Inception; Arthur/Eames; (Won't let you get away) If we ever meet again 2/2

Sep 08, 2011 22:16

Erano le quattro e mezza di notte ed Eames stava probabilmente dormendo.

Arthur entrò senza bussare - aveva una copia delle chiavi di casa di Eames dal giorno dopo il suo rientro, non era certo che Eames lo sapesse.

Paradossalmente, per tutte le volte che Eames era entrato nel suo appartamento era solo la terza volta che Arthur vedeva il suo.

La prima volta che l’aveva visto non era nemmeno entrato, ma erano rimasti a parlare sulla porta, la seconda volta era rimasto solamente in cucina. La terza era questa.

Effettivamente era strano, Arthur non ci aveva pensato fino a quel momento. E poi era entrato in salotto.

Oh. Ora si spiegavano molte cose.

«Non lo sai che è pericoloso entrare così a casa delle altre persone?» gli arrivò una voce alle spalle. Eames, ovviamente, Arthur nemmeno si voltò, «specialmente delle persone che dormono con una pistola sotto il cuscino - e sai che lo faccio, tesoro.»

Arthur non spostò lo sguardo da quello che stava guardando.

«Che ci fai qui, Arthur?» chiese Eames, aggrottando le sopracciglia. Sembrava esasperato, come se non sapesse più cosa doveva fare. Non era un tono di voce che gli donava, rendeva la sua voce strana.

La voce di Eames che era fluida, che scivolava sulla sua pelle come seta. C’erano tante cose che Arthur odiava di Eames, ma la sua voce non era mai stata tra quelle.

«Hai portato qui il divano…» disse, piano.

Non sapeva che pensare di questa cosa, davvero. Non aveva la minima idea di cosa doveva pensare di una cosa del genere.

Non poteva vedere Eames, non sapeva che faccia stesse facendo. Era lo stesso maledettissimo divano, Eames non l’aveva nemmeno fatto rifoderare come Arthur gli aveva detto di fare mille volte (e perché mai avrebbe dovuto farlo? Non abitavano più assieme, no? Arthur se n’era andato).

«Ho portato qui tante cose, Arthur,» fu la risposta di Eames. E finalmente Arthur si voltò verso di lui.

Eames dormiva solamente con i boxer, senza nulla a volte - Arthur ricordava com’era svegliarsi con la sua erezione premuta contro un fianco - e ora Arthur poteva vedere il suo petto, i suoi tatuaggi - gli stessi che aveva sognato prima - e quello che portava al collo.

Fu quello più che la pelle di Eames, i suoi muscoli, i suoi tatuaggi o la sua bocca a far bloccare Arthur. E improvvisamente la distanza che li separava era troppa, improvvisamente Arthur non poteva stare fermo.

Si avvicinò lentamente, alzando la mano e accarezzando la medaglietta che non vedeva da anni, quella stessa medaglietta che l’aveva accompagnato mentre costruiva Arthur.

Si chiese se Eames avesse mai compreso che non gli aveva lasciato solo il suo totem, ma anche l’unica cosa che lo ricollegava alla vita che aveva prima che Mal gli desse il nome che portava ora.

Probabilmente no, non gli aveva mai raccontato di quell’episodio, dopotutto.

Sfiorò l’incisione sul retro, il quattro con una stanghetta più profonda ed era come tornare a casa, era come ritrovare una parte di sé che aveva lasciato su quel letto a Mombasa.

«Perché lo lasciasti lì quel giorno, Arthur?» chiese Eames, ma non si era mosso, non si era mosso per sfiorargli un fianco, non aveva cercato di chiudere la distanza tra loro.

Arthur si chiese per quanto tempo Eames avrebbe continuato ad aspettare.

Alzò lo sguardo, rendendosi conto che erano ancora più vicini di quanto credesse, che ad Arthur sarebbe bastato sporgersi un poco in avanti, solo pochi centimetri. Il respiro di Eames era caldo contro il suo viso.

Arthur si chiese per quanto tempo avrebbero aspettato entrambi un qualcosa che non sarebbe mai arrivata.

Strinse le medagliette con la mano, abbastanza forte da sentire uno degli spigoli che gli penetrava leggermente la pelle, non abbastanza da perforare, ma abbastanza da fare male.

E poi infilò l’altra mano in tasca e prese il piccolo dado rosso, il suo peso familiare nella sua mano. Eames lo guardò sorpreso.

