Inception/Supernatural; COW-T; Arthur/Eames; Carry on my wayward son

Mar 11, 2011 22:13

Titolo: Carry on my wayward son
Autore: chibi_saru11 
Beta: ///
Fandom: Inception/Supernatural Crossover
Personaggi: Arthur, Eames (menzione di Samuel Campbell, Sam Winchester, Gwen Campbell, Dominic Cobb, Ariadne e Yusuf)
Pairing: Arthur/Eames
Word Count: 7157 (Fidipù)
Rating: PG13
Warning: Crossover; Slash; Spoiler 6x01 di Supernatural
Riassunto: Nessuno di loro conosceva il cognome degli altri, o il loro passato, ma Eames non immaginava che quello che Arthur nascondesse fosse... beh, quello.
Disclaimer: Inception non è mio, SMETTETELA DI GUARDARMI COSI'. E nemmeno Supernatural, davvero, o questa sesta serie non ci sarebbe stata. O sarebbe stata molto diversa.
Note:
1. La bella phoenix_bellamy  aveva chiesto qualche tempo fa una Inception/Supernatural Crossover in cui Arthur era un Campbell. Volevo provare a fillarla in inglese ma... e quindi l'ho fatto in Italiano. Spero ti piaccia tesoro perchè è tutta tua (sì, anche se non ti piace e ti fa schifo forte).
2. Il coltello con cui Arthur uccide il demone nella mia testa è quello che hanno Sam e Dean, sì, e che per ora è nelle mani di Meg - non credo però ne esista solo uno di quei coltelli, nel mio canon, comunque, ne esistono due perchè mi serviva. Sì, esatto, problemi?
3. Scritta per il prompt Punto di non ritorno @ cow-t - maridichallenge . TEAM MAGHI \O/

Il punto era che nessuno di loro conosceva il passato degli altri, in quel genere di mestiere non era semplicemente la prima cosa che si chiedeva.

Eames non aveva idea di cosa avesse fatto Yusuf prima che si fossero incontrati, di dove fosse nato o di come fosse entrato nel mestiere.

Cobb era una questione a parte, perché il bastardo tendeva a trasportare tutti i suoi drammi familiari sul lavoro e quindi dentro le loro vite e c’erano alcune cose che Eames semplicemente sapeva sul suo conto perché erano ovunque (dentro i loro sogni, nelle discussioni tra lui e Arthur… ovunque).

Ariadne era troppo giovane e troppo ingenua, ma avrebbe imparato e nel frattempo aveva Arthur che proteggeva le sue informazioni personali come un falco, impedendo a chiunque di accedervi facilmente (perché erano una squadra e si proteggevano a vicenda - e perché Arthur aveva sempre avuto un certo riguardo nei confronti di Ariadne).

Il punto era che non era strano per loro non sapere dove fossero nati i loro colleghi, cosa avessero fatto nella loro vita, chi era la loro famiglia o Dio, persino qual’era il loro cognome. Ad Eames andava bene, non che dovesse nascondere molto (suo padre era un poco di buono e sua madre un’altra poco di buono, si erano incontrati ed era nato l’amore più strano dell’universo), ma non aveva comunque voglia che tutti questi bastardi cercassero dentro la sua vita.

Non si era mai sorpreso dunque di non aver mai sentito storie sulla famiglia di Arthur, o il suo cognome o una qualsiasi cosa sul suo passato (avevano fatto scommesse al riguardo, Eames aveva scommesso che il padre di Arthur fosse un marines e sua madre una ragioniera o qualcosa di simile).

Poi un giorno Arthur non si era presentato in orario al capannone e questo aveva fatto scattare l’allarme interno della squadra: Arthur era sempre in anticipo, Arthur era in ritardo quando arrivava in orario. Quando arrivava in ritardo era l’apocalisse (e Eames si sarebbe pentito di quella battuta così tanto in un vicino futuro).

Cobb e Ariadne dovevano lavorare all’architettura del primo livello e Yusuf non si propose nemmeno, quindi Eames guidò fino all’hotel di Arthur, salì al sesto piano senza rivolgere la parola a nessuno e bussò due volte alla porta della camera 634. Non vi fu alcuna risposta e Eames magari stava cominciando a preoccuparsi perché… perché il loro lavoro era complicato (se la si voleva mettere sul banale) e pericoloso e Arthur era una delle persone più forti che conosceva ma…

Poi la porta si aprì - di poco, Eames si rese conto che c’era il catenaccio messo - e riuscì a vedere una parte del viso di Arthur dalla fessura.

«Eames,» disse Arthur, annuendo, prima di lanciare un’occhiata dietro di sé. Eames si chiese cosa stesse succedendo perché Arthur non sembrava malato, non sembrava moribondo… sembrava affaticato però, e i suoi vestiti sembravano in disordine e i suoi capelli scombinati e…

Oddio. Oddio. «Non ti facevo così irresponsabile, tesoro!» commentò, incapace di fermarsi perché Eames si era preoccupato per lui e invece Arthur era lì a sbattersi qualcuno? Qualcuno che non fosse Eames? (E okay, non avevano mai fatto nulla di concreto, certo, ma Eames aveva sempre pensato… insomma aveva sempre ipotizzato che un giorno…).

Arthur si limitò a roteare gli occhi e redarguirlo con uno dei suoi sguardi più infastiditi ed esasperati (uno sguardo che Arthur vestiva perfettamente e che eccitava Eames oltre ogni misura) «No, Eames, non… credimi no…» gli disse, prima di voltarsi di nuovo all’indentro e Eames potè sentire qualcuno che parlava.

«Visto? C’è qualcuno con-» stava cominciando a dire, prima che Arthur si allontanasse gridando “Merda!” e chiudendosi la porta alle spalle. Eames non reagiva mai troppo bene all’aver sbattuto una porta in faccia e comunque c’era qualcosa che non andava in Arthur, in tutta quella situazione.

Fortunatamente la porta non si era chiusa completamente e Eames poté infilare un braccio nella fessura e rimuovere il chiavistello. La prima cosa che notò, entrando, era la confusione totale che c’era dentro la suite.

