piegando la testa.

«Stavo pensando di andare con John Barrowman, dopo,» lo informò «dici che è troppo?»

Arthur non pensò di dover rispondere.

«Cosa ci fai qui, Eames?» gli chiese, sentendo qualcosa dentro di lui che si tendeva verso l'altro, così disperato e così affamato. Eccolo lì Eames, davanti a lui. Avrebbe potuto fare un passo, appoggiare una mano sul suo petto e infilare l'altra nei suoi pantaloni.

Eames non l'avrebbe fermato, lo sapeva questo. Lo sapeva fin troppo bene. Lo poteva vedere nel modo in cui era appoggiato allo stipite della porta, nel suo sorriso e nei suoi occhi.

Sarebbe stato così facile. Arthur non lo fece.

«Ho pensato che poteva essere utile avere una casa negli Stati Uniti,» spiegò, come se non sapessero entrambi che Arthur aveva chiesto completamente un'altra cosa. Era complicato parlare con Eames, lo era sempre stato.

Entrambi chiedevano cose quando volevano risposte ad altre domande completamente. Entrambi tendevano a litigare molto e sempre delle cose sbagliate, di quelle che non avevano minimamente importanza.

«Potrei pensare, Signor Eames, che lei sia qui per spiare qualcuno,» gli disse, utilizzando quel nome che era così familiare. Eames sorrise, come quella volta nel secondo livello (Vada a dormire, Signor Eames, gli aveva detto, come se fossero ancora a Zurigo e avessero anni ed anni davanti a loro, come se non si fossero feriti troppo a fondo per poter tornare indietro.)

«Ti sbaglieresti, Arthur,» e poi prese il libro che sporgeva dalla borsa di Arthur. Aspettando Godot. «Io non sono qui per spiare. Non so perché, ma apparentemente sto ancora attendendo Godot.»

Sarebbe stato così facile, ma Arthur non lo fece.

*

Quando tornò a casa - una rampa di scale, Eames era sotto di lui - posò la valigia a terra e si diresse verso il letto. Si mise in piedi davanti al comodino guardando fisso il cassetto, ma non l'aprì. Lo guardò per qualche secondo, accarezzò il legno delicatamente, come se avesse avuto paura di romperlo.

Mal aveva sempre voluto che Arthur finisse con Eames. Quante volte l'aveva preso in giro, dall'altro capo del mondo. due telefoni a collegarli.

Arthur non avrebbe mai dovuto lasciarla andare.

*

A volte Arthur pensava di essere sempre stato innamorato di Mal e Dom. Di essere nato predisposto per amarli.

Nelle storie d'amore, quelle vere, quelle che non erano come questa, non si doveva pensare questo della persona con cui si finiva a letto? Arthur non ne aveva idea.

Arthur non era nato predisposto per amare Eames. Arthur ed Eames non funzionavano assieme. Si scontravano ogni volt che si vedevano, Eames era insopportabile e riusciva a mandarlo in bestia senza alcuna fatica, gli faceva perdere tutta la sua compostezza come se non fosse stato nulla.

Eames era invadente e rumoroso e insopportabile e Arthur non era innamorato di lui. Non era così che si chiamava quel sentimento. Arthur non era mai stato innamorato di lui, nemmeno quando erano a Mombasa, a mare, e si erano baciati per la prima volta ("E' un sogno?" gli aveva chiesto Eames. "Ha importanza?" aveva risposto e no, non ne aveva avuta).

Arthur era innamorato di Mal e dei suoi occhi, delle sue parole, delle sue mani. Era innamorato di Dom e della sua mente, della sua fermezza.

Quello che provava - aveva provato - per Eames era diverso. Era caotico, era sporco, non c'era gentilezza, non c'era altro che fuoco.

(A parte in quelle rare domeniche in cui Eames si addormentava fuori, nel terrazzo ed Arthur rimaneva fermo a guardarlo, ad ammirare i giochi di luce sul suo viso. E non c'era nessun'altro posto in cui Arthur avrebbe voluto essere. Nessun'altro posto se non lì.)

Era difficile con Eames, lo era sempre stato. Apparentemente doveva esserlo, apparentemente c'era una qualche regola che diceva che l'amore vero doveva essere difficile.

Arthur non ci credeva. Quello non era amore, era qualcos'altro.

Andava bene comunque.

*

Dom non gli chiese che cosa ci facesse Eames nel suo stesso palazzo, non gli chiese che cosa stava succedendo tra di loro. Non gli chiese se avevano parlato, non gli chiese nulla.

Lo lasciò parlare, rimanendo in ascolto e poi gli disse.

«Non credo sognerò mai più,» e Arthur l'aveva sempre saputo, ovviamente. Aveva sempre saputo che Dom odiava sognare senza Mal, entrare in quel modo e non poter creare con lei mille universi diversi.

Arthur l'aveva sempre saputo. Non aveva la minima idea del perché fosse così shockato.