«Quello che cade nel quattro, vero? Ovviamente ce l’avevi tu…» e sporse la mano in avanti per prenderlo. Era il suo totem, quello di cui nessun’altro avrebbe mai dovuto conoscere la consistenza.

Arthur non era come Eames, lui aveva bisogno di quel piccolo oggettino, ne aveva bisogno ogni giorno. Ne aveva bisogno ogni volta che si sentiva un poco troppo vivo, come se avesse paura di essere morto e di non essersene reso conto. Nessuno avrebbe mai dovuto toccarlo, ma Eames ne conosceva già la consistenza, l’aveva già avuto tra le sue mani mille e mille volte ancora.

Glielo lasciò sfiorare, ma non prendere. Lasciò che Eames tracciasse i quattro buchi bianchi.

«Sei un maledetto bastardo, lo sai?» ma Eames stava ridendo leggermente ora ed Arthur non riusciva a sentire più quel senso di mancanza che lo aveva seguito negli ultimi mesi.

Non c’era nulla di sistemato tra di loro. Arthur se n’era andato ed Eames era rimasto ad aspettare ed Arthur non era mai tornato.

«Pensavo l’avessi già realizzato, Eames,» gli disse, perché Arthur l’aveva capito tanto tanto tempo prima. E poi finalmente Eames gli aveva afferrato il braccio ed aveva appoggiato la fronte sulla sua spalla.

«Vieni a letto,» gli disse, direttamente sulla sua pelle «non riesco ancora a dormire bene quando non ci sei.»
Arthur lo seguì.

*

Chissà, magari in qualsiasi altra storia questo sarebbe stato il punto in cui avrebbero fatto sesso. Questo o la mattina dopo.

Non era successo quella sera né la mattina dopo.

Quando Arthur si era svegliato, Eames era già in cucina che preparava la colazione.

«Buongiorno,» gli aveva detto, dandogli una tazza di caffè.

«Hn,» aveva mugugnato Arthur, sedendosi al tavolo.

E questo era stato tutto.

*

«Quindi fammi capire,» disse lentamente Dom. Erano andati a trovarlo perché… Arthur non sapeva esattamente perché. Eames era riuscito a convincerlo che evidentemente Dom doveva sentire la sua mancanza e che i bambini sarebbero stati deliziati di vedere il loro zio Arthur «tu ed Eames vivete insieme…»

«Non…» cominciò Arthur e Dom gli lanciò un’occhiataccia.

«Quando è stata l’ultima volta che hai dormito nel tuo appartamento, Arthur? » quando Arthur non rispose, Dom si limitò ad alzare un sopracciglio. Arthur concesse il punto.

«Quindi, stavo dicendo, vivete insieme. Dormite nello stesso letto, lui ti fa la colazione ogni mattina, tu fai la spesa - sì, lo so, Eames non è in grado di limitarsi a comprare quello che è necessario per il sostentamento di due persone e comincia a comprare milioni di cose, concentrati Arthur - pulisci - Arthur, concentrati sulla discussione - e in tutto questo non fate nemmeno sesso?» concluse, incredulo.

In sostanza sì, era così.

Erano passate due settimane da quella sera e sebbene si andassero a coricare nello stesso letto e passassero tutta la giornata assieme non si erano mai nemmeno sfiorati.

«Solitamente si aspettano almeno tre anni di matrimonio prima di cominciare con la scusa del mal di testa…» disse Dom, divertito. Arthur non era certo di cosa stesse succedendo tra di loro, non era certo di nulla.

Sapeva solo che Mombasa era ancora dentro di loro, che c’era un qualcosa che non permetteva a nessuno dei due di fare il passo decisivo. Danzavano l’uno intorno all’altro come se fossero spaventati di distruggere qualcosa.

«Quanto credi possa andare avanti questa situazione, Arthur?» gli chiese Dom, guardandolo «Non sei stupido, sai che non potete continuare. Non con la vostra storia, non… non voi due.»

«Non durerà a lungo,» si limitò a rispondere Arthur, aspettando che Dom capisse.

«Ovviamente non durerà a lungo, siete tu ed Eames, siete…» e poi si fermò, lo guardò intensamente (lo sguardo da estrattore, quello che utilizzava prima di entrare nella mente di qualcuno e rubare tutti i suoi segreti) «ma tu lo dicevi perché hai un piano.»

Arthur si sentiva mediamente offeso. «Quando mai non ho avuto un piano, Dom?» e Dom rise.

«Sei un bastardo, Arthur.»

Non capiva come fosse possibile che tutti tranne lui se ne stessero accorgendo solo ora.