E non intendeva una normale confusione, ma una di quelle confusioni che solo una battaglia poteva creare (e no, nemmeno del sesso molto coreografico poteva raggiungere questi livelli di disordine - vasi rotti, fogli a terra da tutte le parti, specchi graffiati, mobilio ribaltato ovunque…). Eames si fermò all’ingresso, contemplando il casino che c’era davanti a lui quando la sua attenzione fu attirata dalla voce di Arthur nell’altra stanza. Che parlava latino (e no, non aveva tempo di pensare a quanto fosse sexy il tutto!).

Si catapultò nella stanza da letto dove Arthur stava leggendo una qualche preghiera in latino e, davanti a lui, un uomo si stava contorcendo a terra. Un uomo dagli occhi completamente neri.

Ora Eames aveva visto milioni di cose strambe nella sua vita (aveva visto strade senza fine, città che si piegavano su se stesse, scale che apparivano dal nulla…) eppure era sempre stato tutto durante un sogno, mentre dormiva. Ora era sveglio, ricordava come era arrivato lì, ricordava cosa aveva mangiato quella mattina a colazione e i marchi nella fiche erano esatti. Non stava sognando, ma dalla bocca di quell’uomo aveva cominciato ad uscire del fumo nero.

Avrebbe dovuto restare in silenzio probabilmente, perché questa sarebbe stata la cosa giusta da fare, ma non ci riuscì (e chi poteva realmente biasimarlo?) «Che cosa--?» mormorò sconvolto e Arthur alzò lo sguardo verso di lui, smettendo di leggere per giusto un secondo.

Improvvisamente Eames si sentì scaraventare sul muro dietro di lui (e Dio se faceva male) e l’uomo si stava rialzando, a poco a poco. Eames si voltò verso Arthur, che aprì la bocca per continuare, probabilmente, la preghiera.

«Non ci provare, Campbell,» sibilò l’uomo-dagli-occhi-neri (e una lingua nera particolarmente fumosa) «o il tuo amico finisce soffocato.»

«Non è un mio amico,» fu l’unica risposta di Arthur (e beh, era vero, ma mentre c’era la sua vita in gioco Eames avrebbe preferito un poco di aiuto e solidarietà), ma abbassò il libro che aveva in mano, lasciandolo cadere a terra.

«Vedi? Non potevamo fare così fin dall’inizio?» chiese l’uomo, che continuava a tendere una mano aperta verso di lui. Eames provò a muoversi, ma non ci riuscì. Ci provò di nuovo e ancora, con tutte le sue forze, ma non riuscì a scostarsi dal muro di un solo millimetro. Che diamine stava succedendo?

«Tesoro, non che non abbia sognato del giorno in cui sarei stato scaraventato contro un muro con te nella stanza, ma io avevo sempre immaginato…» e poi si voltò verso l’uomo, sorridendo leggermente «una situazione diversa e un po’ meno compagnia.»

L’uomo gli sorrise, gli occhi neri che scintillavano, prima di voltarsi verso Arthur. «Quindi, come vogliamo concludere la questione, Campbell?»

Arthur sembrava alla ricerca di qualcosa, ma Eames non avrebbe saputo dire cosa. «Lascialo andare,» disse alla fine, facendo un gesto con la testa verso di lui «Eames non c’entra nulla con questa situazione. E nemmeno io: ho abbandonato il mestiere di famiglia tanto tempo fa,» c’era una punta di isteria nella sua voce (e forse un poco di tristezza) e Eames non riusciva realmente a capire cosa stava succedendo.

«Non importa,» rispose l’uomo, facendo qualche passo verso Arthur e passandosi una lingua sulle labbra. Eames provò a liberarsi di nuovo perché tutta quella situazione non gli piaceva, ma non riuscì a far altro che muovere il braccio.

Lo mosse verso la cintura, allora, dove teneva la pistola che si portava sempre addosso per qualsiasi evenienza (non che avrebbe mai immaginato di essere scaraventato al muro da un… qualcosa con gli occhi neri, certo).

L’uomo accarezzò la mascella di Arthur, e sorrise, avvicinando i loro visi «Se ti unissi ai tuoi parenti, Arthur, sarebbe un grande problema per noi, capisci? Non ci interessa perché sei fuggito, anni ed anni fa. Ora sei un pericolo.»

Eames prese la pistola in quel preciso secondo e sperò con tutto il cuore di non sbagliare mira (non aveva tutto quel tempo per prenderla bene) e sparò - prendendo l’uomo dritto nella schiena.

Improvvisamente la tensione che lo teneva prigioniero scomparve e Eames ricominciò a respirare a pieni polmoni.

«Oh, questo ha fatto un po’ male…» mormorò l’uomo. Non solo ancora vivo, ma anche ancora in piedi e perfettamente in salute.

«Chi diavolo sei?» chiese Eames, spalancando gli occhi (persino nei sogni le persone morivano quando qualcuno le sparava contro, non poteva essere…).

E poi Arthur comparve dietro l’uomo e gli piantò un coltello dentro la gola «Vediamo se questo fa male, figlio di puttana,» disse, mentre l’uomo cadeva a terra. Morto - o almeno così Eames sperava.

Arthur stava ansimando, il coltello pieno di sangue ancora in mano e Eames si voltò verso di lui, ancora sconvolto.

«Spero che riceverò una spiegazione per…» e poi, incapace di dire altro indicò l’uomo e la camera e la pistola.

Arthur sospirò e annuì.

Quindici minuti, una chiamata alla reception e un bel po’ di whiskey dopo (e no, Arthur poteva anche togliersi quello sguardo dal viso perché, maledizione, quello che gli stava dicendo meritava un drink di accompagnamento, anche alle dieci di mattina).

«Quindi,» lo fermò posando il bicchiere sul tavolo «la tua famiglia, i Campbell, è da generazioni una famiglia di… Cacciatori…» Arthur annuì, senza dire altro, lasciando che Eames avesse il tempo di processare (e gliene fu grato, davvero). «Però non fate come tutti i cacciatori normali che sparano a tacchini o a tortore, no. Voi sparate a vampiri e licantropi e il coniglio pasquale…?»

Arthur aggrottò le sopracciglia, come se Eames fosse la persona più stupida che avesse mai incontrato «Il coniglio pasquale non esiste,» gli disse, con il suo migliore tono saccente e Eames sentì il bisogno di sbattere la testa al muro.