«I bambini sono... Dio, Arthur, sono stupendi, sono perfetti...» disse, meravigliato, come se ancora non riuscisse a credere di essere lì con loro, come se ancora non potesse credere di avercela fatta, che era davvero tornato a casa. «E io... io non voglio perdermi nulla della loro vita.»

Arthur poteva capirlo, non era un lavoro facile il loro, non era un lavoro adatto ad un padre di famiglia. Faceva comunque male.

Dom non avrebbe mai più sognato, Mal non c'era più. Che motivo aveva Arthur di prendere il PASSIV?

(Sarebbe affogato e nessuno l'avrebbe salvato. Avrebbe ucciso Charlie e Mal non l'avrebbe fermato. Non c'era più niente nel mondo dei sogni per lui, ma era l'unico mondo che conoscesse).

«Okay,» gli rispose.

Anche se non lo era. Non lo era minimamente.

*

Quella sera Eames bussò alla sua porta con un bicchiere di vino e del take-away.

«Ricordo cosa tu intendi per cucinare, Arthur,» gli disse, entrando senza aspettare di essere invitato, «ti sto facendo un favore.»

Arthur non voleva passare la serata con Eames, non ora, non mentre stava ancora cercando di digerire quello che Dom gli aveva detto qualche ora prima. Ma non sapeva come dire ad Eames di andarsene.

«Non mi ricordo di averti invitato ad entrare,» disse invece, chiudendo la porta ed Eames si voltò, sorridendogli come se Arthur gli avesse appena dato il regalo più bello. Quello che Eames aveva sempre desiderato.

Arthur non lo capiva, ma lo seguì comunque in cucina.

*

Non parlarono di Mombasa, non parlarono di Mal e non parlarono di Dom.

Parlarono di Ariadne, di Barcellona e di Parigi. Parlarono di Zurigo e parlarono di Venezia.

Eames gli parlò del gatto di Yusuf ed Arthur gli raccontò di Philippa e James, e in qualche modo erano passate tre ore ed Arthur si sentiva un poco brillo. Eames era sempre stato molto più bravo di lui a reggere l'alcool.

«Ho una confessione da farti,» gli stava dicendo Eames, facendo ondeggiare il suo bicchiere di vino. Ricordava l'ultima volta in cui si era ubriacato di fronte ad Eames. Ricordava la sensazione di pace, ricordava la domanda di Eames, speranzosa e un poco timida (ed Eames non era mai timido, Eames era sempre sicuro di sé, entrava nella vita delle persone come uno tsunami e travolgeva tutto quello che incontrava).

Ora non c'era più nulla di questo tra di loro, non c'era più quella timida voglia che aveva distinto tutti i loro incontri prima di Mombasa (e tutto il disastro che ne era seguito).

Ora Arthur non riusciva a non guardare le mani di Eames e ricordare come era il loro tocco. Non riusciva a non ricordare il modo in cui Eames gli stringeva i polsi con quelle stesse mani, spingendolo contro il materasso ed entrando dentro di lui, ripetutamente.

Se solo uno dei due avesse fatto un passo si sarebbero ritrovati a fottere sul pavimento prima ancora di rendersene conto. Nessuno si muoveva mai.

«Qual è questa confessione, Eames?» lo spinse, guardandolo con interesse.

«Non ho ancora venduto la casa a Mombasa,» ed Arthur lo sapeva. Lo sapeva perché era stato lui a mandare Dom a prendere Eames. Lo sapeva perché aveva controllato lo stato di quella casa almeno una volta ogni tre mesi negli ultimi anni. Lo sapeva ed Eames doveva sapere che Arthur era a conoscenza di quella confessione.

Cosa pretendeva che gli rispondesse?

E poi Eames aveva alzato gli occhi su di lui e c'era qualcosa di strano nel suo sguardo. Forse aveva sbagliato, forse Eames era più ubriaco di lui, o non gli avrebbe mai permesso di vedere così tanto di lui.

Non erano mai stati così loro, non erano mai stati in grado di aprirsi ed affidarsi l'uno all'altro. Chissà, magari era stato quello uno dei loro errori.

«Perché sei qui, Eames?» gli chiese, per la seconda volta. Eames rise.

«Onestamente? Non ne ho idea, tesoro.»

Non era la risposta che Arthur voleva, ma era probabilmente l’unica che avrebbe mai avuto.

*

Quella sera, Arthur aveva aperto la lettera che Eames gli aveva mandato un mese e mezzo prima. Dentro c'era una lettera, una semplicissima lettera.

L'aprì lentamente, ma c'era scritta solo una singola frase all'interno.

Quanto ancora hai intenzione di farmi aspettare?

Arthur non aveva una risposta a questa domanda.

*

Eames cominciò a portare da mangiare una volta ogni quattro giorni, da quella sera in poi. A volte erano take-away, a volte erano cose cucinate da lui.

Arthur avrebbe potuto prendere il bavero della sua maglia e baciarlo, ogni singola volta. Eames gliel'avrebbe permesso. Eames non aspettava altro.