*

Eames stava leggendo il giornale, Arthur stava lavorando al suo portatile (non sapeva se era ancora pronto a lavorare con qualcuno che non fosse Dom, ma non faceva male comunque rimanere informati. Dopotutto era il suo lavoro).

«Vuoi venire con me a Mombasa?» aveva chiesto improvvisamente Arthur, senza nemmeno alzare gli occhi dal computer.

Eames non rispose immediatamente, infatti rimase in silenzio per quasi trenta secondi prima che Arthur alzasse lo sguardo e arcuasse un sopracciglio.

«Cosa c’è a Mombasa?» chiese Eames ed Arthur poteva giocare a questo gioco.

«Ho sentito dire, una volta, che c’è un bel mare…» ed Arthur non era ubriaco quella volta. Eames lo guardò e poi sorrise.

«Pensavo non me l’avresti mai chiesto,» rispose alla fine.

Arthur annuì, non doveva davvero essere più difficile di così.

*

Era Aprile e Mombasa era calda come se fosse stato agosto.

Yusuf era andato a prenderli in aeroporto ed Arthur era rimasto a guardare mentre Eames e Yusuf cominciavano a parlare come vecchi amici che non si vedevano da anni.

Lui si era lasciato prendere dall’odore e il vento e i colori e il suono.

«Per quanto resterete?» chiese Yusuf, guardando prima Eames e poi Arthur. Chissà quanto sapeva il buon Yusuf, cosa gli aveva detto Eames, quando era fermo ad aspettare Arthur.

Aspettare Godot, giusto.

«Non lo so,» disse Eames, sghignazzando «è stato Arthur ad organizzare il viaggio,» i loro sguardi si incrociarono nello specchietto retrovisore ed Arthur poteva quasi vedere il cambiamento di Eames.
Si chiese cosa fosse di Mombasa che trasformava Eames così tanto.

«A tempo indeterminato,» disse alla fine. Yusuf sorrise.

«Allora dovete venire a mangiare da me, qualche volta! Devo farti conoscere il mio gatto, Arthur, credo andreste particolarmente d’accordo,» disse ed Eames rise così forte da rischiare quasi di soffocare.

Era una bella città Mombasa.

*

La prima volta che Dom l’aveva chiamato mentre era lì, Arthur era stato quasi tentato di non rispondere.

Mal è morta, era l’unica cosa che riusciva a sentire.

Chiuse gli occhi e si disse di smetterla di fare il bambino.

Dom gli raccontò di come Philippa avesse costruito un palazzo praticamente perfetto con le costruzioni ed Arthur si lasciò cullare dal suono della sua voce.

*

La spiaggia in cui lui ed Eames andavano normalmente era piena di turisti ed Arthur aveva arcuato un sopracciglio quando Eames gli aveva proposto di andarci comunque.

«Oh, andiamo tesoro, ho bisogno di farmi un bagno!» c’era caldo, troppo caldo effettivamente, ma Arthur non aveva alcuna voglia di mischiarsi alla calca di persone ammassate lì.

Eames sbuffò e ci andò da solo, Arthur prese una cartina e trovò una piccola caletta che, la signora del mercato gli aveva assicurato, era poco frequentata e l’aveva passata ad Eames quella sera.

Eames aveva annuito, infilandosi in bocca una forchettata di carne e poi gli aveva sorriso.

«È perfetta,» aveva detto.

«Ovviamente,» era stata la sua risposta.

*

Arthur si era innamorato della casa immediatamente. Dei colori caldi delle pareti, del copriletto che aveva cucito la loro vicina di casa. Si era innamorato del terrazzino, del cortiletto e del modo in cui, alle sei, la casa si colorasse di arancione.

Si era innamorato del mercato, delle persone che vivevano lì. Si era innamorato di Mombasa alla stessa velocità della prima volta che ci aveva messo piede.

Non sapeva cosa ci fosse in quella città che l’attirava così tanto; non era il caldo - certamente non era il caldo - o il caos delle strade durante le ore di punta.

Semplicemente era Mombasa. In qualche modo era abbastanza.

*

Qualche volta Eames usciva per andare a parlare con Yusuf. Lo invitava sempre, ma Arthur rifiutava la maggior parte del tempo.

Non era perché non voleva parlare con Yusuf o qualche altra cosa del genere, ma a volte aveva bisogno di stare un poco lontano da Eames.