«Non è questo il punto, tesoro. Maledizione, non è… quello cos’era, mh? Un… un…» e avrebbe voluto inventarsi un qualche nome strano, un qualche mito sconosciuto, ma davvero era ancora troppo sconvolto e, probabilmente, il quinto bicchiere non era stato una grande idea.

«Un demone,» supplì Arthur, appoggiandosi meglio sulla poltrona, come se stessero parlando di un film o di un libro o di qualsiasi altra cosa non fosse tutta quella follia.

Eames si alzò in piedi, cominciando a girare in tondo per la stanza. Se fosse rimasto fermo sarebbe impazzito, lo sentiva, era tutto così maledettamente ridicolo.

Si passò una mano tra i capelli, fermandosi e voltandosi verso l’altro «E avevi intenzione di tenere tutto questo nascosto per…» perché il passato di Eames consisteva in alcuni scippi qua e là e magari qualche prostituta, ma non era un piatto di demoni con accompagnamento di vampiri.

Arthur sospirò, annoiato «La mia famiglia è una famiglia di cacciatori Eames, non io… ho lasciato il lavoro di famiglia tanto tempo fa, mia madre non ha mai voluto…»

Eames probabilmente non dovrebbe parlare. Arthur si sta aprendo con lui in maniera considerevole e normalmente ne sarebbe felice, davvero, normalmente sarebbe al settimo cielo. Oggi è solo arrabbiato e confuso e magari spaventato.

«Oh, e immagino che tua madre approvi di questo tuo nuovo lavoro quindi,» sibilò, cercando di fargli male, di fargli perdere il controllo almeno un poco.

In quei venti minuti Arthur si era riabbottonato la maglietta, sistemato i capelli e medicato il taglio che aveva al braccio e ora era il solito Arthur, come se non fosse accaduto nulla. Eames non lo sopportava, Eames lo voleva vedere scosso come si sentiva lui, per Dio.

Arthur scosse le spalle, per niente sorpreso da quell’affermazione «Ho tenuto in mano la mia prima pistola a sette anni,» gli disse, allungando le mani e prendendo il suo bicchiere di whiskey ormai vuoto «ho sparato al mio primo fantasma a otto. Sono cresciuto con la pistola in mano, se non potevo fare il cacciatore, questo non sembrava troppo male.»

Ed è un ragionamento così pragmatico e così perfettamente da Arthur che Eames si chiese se mai, nella sua vita, Arthur avesse pensato a cosa volesse fare, non cosa fosse conveniente. Si rese conto che la risposta, probabilmente, sarebbe stata no.

Poi finalmente ricollegò tutto il resto del discorso «Se sei fuori dalla festa di famiglia, perché esattamente quel demone ha organizzato questo appuntamento con te?» e ancora non riusciva a credere cosa stesse dicendo, di cosa stessero parlando. Quella mattina Eames si era svegliato pensando che la sua vita fosse strana, ma non ne aveva nemmeno minimamente un’idea.

Arthur annuì, alzandosi e dirigendosi verso uno dei suoi borsoni «Questo è quello che vorrei cercare di scoprire,» disse, cominciando a frugare nelle varie tasche, fino a tirarne fuori un cellulare che Eames non aveva mai visto. Non era il cellulare che aveva di solito Arthur e, considerando che Eames aveva visto il suo blackberry nero la sera prima e non pensava avesse cambiato telefono nell’arco di dieci ore, doveva essere un suo secondo cellulare.

«Che stai facendo?» chiese, mentre Arthur apriva la rubrica e cominciava a scendere tra i contatti.

«Chiamo mio cugino, magari lui sa qualcosa,» gli disse ed uscì in balcone, probabilmente per avere un po’ di privacy.

Eames avrebbe dovuto andarsene - Arthur stava moderatamente bene, se si ignorava il corpo disteso in camera sua - e non aveva davvero motivo di essere lì. Si risedette e chiamò Cobb, dicendogli che Arthur sta bene e no, Cobb, non sto mentendo e no, non posso spiegare, ti giuro e va bene, ci sentiamo dopo.

Si versò un altro bicchiere di whiskey, fregandosene del fatto che la stanza aveva già cominciato a girare e si fermò ad aspettare.

«Ubriacarsi alle undici di mattina, così poco professionale,» arrivò la voce di Arthur, un poco ovattata - ma questo era probabilmente colpa dell’alcool.

«Scatenami contro la fatina dei denti, Arthur. Ho giusto una carie da farmi curare,» fu la sua unica risposta mentre studiava l’altro per cercare di comprendere cosa stesse succedendo prima che l’altro glielo dicesse.

Era teso, più teso del solito, e stanco. E triste, forse. Eames aveva fatto un lavoro del “capire le varie espressioni di Arthur” (in cui varie espressioni voleva dire sempre la stessa con un diverso muscolo facciale contratto), ma non aveva mai visto un’espressione simile sul suo viso.

Probabilmente era una di quelle cose che si riservavano alla famiglia, quella sottospecie di irritazione mista ad affetto che tutti, alla fin fine, provavano.

Arthur si sedette accanto a lui, scoccandogli uno sguardo infuocato «Non esiste nemmeno la fatina dei denti, deficiente,» ma non c’era la giusta dose di veleno nella sua voce, era molto meno tagliente di quella che Eames si sarebbe aspettata.

C’era definitivamente qualcosa che non andava e Eames non sapeva dire cosa fosse.

Improvvisamente Arthur si alzò, lanciando il telefono argentato sul letto e prendendo il Blackberry nero «Devo chiamare Cobb,» mormorò, ma Eames scosse la testa.

«L’ho già fatto io, gli ho detto che stavi bene e che non saresti andato a lavoro oggi,» gli disse, ma Arthur scosse la testa.

«Una settimana,» lo corresse, voltandosi verso di lui «non verrò a lavoro per minimo una settimana,» continuò «devo tornare a casa.»

Eames avrebbe dovuto aspettarselo, non sapeva come funzionassero le cose, quale fosse il comportamento normale per un’emergenza del tipo “un demone ha cercato di strapparmi il cuore”, ma una riunione familiare sembrava ragionevole. Eames non voleva lasciarlo andare.