Arthur non lo fece.

*

«Cosa vuoi da me, tesoro?» gli stava chiedendo Eames. Ma non era il vero Eames, non era l'Eames che lui aveva lasciato indietro, non era quello che continuava a portargli da mangiare ogni giorno.

Era l'Eames che esisteva solo dentro i suoi ricordi, quello che risplendeva della luce di Mombasa e che non lo guardava come se Arthur fosse l'unica cosa che voleva e che non avrebbe mai potuto avere.

Glielo stava chiedendo mentre spingeva dentro di lui con forza, mentre gli mordeva il collo e poi l'orecchio. I suoi denti torturavano la sua pelle con minuzia, esplorando ogni singolo centimetro del suo collo. Arthur passò le mani su uno dei suoi tatuaggi ed Eames spinse e spinse.

L'erezione di Arthur era intrappolata tra i loro corpi, la sua gamba sinistra sulla spalla di Eames ed Arthur non riusciva a pensare. Arthur non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi abbastanza a lungo da ammirare il modo in cui i loro corpi continuassero ad unirsi.

Eames andava un po' troppo veloce, un poco troppo forte ed Arthur ne voleva di più, sempre di più. Non era abbastanza, non poteva esserlo.

Eames affondò completamente dentro di lui ed Arthur gemette per il dolore - non avrebbe dovuto fare così male, ma lo fece comunque - e per il piacere. Eames si tirò indietro ed entrò ancora.

Arthur non riusciva a respirare. Si sentiva vivo.

«Cosa vuoi, tesoro?»

Non lo sapeva. Voleva Eames, ma non lo voleva allo stesso tempo. Voleva la sua bocca su di lui, voleva sentirsi così, esattamente come si sentiva in quel momento: vivo. Incredibilmente vivo.

E allo stesso tempo lo temeva più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Era un sogno, lo sapeva, nonostante non avesse sognato in anni, nonostante l'ultimo sogno che avesse avuto fosse stato a Mombasa, con la sfera e l'acqua che se ne andava dalle sue mani.

«Più forte,» gli disse, ed Eames l'accontentò. Spinse e gli cinse i polsi sopra la testa, sbattendoli contro la testata del letto.

«Più forte, tesoro?» chiese, «Arthur?» e disse il suo nome come se fosse qualcosa di sporco, qualcosa che aveva cercato a lungo e finalmente aveva trovato. Qualcosa che odiava, qualcosa che amava.

«Ti romperai, Arthur,» gli disse, ma Arthur gemette per il dolore che ogni spinta gli portava, per il morso che Eames gli aveva lasciato sul braccio.

Ed Arthur pensò che era già rotto. Che non aveva realmente importanza.

*

Quando Arthur si svegliò aveva il respiro accelerato e la sua erezione pulsava dolorosamente nei suoi pantaloni.

Si era addormentato sul divano, mentre guardava un programma televisivo che Eames gli aveva consigliato tre giorni prima. Poteva ancora ricordare il dolore che aveva provato mentre Eames entrava dentro di lui, il modo in cui l'aveva morso, come se volesse fargli male e marchiarlo allo stesso tempo.

Chiuse gli occhi e respirò.

*

Il suo dado non avrebbe mai segnato nessun'altro numero che quattro, lo sapeva. Lo sapeva ma non riusciva a smettere di tirarlo.

Pensò a Charlie. Pensò a Max. Pensò a Mal.

Pensò a tutte quelle persone che erano scomparse dalla sua vita e non sarebbero tornate mai più. Pensò ad Aspettando Godot.

Si alzò dal divano.

*

Quando entrò in camera da letto per un attimo si fermò sulla soglia. Cosa stava facendo? Cosa pensava di fare? Non lo sapeva. Non ne aveva la minima idea.

C'era un motivo se Arthur non aveva aperto quel cassetto, c'era un motivo se non aveva mai aperto quel maledettissimo cassetto. Pensò a Mal, viva e felice, che gli accarezzava la guancia, che lo chiamava tesoro (in maniera completamente diversa da come lo faceva Eames, con così tanta dolcezza che a volte Arthur cercava di ricordarselo ancora oggi, senza riuscirci mai).

Era strano come nessuno dei ricordi di Mal come ombra fosse rimasto nella sua mente. Quella non era stata Mal, non era mai stata Mal. Quella era la parte di Dom che era nata quando Mal era morta, il senso di colpa schiacciante che non era mai riuscito a levarsi.

Non era Mal. Mal profumava di aranci, profumava di gelsomino. Mal rideva mentre ballava e creava mondi che nessun'altro avrebbe mai potuto attraversare senza innamorarsene. Mal era un pianeta a sé stante e Arthur l'aveva amata totalmente.

Era arrivato il momento di lasciarla andare. Girò la chiave.

Part 2

character: dom cobb, character: eames, character: ariadne, character: yusuf, fandom: inception, paring: arthur/eames, character: arthur (inception), *reality, !fanfiction

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