Eames che non era ancora in grado di buttare i cartoni vuoti, che sporcava con la stessa facilità con cui riusciva a cambiare faccia nei sogni. Eames che rideva, che lo costringeva a fare cose assurde come tuffarsi da un maledetto scoglio - ed Arthur non aveva più dodici anni, maledizione.

Eames che non faceva mai una mossa, che non chiedeva mai nulla ed Arthur non era stupido - Arthur era un maledetto genio - e sapeva che Eames sarebbe stato anche tutta la vita a guardarlo, aspettando che Arthur facesse la prima mossa.

A volte aveva bisogno di stare da solo, di perdersi nel silenzio della loro casa a Mombasa (e da quando era diventata loro? Arthur se n’era andato).

Una di queste volte si era addormentato sul divano - non il loro divano, un altro divano - ed Eames, invece di svegliarlo, l’aveva lasciato dormire lì. Arthur però si era svegliato ad un certo punto, quando aveva sentito una mano sfiorargli la tempia.

Non aveva aperto gli occhi, non era abbastanza sveglio per farlo, ma si era goduto le dita di Eames nei suoi capelli.

«Cosa stai aspettando, Arthur?» aveva mormorato, piano. Arthur non avrebbe dovuto sentire quella frase.

L’aveva fatto comunque.

*

Tra tutti i momenti, tra tutti i giorni, tra tutti gli istanti in cui Arthur avrebbe potuto realizzare cosa stava aspettando, cosa aveva aspettato per tutta la sua vita, non pensava sarebbe stato davanti ad una tazza di caffè nel tavolino esterno della loro casa.

Arthur era sempre stato uno a cui le epifanie venivano mentre lavorava, mentre la sua mente era occupata a ricercare mille possibili collegamenti che non sarebbero dovuti esistere ma c’erano e lui doveva trovarli.

In realtà era stato tutto a causa di una tazza di caffè. Era un po’ troppo da film per i suoi gusti, ma per quanto Arthur aveva cercato per anni di convincere tutto il mondo, non era in completo controllo di tutta la sua esistenza.

Aveva preso la tazza, aveva salutato Eames che era andato per una specie di corsa mattutina (come se Arthur non sapesse che in realtà andava solo in paese a giocare un poco al bar) e improvvisamente tutto aveva avuto senso.

La mente di Arthur aveva vagato ed era passata da Mombasa a Zurigo a Parigi a Mal a Dom, era stato come se non potesse più fermarsi, ora che aveva cominciato.

Arthur strinse la tazza di caffè tra le mani e si lasciò trasportare, chiudendo gli occhi.

«Arthur?» li riaprì, guardando Eames - che lo fissava come se Arthur non stesse esattamente troppo bene -
e poi la tazza che c’era tra le sue mani - che era diventata fredda, nel frattempo.

«Quanto tempo è passato?» chiese lentamente ed Eames aggrottò le sopracciglia.

«Io sono uscito due ore fa, tesoro,» e poi si bloccò e lo guardò un attimo «sei sicuro di stare bene?»
Arthur lo guardò. Guardò la sua maledettissima camicia arancione a fiori gialli, guardò i suoi pantaloni che arrivavano poco sotto il ginocchio bianchi e il modo in cui si potesse vedere quel suo tatuaggio da sotto le maniche corte. Guardò la barba di una giornata che Eames non si era ancora rasato e la sua bocca, leggermente aperta.

Epifanie, giusto.

Si alzò in piedi, poggiando la tazza e decidendo che quella sarebbe stata la sua tazza d’ora in avanti e poi spinse Eames contro il muro.

«Uh,» fu l’eloquente risposta di Eames. Arthur lo guardò e alzò un sopracciglio.

«Apparentemente stavo aspettando del caffè freddo.»

*

«Non che mi stia lamentando - perché da qui? Nessuna lamentela, assolutamente nessuna - ma cosa ha spinto questo cambiamento?» chiese Eames, mentre Arthur lo spingeva verso la camera da letto.

Si fermavano ogni superficie piatta disponibile per baciarsi ed Eames era già a torso nudo, mentre i pantaloni di Arthur erano leggermente aperti.

Arthur baciò Eames, appoggiando la schiena contro la porta della camera da letto ed utilizzando la sua mano libera per aprire la porta.

Eames lo spinse contro il letto, scendendogli a baciare il collo e cercando di sbottonare la camicia di lino che Arthur si era messo quella mattina.

Arthur rivoltò le loro posizioni, spingendo Eames sul letto e togliendosi la camicia velocemente.