Arthur uscì poi qualcos’altro dal borsone in cui era conservato il telefono argentato. Era un’agenda nera rilegata, piena di appunti e note e graffette, Arthur gliela porse.

«Che cos’è?» chiese Eames, prendendola in mano, accarezzandone la pelle della copertina. Aveva almeno dodici anni, forse molti di più.

«I cacciatori… hanno quest’abitudine di riportare tutte le loro scoperte su un giornale, per passare la conoscenza ad altri cacciatori, in futuro. Quando ero piccolo e pensavo che avrei vissuto quella vita per sempre…» e mentre lo diceva Eames non avrebbe saputo dire se Arthur suonava nostalgico o arrabbiato con se stesso «ho cominciato a fare ricerche, visto che non potevo andare a caccia con mio padre e a…»

«A scrivere tutte le tue scoperte in questo giornale,» concluse per lui Eames, aprendo l’agenda delicatamente, guardando con un certo fascino la scrittura di Arthur, più grezza e meno elegante di quella a cui era abituato, ma inconfondibilmente sua. Eames non riuscì a frenare l’ondata di puro affetto che lo attraversò (lui e Arthur non ne avevano mai parlato di tutto quello, di quello che c’era tra di loro, di quel bacio che si erano scambiati da ubriachi quella volta, o di quell’altro che si erano dati da sobri quell’altra volta, eppure Eames sapeva bene di essere già completamente partito per l’altro, ma in maniera ridicola, a volte era un problema).

Poi si riscosse e ritornò a guardare Arthur «Non capisco, però, perché me lo stai dando?»

Arthur scosse le spalle «Io conosco già a memoria tutto quello che c’è scritto lì e se mi hanno trovato possono anche avere scoperto che tu e gli altri siete miei colleghi… è meglio se lo tenete voi.»

Eames si abbassò a guardare l’agenda, poi spostò di nuovo lo sguardo verso Arthur «Ti rendi conto che stai parlando come se non dovessi tornare, giusto?» glielo chiese perché sapeva che era vero e il solo pensiero che Arthur potesse contemplare una cosa simile… Arthur era l’uomo che aveva sempre almeno mille piani di riserva, che studiava la situazione a fondo per uscirne con il minor numero di danni. Arthur era il migliore.

L’altro non abbassò lo sguardo - perché non sarebbe stato da Arthur ed Eames si sarebbe preoccupato molto di più - ma non si riprese l’agenda, non si affrettò a contraddirlo. Eames odiava questo Arthur che sembrava così rassegnato.

«Arthur, rispondi alla mia domanda,» sibilò - e probabilmente, se non fosse stato così ubriaco, si sarebbe alzato e lo avrebbe raggiunto (a quel punto Arthur l’avrebbe quasi sicuramente scaraventato a terra con la forza del suo mignolo o qualcosa di simile, perché Arthur era un essere malvagio e spaventoso, ma il punto restava…)

Arthur sospirò a quel punto, passandosi una mano tra i capelli «Questo lavoro,» cominciò, come se stesse parlando ad un bambino piccolo «è pericoloso, Eames. Non posso… non posso promettere cose che…»

«Più pericoloso del nostro lavoro?» non poté fare a meno di chiedere, perché diamine, passavano metà del loro tempo a scappare dalla polizia e l’altra metà a scappare da quelli che li volevano fare fuori.

Arthur annuì «Sai quanti cacciatori muoiono ogni giorno? Siamo in inferiorità numerica, la nostra forza fisica non è minimamente paragonabile alla loro. Abbiamo le nostre armi, ma loro sono dei figli di puttana e… Eames, bisogna essere realisti.»

Per un attimo Eames provò a trattenere il commento che gli era partito spontaneo, prima di ricordarsi che non era tipo da trattenersi, in nessuna situazione «Il tuo cinismo è come sempre molto rinfrescante,» gli disse dunque, incrociando le braccia.

Arthur scosse le spalle, poco interessato e poi si fermò a guardarlo, evidentemente in attesa di qualcosa. Eames aveva l’impressione che Arthur stesse aspettando che Eames si sporgesse in avanti per baciarlo o che portasse la mano in avanti per accarezzargli un braccio eppure… eppure c’era il cadavere di qualcuno ai loro piedi e teneva tra le mani il libro più inquietante del mondo, probabilmente. E la sua testa stava girando in così tante direzioni differenti che non sapeva davvero cosa pensare.

Quindi Eames si alzò, prendendo l’agenda con sé «Quindi ci vediamo tra una settimana…» fu tutto quello che disse e Arthur annuì.

Se era dispiaciuto o triste o arrabbiato non lo diede a vedere. Non che Arthur desse mai niente a vedere.

Eames passò la settimana in cui Arthur era via a leggere il suo maledetto giornale. Eames non era mai stato un tipo particolarmente studioso, preferiva imparare sul campo (dopotutto osservare dal vivo era quello che gli si richiedeva, osservare e copiare i movimenti del bersaglio e diventare lui, a poco a poco), stare ore a leggere e girare pagine non era semplicemente nel suo stile.

Per una settimana invece non aveva fatto altro, aveva girato quelle pagine tutte scritte e aveva appreso tutto quello che poteva dalla scrittura di un giovane Arthur.

A dire il vero c’erano degli appunti o addirittura delle intere pagine scritte con una calligrafia molto più elegante e matura di tutte le altre, Eames si chiese quando Arthur le avesse aggiunte, se per caso non avesse incontrato altri mostri ultimamente e non solo quel demone. Si chiese se Arthur non avesse mentito qualche volta sulle sue ferite, se alcune non fossero state fatte da un qualche folletto piuttosto che da clienti arrabbiati.

Eames si rese conto che non sapeva nulla e ogni volta che questa consapevolezza lo colpiva, come un pugno al viso, Eames ricominciava a leggere. Ricominciava a girare le pagine e memorizzare tutto quello che poteva sui Wendigo, sui Mutaforma, sui Licantropi. Si concentrò sulle pagine sui demoni perché aveva questa impressione che, dopotutto, tutta quella caccia girasse spesso attorno a quei figli di puttana.