«Credi davvero che questo sia il momento giusto per parlare, Eames?» gli chiese, mentre scendeva a leccargli un capezzolo. Eames emise un gemito e portò una delle sue mani contro la nuca di Arthur, giocando con i suoi capelli.

«No, okay. Mi zittisco,» annunciò ed Arthur fece un suono che era un evidente segno di approvazione. Eames invertì velocemente le loro posizioni, di nuovo, spingendolo contro il materasso e baciandolo a fondo, lasciando che le sue mani vagassero sul petto di Arthur, percorressero ogni singolo centimetro di pelle.

Era come aveva sognato ormai quasi un mese prima, ma era anche completamente diverso. Eames si portò un poco indietro e c’era un poco di luce che entrava dalla finestra, che filtrava dalle tende. Le sue medagliette risplendevano di arancione - ed era un colore così strano su di loro, Arthur si aspettava sempre che fossero rosse - ed Eames era lì.

Eames era lì, sopra di lui, e lo guardava come se non fosse esattamente certo che Arthur fosse davvero lì.

Si erano fermati, ora, con Eames che lo guardava ed Arthur che non poteva fare a meno di rimanere fermo e sentire. Sentire il respiro caldo di Eames, sentire il peso del suo corpo, la sua erezione che sbatteva contro la sua coscia.

Alzò le mani e le passò nei capelli di Eames, portandoli un poco indietro. Gli erano cresciuti in quei mesi, probabilmente avrebbe dovuto portarlo a farli tagliare (sentitelo, stava già ricominciando a parlare di Eames come se fosse il suo cane) ma per ora poteva affondarci le mani liberamente.

Non si mossero per quelli che ad Arthur sembrarono ore intere e poi Eames aveva appoggiato la fronte contro la sua e l’aveva spinto ad alzare il bacino mentre rimuoveva i suoi pantaloni.

L’aveva fatto lentamente, come se si stesse godendo il momento. Arthur l’aveva lasciato fare chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare dal suo respiro.

Eames era caldo sotto il suo tocco, era andato in palestra ultimamente ed Arthur gli sfiorò il bicipite, il petto, i fianchi, lo stomaco.

«Cosa stai facendo, tesoro?» chiese Eames, a bassa voce. Arthur non ne era esattamente certo.

«Togliti i pantaloni,» lo istruì ed Eames rise leggermente. I suoi occhi stavano risplendendo di divertimento e di eccitazione ed Arthur ricordava questo sguardo.

Lo ricordava dalla prima volta che avevano fatto sesso sul divano, da quando si erano baciati in mezzo al mare.

Eames obbedì velocemente, rimanendo semplicemente in boxer e Arthur li guardò, arricciando il naso per il disgusto. L’altro rise e rise.

«Dio, ne vale la pena ogni singola volta, semplicemente per vedere quella faccia,» disse, scendendo a baciargli il collo.

«Spero che ne valga davvero la pena, perché temo di stare rivalutando la mia decisione di fare sesso con te, Eames,» lo informò, ma sapevano entrambi che non c’era nessuna verità nelle sue parole (non che Arthur non passò immediatamente ad abbassargli i suddetti boxer per rimuoverli dalla sua vista: il viola e il giallo erano colori che mai avrebbero dovuto coprire l’uccello di qualcuno, davvero).

I suoi boxer seguirono poco dopo, quando Eames si abbassò per toglierglieli con i denti, fallendo miseramente, tanto che Arthur aveva avuto pietà di lui ad un certo tempo e l’aveva aiutato con le mani.

«Giuro che prima mi veniva,» borbottò Eames, evidentemente contrariato.

Ad Arthur non importava che non riuscisse a togliergli i boxer con i denti - era una qualità assolutamente inutile da possedere - ma quando Eames metteva il broncio si rischiava di stare lì a discutere per ore e la sua erezione pulsante non aveva ore.

«Sarai semplicemente fuori allenamento,» gli disse quindi, circondandogli la vita con le gambe e guardandolo come per ricordargli che non erano i suoi maledetti denti il problema.

Eames si spinse in avanti, lasciando che le loro erezione si sfiorassero. «Poco allenamento, ecco,» disse Eames, abbassandosi a sfregare il naso contro la sua mascella. «Tutta colpa di un maledetto bastardo che non si decideva a fare qualcosa…»

«Se ti muovi è anche possibile che il bastardo ti lasci fare un altro poco di allenamento in un prossimo futuro. Ora come ora le tue possibilità stanno diminuendo,» lo informò Arthur ed Eames rise, sporgendosi e prendendo il lubrificante.

«Siamo impazienti?» e no, a dire il vero Arthur non lo era particolarmente. Questo che stavano facendo, questa strana forma di relazione che era a metà tra le loro solite prese in giro e qualcos’altro era esattamente quello che voleva. Era esattamente quello di cui aveva bisogno.

Non era certo che Eames la pensasse allo stesso modo e non era importante.

Poi l’altro aveva cominciato a penetrarlo con due dita - non una, ed Arthur gliel’avrebbe fatta pagare per questo - ed Arthur non era stato più in grado di riflettere.

Arthur si era spinto contro le sue dita, cercando di spingerlo più a fondo, godendosi quel misto di fastidio e piacere che l’aveva colto.

Eames stava blaterando qualcosa che probabilmente avrebbe fatto venire voglia ad Arthur di prenderlo a pugni, quindi cercò di tenere lontano quello che stava dicendo (ma non il suono della sua voce, non i toni caldi e rauchi che, Arthur non l’avrebbe mai ammesso, lo mandavano in visibilio. A volte pensava che Eames fosse stato una pornostar prima di diventare un falsario, avrebbe avuto senso.)

Presto Eames inserì un terzo dito, ma Arthur ora aveva voglia di averlo dentro di sé, aveva voglia di sentire i muscoli del suo fondo schiena che si contraevano mentre spingeva dentro di lui, aveva voglia di vedergli perdere la testa.

Quindi baciò Eames, a fondo, e gli sussurrò «Piantala e muoviti,» che probabilmente era uscito molto meno imperioso di quanto Arthur l’aveva programmato.

Ad Eames non sembrava importare.

Si era preparato velocemente, mettendosi il preservativo così velocemente che Arthur quasi si era perso il movimento.

Era scivolato in lui senza complimenti, spingendo come se la sua vita dipendesse da questo. Arthur aveva lasciato cadere la testa all’indietro, cercando di abituarsi alla presenza dell’altro dentro di lui. Eames era sempre stato bravo a compire i punti dentro di lui che l’avrebbero fatto impazzire (ed Arthur lo diceva in tutti i sensi possibili) quindi non si sorprese quando Eames fu in grado di colpire la sua prostata solo dopo due spinte, allineandosi perfettamente.

«Arthur, Arthur,» e in qualche modo ripeteva il suo nome come se fosse una specie di preghiera. Come se fosse più intimo di tutti i tesoro che gli diceva ogni giorno.

Arthur si aggrappò alla sua schiena, poggiando il viso nell’incavo delle sue spalle, ispirando l’odore di Eames, così tipico di lui.

La mano di Eames era scesa sull’erezione di Arthur, massaggiando la punta e poi accarezzando la sua intera lunghezza. «Arthur,» aveva ripetuto e lui non era stato in grado di dire nulla, ma probabilmente, se avesse potuto, avrebbe detto Eames, Eames, Eames e l’avrebbe ripetuto fino a che la sua gola non fosse stata secca e la sua lingua consumata.

Era stato Arthur a venire per primo, sporcando la mano di Eames, e gemendo mentre l’altro continuava a spingere dentro di lui, senza rallentare, senza fermarsi.

Prima di venire a sua volta Eames si abbassò, mordendogli il collo e cominciando a succhiare dove poco prima aveva affondato i denti.

Ad Arthur non piacevano i succhiotti, non gli piaceva essere marchiato da qualcuno, ma guardò la medaglietta che penzolava dal collo di Eames e lo lasciò fare.

Eames venne poco dopo, spingendo dentro di lui un’ultima volta e mugugnando il suo nome direttamente sulla sua pelle.

Rimasero per qualche secondo così, ansimanti e sudati, sporchi di sperma e incredibilmente appagati. Poi Eames rise, scivolando fuori da lui e sdraiandosi accanto a lui.

«Dio,» mormorò, poggiando una mano sullo stomaco di Arthur - come se non riuscisse a smettere di toccarlo, come se il pensiero di allontanarsi, ora, gli fosse insopportabile. Arthur aveva sempre sostenuto che, segretamente, Eames era una ragazzina di quattordici anni.

«Mi darai una spiegazione, tesoro?» chiese poi, improvvisamente.

Arthur non rispose.

*

Eames si era immediatamente addormentato, ma Arthur era rimasto sveglio a guardare il soffitto. Eames sembrava una fornace accanto a lui e il caldo di Mombasa era a dir poco opprimente.

Arthur pensò a Zurigo, pensò a Barcellona, pensò a Parigi, e poi smise di pensare.