E poi si fermò al nome “Angeli” perché Eames non aveva mai creduto in queste cose, ma se erano menzionati sul giornale dovevano esistere, no?

Arthur aveva mai incontrato un angelo? Poteva anche essere di no, poteva anche essere che quelle parole, quelle storie, gli fossero state raccontate da suo padre o da suo nonno o da un suo cugino. O forse era solo un mito, come anche altre cose che erano scritte in quel giornale (Eames non credeva davvero che esistessero i pigmei, grazie).

Però aveva voglia di chiamare Arthur e chiederglielo. Aveva voglia di chiamare Arthur e fargli così tante domande perché ora che aveva visto uno spiraglio della vita di Arthur… la voleva vedere tutta. Ora che aveva avuto tempo di aggiustarsi alla situazione, che la sua mente non continuava a strillare di fumi neri e occhi neri e il fatto che fosse stato appiccicato al muro come se ci fosse stato dell’Attack sulla sua schiena, Eames avrebbe voluto prendere Arthur e baciarlo fino a fargli dimenticare il suo maledetto cognome.

Solo che l’altro era… chissà dove e Eames non aveva altro che il suo giornale. Il mondo era un posto orrido ed Eames era uno stupido.

Rigirò una pagina del giornale, tornando a leggere e sbuffando sonoramente.

Arthur chiamò una settimana e quattro giorni dopo - ed Eames non si era esattamente preoccupato, ma magari quando aveva visto il nome di Arthur apparire nello schermo del suo cellulare aveva tirato un sospiro di sollievo.

Eames era pronto a dire qualche battuta o ammettere ad Arthur che lo amava e che, davvero, tutto questo è una follia e sono così felice che stai tornando a casa.

Quindi Arthur parlò: «Devo rimanere qui,» erano state le sue parole e non sembrava scherzare (quando mai Arthur scherzava?) sembrava mortalmente serio. Ed Eames non capiva perché.

«La situazione è peggiore di quello che pensavo,» spiegò e sembrava stanco, troppo stanco. Eames si chiese se stesse bene, se non fosse pieno di ferite, chi avesse ucciso in quella settimana. Eames provava un odio immenso per ogni essere esistente. Soprannaturale o meno.

«E non possono fare a meno proprio di te?» chiese - anche se non ne aveva alcun diritto, anche se non erano nessuno l’uno per l’altro, anche se non si erano mai nemmeno baciati sul serio, ma Eames voleva poter svegliarsi la mattina e pensare che avrebbe potuto infastidire Arthur per tutto il giorno.

Arthur sospirò dall’altra parte del telefono, Eames quasi si scusò. «Tu non… non è così semplice, Eames.»

«Spiegamelo allora,» lo spinse, testardo. Il tono di Arthur sembrava sorpreso quando rispose, Eames avrebbe voluto essere davanti a lui e decifrare la sua faccia, era incredibilmente difficile cercare di comprendere i toni di Arthur senza guardarlo in viso.

«Non penso mi crederesti,» fu quello che disse Arthur alla fine «è particolarmente assurdo persino per questa linea di mestiere.»

Eames sbuffò «Ho passato la settimana a leggere i dieci modi in cui è possibile uccidere Babbo Natale, credo di avere la mente abbastanza aperta. Spiega, tesoro.» E sperava davvero di suonare convincente.

Arthur rimase in silenzio quasi secondo prima di cominciare a parlare «Beh, apparentemente qualche mese fa c’è stata… l’apocalisse. O per lo meno, hanno provato a far cominciare l’apocalisse,» si affrettò a correggere, come se fosse particolarmente importante «ma mio cugino si è sacrificato per fermarla. Solo che ora è tornato in vita…» e poi si bloccò, indeciso se continuare o meno (Eames era ancora troppo impegnato a cercare di processare apocalisse e resurrezione per intervenire) «e con lui mio… uh… nonno? Tri-zio? Non ho davvero ben capito…»

Eames annuì, sbloccandosi finalmente «Okay, okay. Tutto questo è assurdo,» disse perché… perché l’apocalisse? Persone che tornavano in vita come se ci fosse una svendita? Cosa diamine-?

«Non devi venirlo a dire a me,» fu la risposta strozzata di Arthur, ed Eames si rese conto che Arthur non sarebbe tornato. Per davvero.

Perché aveva parenti zombie e un’apocalisse alle spalle e il fottuto mondo da salvare, o qualcosa di simile. E non sarebbe tornato.

Oh.

Restarono in silenzio per secondi interi - che gli sembrarono minuti e anni e Dio, doveva dire qualcosa e rompere la tensione.

«Devo dirlo a Cobb? Posso…» disse, cercando di suonare indifferente, disinteressato (anche se ogni parte di lui stava urlando all’altro di tornare indietro, di dare a quello che avevano una chance qualsiasi).

«Non ce n’è bisogno,» lo interruppe Arthur - ed Eames riconosceva quella voce, era quella che l’altro usava quando era in imbarazzo - «ho già chiamato per dirglielo, non è stato contento ma ha accettato.»

Eames smise di parlare di nuovo, quindi, prima che il significato di quella frase lo colpisse come un treno «Perché hai chiamato anche me, allora?» Cobb l’avrebbe comunque avvertito il giorno dopo, lo sapeva. Eppure Arthur lo stava chiamando ed Eames era praticamente certo che non avesse il tempo di fare chiamate di cortesia.

Arthur non rispose. Eames si chiese se stesse arrossendo, che faccia stesse facendo… Odiava il telefono.

«Tieni il giornale,» fu l’unica cosa che l’altro disse «potrebbe servirti magari un giorno.» E sembrava tanto un addio definitivo, come se Arthur gli stesse lasciando il suo giornale con un fottuto testamento. C’erano così tante cose sbagliate in tutto quello che Eames avrebbe voluto urlare.

Invece fece quello che Eames faceva meglio: fece una cazzata madornale.

«Dove sei, tesoro? So che sei in una specie di base segreta nascosta nel nulla, tipo una Batcaverna, ma sarà pur sempre in un qualche luogo,» e si alzò in piedi, dirigendosi verso l’armadio e cominciando a riempire una sacca.