Era stata la decisione migliore di tutta la sua vita.

*

Quando Arthur si era svegliato, Eames era seduto fuori in boxer, il giornale tra le mani.

«Oh, guarda chi si è svegliato,» gli disse e lo guardò come se volesse alzarsi e cingerli le vita, come se volesse baciarlo e riportarlo in camera da letto e non lasciarlo più alzare.

Arthur guardò fuori. Erano le sei di pomeriggio e il sole non sarebbe stato ancora alto per molto tempo. Voleva sentire il vento tra i capelli però, Arthur, voleva andare nella loro spiaggia o nella caletta o da qualche altra parte.

«Prendiamo la macchina,» disse quindi. Non avevano una macchina, a dire il vero, ma Yusuf aveva detto loro che avrebbero potuto prendere la sua quando volevano.

Eames arcuò un sopracciglio e lo guardò.

«Dove vuoi andare?»

Arthur pensò a Zurigo, pensò a Barcellona, pensò a Los Angeles e pensò a Parigi. Nessuno di loro era più di alcuna attrattiva.

«A fare un giro,» rispose ed Eames annuì.

«Okay,» gli disse.

«Okay,» ripetè Arthur.

*

Avevano lasciato la macchina poco più in là, Arthur poteva vederla sul ciglio della strada. Eames però aveva preso la mano di Arthur e aveva cominciato a camminare.

Non era la caletta che aveva trovato Arthur e non era la loro spiaggia. Poteva vedere il mare, ma Arthur non si sarebbe mai fatto il bagno in un posto del genere.

«E infatti non ci butteremo,» gli aveva detto Eames, ridendo «ma possiamo guardare il tramonto così, no?»
Arthur aveva alzato le spalle ed Eames aveva continuato a trascinarlo. Si erano seduti su una roccia grande, che dava su una specie di burrone.

«Quando è morta Mal,» aveva detto Arthur, senza guardare Eames, «sono corso da Dom. C’era Dom di cui prendersi cura e poi Philippa e James e Miles era così arrabbiato, sai? E poi dovevo assicurarmi che Dom non facesse nulla di completamente pazzo. E poi c’era Mal e…»

Ricordava la prima volta che aveva visto l’ombra che Dom portava dentro di sé, quando Mal gli si era avvicinata e sembrava così tanto lei. Arthur aveva lasciato che gli toccasse il viso, che passasse le sue dita tra i suoi capelli - perché era Mal e Mal poteva fare quello che voleva.

Profumava come Mal, il suo tocco era uguale a quello di Mal e la sua voce era la stessa, ma questa Mal aveva gli occhi vuoti. Erano vuoti come il buco che aveva lasciato dentro Dom, quello che stava cercando disperatamente di colmare.

«Non ho mai avuto tempo per…» si bloccò. Non continuò. «Mal è stata la persona più importante per me, Eames. Mal e Dom, loro…»

«Ti hanno preso e ti hanno trasformato in un bambino vero,» disse Eames, ridacchiando. Arthur ci pensò un momento.

«No, no. Non mi hanno reso un bambino vero, mi hanno fatto diventare un altro bambino, però,» erano stati più Geppetto che la Fata Madrina (ed Arthur dava la colpa di quella metafora ai piccoli Cobb e alla loro fissazione per i film Disney). L’avevano creato dal blocco di legno marcio che era arrivato loro.

Quando l’avevano trovato Arthur faceva parte di un albero morto che aveva perso tutte le foglie e i cui rami si piegavano in posizioni innaturali. Un albero che non avrebbe mai fatto nulla se non marcire, i cui rami si sarebbero spezzati a poco a poco.

E invece loro l’avevano preso ed Arthur non avrebbe mai smesso di essere grato per questo.

«Arthur…» disse Eames, che sembrava mediamente divertito e anche un poco triste «questi mesi… questo eri tu mentre cercavi di metabolizzare la morte di Mal? »

«Ad anni di distanza ma sì,» confermò, perché non era Eames quello che aveva ricercato in mezzo al mondo - non era solo Eames, almeno. Aveva cercato Mal dietro il sorriso di ogni donna, dietro i palazzi di Zurigo e Barcellona e Parigi. Mal non era da nessuna parte però.

Eames non disse nulla, circondandogli la vita con un braccio - come si era trattenuto dal fare quella mattina - e spingendoselo addosso. Arthur lo lasciò fare.