«Io… Michigan- Eames che stai facendo?» La voce di Arthur sembrava seccata e infastidita e un poco preoccupata, Eames adorava il viso che andava con quel tono di voce e ora se lo stava perdendo.

Michigan, okay, da lì sarebbe riuscito a trovarli.

«Vengo a riportarti il giornale, tesoro,» rispose, prima di chiudere il telefono senza dare tempo ad Arthur di rispondere.

Era una pazzia e Arthur probabilmente gli avrebbe sparato a vista riprendendosi il giornale dal suo cadavere, ma Eames aveva passato una settimana a capire come funzionasse la vita di Arthur, a pensare che voleva fare parte della vita di Arthur e se non fosse andato ora sentiva che l’avrebbe perso per sempre.

Aveva trovato il covo dei cacciatori dopo esattamente tre ore, ma per raggiungerlo ce ne erano volute altre dieci (tra aereo, macchina e tutto).

Eames aveva il dubbio che fosse stato più facile del previsto perché Arthur voleva farsi trovare (il che non era sicuro, perché non importava che aveva reso la vita di Eames decisamente più facile, c’erano comunque demoni che lo cercavano per tagliargli la testa!).

Il luogo era ancora più squallido di quanto Eames si fosse immaginato e provò immediatamente nostalgia per la sua suite - con il letto con lenzuola pulite e cuscini e il bagno con la vasca. Non che Eames non fosse abituato a stare in luoghi simili - spesso e volentieri non aveva avuto scelta - ma nell’ultimo periodo si erano trattati piuttosto bene.

«Tu sei un idiota,» fu la prima cosa che Arthur gli disse, arrivandogli di fronte; Eames si aspettava molto ma molto peggio.

«Grazie Tesoro, è sempre così edificante parlare con te, hai sempre le parole giuste,» rispose, ghignando - perché Arthur era lì e aveva un taglio sul labbro e i capelli scombinati, ma stava bene.

Arthur roteò gli occhi, mettendo una mano in avanti, evidentemente aspettandosi che Eames gli restituisse il giornale. Eames non ne aveva alcuna intenzione, non ancora comunque.

«Quindi, mi fai incontrare i morti viventi?» chiese, curioso, sistemandosi la borsa sulla spalla. Si chiese se Arthur avesse capito perché fosse lì per davvero, che il giornale non era che una scusa.

Ovviamente Arthur l’aveva capito, era mostruosamente intelligente il piccolo bastardo.

«Eames,» cominciò serio e stanco (ed Eames voleva portarlo da qualche parte e fargli un massaggio perché, evidentemente, ne aveva bisogno) «non puoi farlo.»

Non era esattamente la discussione più convincente che Arthur avesse mai portato ed Eames rimase in silenzio per qualche secondo, aspettandosi che continuasse, che gli provasse razionalmente perché fosse la peggiore idea che Eames avesse mai avuto (e lo era, batteva persino quella volta che Eames aveva deciso di tingersi i capelli quando aveva diciassette anni - e quella era stata un’idea davvero pessima). Arthur non disse altro.

«Oh. Niente discorsi complicati? Niente urla? Mi aspettavo meglio da te, Arthur,» constatò, piegando la testa di lato.

«Non sei costretto ad entrare in questa vita, Eames, ma è una tua decisione. Non posso costringerti a non farlo,» e poi rise, una risata secca e non esattamente divertita «Dio solo sa quanto quel discorso sia stato ripetuto in questa famiglia senza alcun successo. Nessuno può costringerti a fare nulla, Eames…» e poi si passò una mano tra i capelli che, senza gel, gli ricadevano sul viso in maniera adorabile.

Eames voleva tutto quello, non la caccia, non i vampiri e i mostri e i demoni e il sangue - probabilmente avrebbe vissuto senza nessuno di quelli con molto piacere, ma voleva Arthur. Voleva Arthur la mattina, con gli occhi ancora pieni di sonno, voleva i suoi capelli arruffati e tutti i lividi che dovevano esserci sotto quella maglietta.

Voleva poter stare lì e scoprire il passato di Arthur, conoscere la sua famiglia e… e voleva tutto. Eames non era mai stato una persona che mollava facilmente quando voleva qualcosa e non avrebbe certamente cominciato adesso.

«Però c’è una cosa che devi sapere, Eames,» riprese Arthur, stringendo il pugno e guardandolo con uno sguardo che Eames non sapeva decifrare «una volta che sei dentro questo mondo, non c’è modo di uscirne. Per quanto tu ci possa provare, per quanto tu possa lottare… non c’è modo. Non puoi semplicemente svegliarti una mattina e decidere di non essere più un cacciatore,» sospiro, ghigno triste «una volta cacciatore lo si è per tutta la vita. Questo è il punto di non ritorno.»

Eames comprese quel discorso fin troppo bene. Sapeva perché Arthur gli stesse facendo quel discorso, sapeva che cosa voleva dire e sapeva che aveva ragione - poteva vederlo nello sguardo delle guardie all’entrata del capannone, nello sguardo di Arthur, anche.

Se fosse entrato a far parte di quel mondo non ne sarebbe mai più potuto uscire. Ad Eames sembrava un prezzo adeguato per avere Arthur. Tutto gli sembrava un prezzo adeguato.

«Lo so,» disse allora, prima di prendere il giornale e darlo ad Arthur, finalmente «per questo ho comprato un’agenda. Posso cominciare il mio giornale personale.»

Arthur annuì - quasi sorridendo e davvero, Eames aveva aspettato di vedere quello sguardo per tutta quella settimana - e lo portò dentro.

Nel suo primo mese da cacciatore Eames aveva ucciso una quantità di vampiri indefinita, un mutaforma e tanti, ma davvero troppi, esseri disgustosi. Aveva riempito dieci pagine del suo nuovo giornale, andava in giro con un fucile a pompa caricato con del sale e dell’acqua santa sempre a portata di mano.

Tutta la storia delle identità falsa, del far finta di essere - sempre e comunque - qualcun altro gli veniva naturale come una seconda natura, era quello che faceva anche prima, nella sua vecchia vita, e le sue varie identità risultavano incredibilmente utili in queste situazioni.

Arthur si era occupato di farli sparire dalla circolazione, di fare in modo che nessuno della loro vecchia vita potesse rintracciarli, di cancellare qualsiasi loro menzione in qualsiasi documento praticamente ovunque - i poteri di Arthur in questo campo lo spaventavano, a volte - e, specialmente, di fare in modo che qualsiasi loro precedente problema con la polizia fosse spostato sotto un altro nome o fosse associato a qualche altra faccia (e persino Sam era stato impressionato da Arthur, in quel frangente ed Eames ridacchiò pensando a quanto gli fosse stato utile il periodo speso come point man).

Samuel non gli piaceva, per nulla, ma non piaceva nemmeno ad Arthur, quindi non si sentiva particolarmente in colpa. Gwen era la sua Campbell preferita - a parte Arthur, ma quella era una parte della conversazione a cui Eames preferiva non pensare - e a volte si trovavano sul retro a dividersi una birra in silenzio.

Spesso e volentieri regnava il silenzio all’interno della baracca, ognuno troppo inghiottito nel proprio caso per pensare ad altro. Grazie al cielo lui ed Arthur non erano spesso dentro quel fortino infernale.

Arthur non aveva un buon rapporto con nessuno dei cacciatori che vivevano lì; Eames spesso si ritrovava a pensare che Arthur fosse rimasto non per il reale desiderio di sentirsi di nuovo parte della famiglia o perché loro avevano bisogno di lui, ma perché il resto del mondo stava andando a puttane e lui non poteva chiudere gli occhi e stare a guardare.

Sam … Eames non aveva nulla contro di lui, era un poco ossessivo-compulsivo riguardo a certe cose, okay, ma questa non era necessariamente una cosa negativa. Si gettava nel suo lavoro con dedizione e costanza e ad Eames a volte ricordava Arthur, quando era troppo preso da un caso. Eppure spesso quel Winchester lo spaventava.

A volte era troppo freddo, troppo calcolatore e ad Eames, che aveva passato la sua vita a leggere le persone, ad entrare nelle loro teste e scoprire tutto quello che c’era da scoprire su di loro… ad Eames quello che vedeva nella testa di Sam non piaceva per niente.

A volte aveva paura di chi avrebbe sacrificato quel ragazzo per una caccia.

«E’ sempre stato così?» non era riuscito a resistere dal chiedere ad Arthur, un giorno. Perché effettivamente il povero bastardo era stato all’inferno, intrappolato con il diavolo - Arthur gli aveva raccontato tutta la storia e ancora Eames non riusciva a crederci - e aveva ogni diritto di essere un po’ fottuto in testa.

«No… prima… ha un fratello, Dean, cacciavano assieme andando in giro da città in città,» spiegò, mordicchiando la penna che aveva in mano, senza aggiungere come facciamo noi «non l’ho incontrato spesso ma era… era diverso.»

«Beh, un viaggetto all’inferno cambia una persona,» supllì, perché si sentiva di doverlo (se a Sam che gli aveva salvato la vita giusto quella mattina o ad Arthur, che sembrava intristirsi ogni volta che ne parlavano, Eames non lo sapeva).

Il fatto era che non era certo la vita più facile di quel mondo e Dio, a volte c’erano giorni in cui nemmeno tutto l’alcool di un qualsiasi maledettissimo bar sarebbe riuscito a cancellare il sangue che si sentiva addosso o le urla che continuava a sentire, ma dopotutto Eames riteneva di starsi adattando bene.

L’unico problema di tutta quella situazione era Arthur, paradossalmente. Ora, Eames non si era certo aspettato che si sarebbero saltati addosso non appena Eames avesse messo piede nel fortino degli orrori… o magari sì, ma il punto era che si sarebbe aspettato che, prima o poi, sarebbe successo qualcosa.

Era passato un mese e ancora non era successo assolutamente nulla, ed Eames stava per perdere la pazienza.

Il problema era che se fosse andato da Arthur dicendogli che aveva gettato via tutta la sua vita per quello e si meritava qualcosa… beh, sarebbe stato ingiusto. Arthur non gli aveva mai chiesto di rinunciare a niente, non gli aveva mai chiesto di raggiungerlo.

Arthur non gli aveva mai chiesto nulla e, soprattutto, Arthur non aveva mai promesso niente. C’erano stati baci rubati e sguardi infuocati e magari un bel po’ di flirt ma… ma da quando era lì assolutamente nulla e stava per uscire di testa. No, seriamente, stava per perdere la testa e non sarebbe stato un Dijin o un qualsiasi altro mostro schifoso. Sarebbe stato Arthur e il suo collo e il suo sguardo assonnato la mattina presto.

Però non poteva dire nulla e non voleva fare la prima mossa (Dio, l’aveva seguito in quel mondo di matti, come prima mossa gli sembrava abbastanza, no?) e magari Arthur aveva cambiato idea, non lo sapeva. E non era spaventato, ma doveva lavorarci con Arthur e il bastardello aveva ragione, una volta che si diventava cacciatori non si poteva tornare indietro e il solo pensiero di non poter lavorare più con Arthur gli mandava brividi lungo la schiena.

Non si fidava di nessun’altro allo stesso modo, e non sarebbe uscito a cacciare con nessun’altro a guardargli le spalle, semplicemente non era così stupido. Per cacciare insieme ad un’altra persona c’era bisogno di avere completa fiducia nell’altro, era una regola base. Eames si fidava solo di Arthur - e per una qualche strana ragione, Arthur si fidava solo di lui.

Eames si sarebbe fidato anche se avessero cominciato a fare sesso, ma temeva che per Arthur non fosse lo stesso.

Fino al secondo mese di quella assurda situazione, almeno, in cui Eames venne quasi strangolato da una cosa che somigliava troppo ad un’orchidea e che, se Arthur non l’avesse uccisa in tempo, l’avrebbe probabilmente anche decapitato.

Ritornarono al motel il silenzio, con Eames che tossiva sporadicamente sentendo ancora le radici-mani-quello che erano della cosa attorno al collo.

Improvvisamente Eames si rese conto che Arthur stava tenendo il volante con una ferocia quasi impressionante «Woah, tesoro, non vorrei dirtelo, ma non c’è motivo di rompere il volante della macchina. Ho sentito dire, poi, che è particolarmente importante mentre si sta guidando, quasi un pezzo fondamentale.»