«Se Dom chiamasse ora, dicendoti che è un’emergenza e devi correre da lui…» gli chiese Eames dopo un poco ed Arthur sapeva che avrebbero dovuto parlare anche di quello. Quindi chiuse gli occhi e rispose.

«Sì, andrei immediatamente,» rispose, per Dom veniva comunque prima di tutto, perché Arthur aveva giurato, tanto tempo prima, che avrebbe dedicato la sua vita alle due persone che gli avevano regalato la sua.

Eames rise, passandosi una mano tra i capelli. «Wow, potevi almeno fare finta di pensarci,» mormorò, ma Arthur non aveva ancora finito.

«Questa volta, però, tu potresti venire con me,» gli disse, voltandosi ad osservare la faccia di Eames.

Eames lo stava guardando come se non fosse sicuro che Arthur stesse dicendo sul serio, come se avesse sentito male. Arthur non poteva prometterlo di metterlo prima di Dom, non poteva dargli quello che voleva.

Arthur era stato programmato per amare Mal e Dom, ma avrebbe potuto amare Eames lo stesso. Probabilmente aveva già cominciato.

«Non riuscirò mai a vincere con te, non è vero?» chiese alla fine Eames, rassegnato, ma era più rilassato e gli aveva lasciato un bacio sul collo.

«Mi delude, Signor Eames, pensavo l’avesse capito anni ed anni fa.»

*

Eames si svegliava sempre troppo presto e mentre prima si limitava ad alzarsi per andare a preparare la colazione, ora insisteva nello svegliare Arthur (non che Arthur potesse sempre lamentarsi, specialmente in quei giorni in cui si svegliava con la bocca di Eames chiusa intorno al suo membro ed Eames che succhiava come un maledetto professionista).

Eames continuava a lasciare le scatole vuote per casa, i suoi calzini sporchi in giro. Non aveva la minima idea di cosa volessero dire le parole mettere a posto e riordinare e pulire.

Continuava ad appiccicarsi ad Arthur quando era sudato e puzzava più di un maledetto caprone, ridendo e bisbigliandogli all’orecchio tutte le cose che avrebbe voluto fargli (inutile a dirsi, solitamente finivano in camera da letto o sulla prima superficie disponibile).

Barava anche quando giocavano solo tra loro e non aveva alcuna vergogna. Si vestiva con indumenti che erano un insulto agli occhi di Arthur e si rifiutava di lasciarglieli bruciare.

Eames era caos fatto persona, era una boccata d’aria dopo essere morto, era l’essere più vitale che Arthur conoscesse. Eames era una scarica d’adrenalina, era tutto quello che Arthur avrebbe dovuto evitare. Era tutto quello da cui Arthur era scappato per un’eternità, eppure Arthur a volte si fermava a guardare il suo vecchio totem, fermo al collo di Eames, e sentiva di essere esattamente nel posto giusto.

Eppure a volte Eames si fermava, lo guardava come se Arthur stesse per scomparire, come se il loro tempo fosse limitato, come se Arthur sarebbe scomparso di nuovo, come anni ed anni prima, ed Arthur gli si avvicinava e lo baciava, cercando di fargli capire che non sarebbe andato da nessuna parte.

Eppure Arthur continuava a togliergli i vestiti di dosso stando attento a non rovinarli (perché Eames avrebbe messo il broncio per ore) e lavava i maledetti calzini sporchi, sistemava i contenitori vuoti che Eames lasciava in giro e si alzava ad orari improponibili giusto perché Eames rideva quando Arthur gli diceva che la prossima volta che si sarebbe azzardato a svegliarlo a quell’ora l’avrebbe ucciso.

*

«Quando tornate?» gli aveva chiesto Dom, cinque mesi sei giorni e due minuti dopo che Arthur aveva chiesto ad Eames di andare con lui a Mombasa.

Arthur aveva guardato Eames e Yusuf che stavano lavorando ad un qualche strano composto e accarezzò il gatto nero sulle sue gambe.

«Non lo so,» rispose prima di sorridere leggermente «credo di avere bisogno di un altro poco di tempo per me.»

Dom aveva riso e l’aveva chiamato “Bastardo”, Eames aveva alzato la testa e gli aveva lanciato uno sguardo che faceva promesse che persino Arthur avrebbe avuto problemi a ripetere ad alta voce.

Arthur non stava pensando a niente. Era un bel cambiamento.

character: dom cobb, character: eames, character: ariadne, character: yusuf, fandom: inception, paring: arthur/eames, character: arthur (inception), *reality, !fanfiction

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