Arthur non sembrava averlo sentito e le sue mani stavano cominciando a diventare bianche - nel senso di fantasma-bianco - ed Eames cercò di dire qualcos’altro, ma Arthur lo precedette. «Te l’avevo detto che era pericoloso, ma tu mi ascolti mai? No, certo che no. Non puoi fare quello che ti pare e piace in questo lavoro, Eames, avevamo un piano! E tu te ne sei frega-»

Eames roteò gli occhi «Oh, non ci posso credere… il tuo piano non avrebbe funzionato! Dovevo improvvisare!» urlò di rimando, la stanchezza e la frustrazione che continuavano a fomentarsi a vicenda.

«E sei quasi morto per averlo fatto! Non è come nei sogni, Eames, non puoi semplicemente-»

«Credi che non lo sappia? Certo che lo so! E non-»

«No che non lo sai, Eames! Perché facevi la stessa cosa anche prima! È per questo che-»

«Per questo che cosa, che non mi volevi qui? Perché potevi anche dirlo prima e-»

«Per questo che ti farai ammazzare! Prima del tempo! E vaffanculo io non starò qui a piangere per te.»

Stavano ansimando entrambi, le urla che rimbombavano ancora nella macchina e nelle loro menti. Eames scoppiò a ridere dal nulla.

Avrebbe dovuto trattenersi, c’era la concreta possibilità che Arthur gli sparasse immediatamente, ma non lo fece - il suo spirito di auto-preservazione, nei riguardi di Arthur, non era mai stato molto presente. Rise e rise e rise, e magari non c’era nulla di divertente, ma non riusciva a smettere.

«Non pensavo davvero che tu saresti rimasto a piangere per me,» disse dunque, ridacchiando ed Arthur roteò gli occhi.

«Col cazzo, non ti faccio il piacere di farti andare prima, ti riporterei indietro ad ogni costo …» gli rispose l’altro allentando un poco la presa sul volante.

La cosa deprimente era che, probabilmente, quella era stata la cosa più romantica che qualcuno nella sua intera vita gli avesse mai detto. E stavano parlando della sua morte.

«Non che non apprezzi il sentimento, perché credimi... ma perché dobbiamo per forza pensare a quando morirò?» e voleva essere una domanda leggera e stupida, davvero, un modo per rompere il silenzio e la rabbia. Eames non aveva idea di aver colpito il centro della questione - a volte capitava, Eames preferiva avere il controllo su queste cose.

«Tutti muoiono in questo mestiere, Eames,» gli disse infatti Arthur, così dannatamente serio da fargli quasi male «la mia famiglia, Samuel. Sam e Dean sono morti così tante volte che credo ormai abbiano un angolo dell’inferno dedicato solo a loro. Morire è quello che i cacciatori fanno, alcuni ci restano, altri no.»

«Io non ho intenzione di morire tanto presto,» lo rassicurò Eames, guardando Arthur di sottecchi. Era questo il fulcro del problema? Il fatto che Eames potesse morire - che ora fosse una possibilità molto più reale di prima e che Arthur avesse paura? Eames aveva saputo dei genitori di Arthur, uccisi da dei vampiri e di suo fratello, posseduto da un demone. Comprendeva da dove partisse tutto quel discorso. «E comunque ho intenzione di fare quello che voglio in vita, finché dura. Questo non è cambiato, anzi, il fatto che potrei morire domani lo rende… Arthur non ho voglia di perdere tempo. Tempo che, come tu hai gentilmente già detto, non abbiamo.»

Arthur non si voltò a guardarlo ed Eames sospirò, lasciandosi andare contro di sedile e tossendo un paio di volte. Maledetta pianta del cavolo.

E poi Arthur stava accostando, girando il volante improvvisamente e sorprendendo Eames che finì con il viso spiaccicato sul finestrino.

«Che cosa diamine ti è-» cominciò, prima di sentire la bocca di Arthur sulla sua, appoggiata semplicemente e la mano dell’altro che gli si aggrappava ai capelli.

Oh. Oh. Arthur stava… Oh.

Il respiro di Arthur sulla sua guancia era caldo e Eames ne era intossicato. Quando Arthur si allontano di pochi centimetri ed Eames si sentì quasi abbandonato, si rese conto di essere incredibilmente fregato.

«Io… potresti anche aprire la bocca, possibile che debba fare tutto io?» si lamentò Arthur, ed Eames si chiese cosa cavolo stesse dicendo quando si rese conto che non aveva risposto al bacio.

Uh, giusto. Si lanciò in avanti prendendo il viso di Arthur tra le mani e cominciando a baciarlo con passione. E non sapeva perché esattamente, ma gli sembrava meglio di qualsiasi altra volta - anche se erano dentro una macchina sul ciglio della strada ed Eames era quasi morto non meno di quindici minuti prima.

«Dio non so nemmeno perché lo sto facendo, è una cosa così stupida,» ansimò Arthur, quando si staccarono, ed Eames rise, chiudendo gli occhi e cercando di memorizzare quel momento.

«Era inevitabile, Tesoro. È sempre stato inevitabile, fin dal nostro primo incontro non c’è mai stato alcun modo di tornare indietro,» e suonava incredibilmente stupido come discorso persino alle sue orecchie, ma non importava.

«Ti rendi conto che io non ci credo al destino, giusto?» fu l’unica risposta di Arthur, che alzò un sopracciglio guardandolo come se fosse la persona più stupida sulla faccia della terra (e che Eames era arrivato ad identificare come il modo in cui Arthur esprimeva il suo affetto) e lo spinse di nuovo sul suo sedile.

«Oh, sta zitto e guida, ho visto un motel a meno di quattrocento metri da qui e abbiamo bisogno di un motel,» e quando Arthur accese il motore e cominciò a guidare immediatamente nella direzione che gli aveva indicato, Eames cominciò a ridere di nuovo.

E non sarebbe mai più potuto tornare alla sua vecchia vita, lo sapeva, ma non gli importava. Questa vita gli andava benissimo.

character: eames, !fanfiction, fandom: inception, fandom: supernatural, *cow-t, paring: arthur/eames, character: arthur (inception)

Previous post Next post
Up