Mombasa era bellissima in Giugno. Calda, più calda di quanto Arthur avrebbe mai potuto sopportare realmente, ma il mare era scintillante e la sabbia si infilava tra le sue dita facilmente.
Eames aveva una villetta lontano dalla città vera e propria, lontana dal caos e dai turisti, in un villaggio più piccolo. L’aveva da anni, confidò ad Arthur mentre apriva la porta, ma ci veniva poco a causa del lavoro.
La casa era bella, veramente bella. Arthur aveva temuto che il gusto di Eames - come quella sua dannata maglietta arancione - avesse avuto ripercussioni sull’arredamento della casa, ma niente di quella casa era fuori posto. Niente stonava in alcun modo.
Non c’erano molte cose, probabilmente perché Eames non ci stava mai troppo , ma era accogliente e i colori caldi avvolgevano la casa in un abbraccio rilassante.
Arthur si innamorò della casa immediatamente. Si innamorò del salotto e dei divani bianchi, così simili al suo, si innamorò della cucina e del frigorifero a due ante.
Si innamorò dei condizionatori spersi in ogni angolo della casa, sì. Poi si innamorò della camera da letto e delle coperte multicolore - che erano state prodotte lì, da una sua vicina di casa.
Era facile innamorarsi della casa, del modo in cui sembrava proteggere i suoi abitanti gentilmente. Fu tutto il resto, ciò di cui non si innamorò immediatamente.
Del modo in cui Eames russava o si attaccava a lui mentre dormivano o insisteva perché Arthur non mettesse piede in cucina o continuava a lasciare rifiuti per tutta la casa.
Quelli Arthur imparò ad apprezzarli dopo, a poco a poco.
*
Andavano a fare una passeggiata ogni giorno, verso le sei, mentre il sole calava all’orizzonte e la sabbia prendeva un colore scuro sotto i loro piedi.
La spiaggia era quasi deserta e Arthur la preferiva decisamente alla calca della mattina. Poteva respirare e sentire il rumore delle onde. Non sapeva esattamente perché Eames l’accompagnasse, ma di solito camminavano un poco l’uno accanto all’altro, senza parlare.
Probabilmente Arthur si era abituato a quei momenti, prima di tutto, quei minuti in cui Eames rimaneva in silenzio ed entrambi guardavano il mare avanzare e ritrarsi.
Poi Eames, ad un certo punto, decideva che ne aveva avuto abbastanza. E non era mai troppo presto né troppo tardi, come se riuscisse a cogliere i leggeri segnali che Arthur gli inviava.
Poi andavano a prendere l’aperitivo da qualche parte, di solito, prima di tornare a casa dove Eames avrebbe cucinato qualcosa.
Non uscivano molto, paradossalmente. Arthur si sarebbe immaginato che Eames vivesse una vita più mondana, ma spesso e volentieri si ritrovavano entrambi a casa - a leggere un libro o a vedere la TV.
Era rilassante e giusto, ma Arthur non voleva pensarci più di tanto. Non voleva rovinare tutto.
*
Arthur aveva provato ad insistere, a dire che avrebbe dormito sul divano - era comodo, dopotutto, e spazioso, - ma Eames aveva rifiutato, dicendo che era assurdo che, avendo lui un letto matrimoniale, non dovessero utilizzarlo.
Avrebbe potuto impuntarsi, certo, ma con Eames - con qualsiasi cosa riguardasse Eames, - Arthur non aveva mai realmente la forza di negare a lungo.
La prima volta che Eames si era voltato nel sonno, posandogli un braccio sulla vita, Arthur l’aveva spinto fuori dal letto. Eames non si era nemmeno svegliato e quando, il giorno dopo, gli aveva chiesto perché fosse a terra, Arthur si era limitato a dargli un calcio.
La seconda volta si era limitato a spostargli un braccio - con molta poca delicatezza, a dire il vero, - e si era spostato un po’ più al lato, mentre Eames grugniva ancora addormentato.
La terza volta aveva perso la pazienza.
«Eames, devi piantarla!» aveva urlato, dando un calcio all’altro, che si era svegliato di colpo, guardandosi intorno ancora addormentato.
«Uh? Cosa succede, tesoro?» aveva mormorato, la voce impastata di sonno e no, Arthur non lo trovava adorabile. Nemmeno un poco.
«Devi smetterla di abbracciarmi nel sonno!» ripetè, cercando di convogliare tutto il suo fastidio in quelle parole.
«Non posso certo controllare il mio corpo quando dormo, tesoro,» ragionò Eames. Aveva senso, probabilmente, ma ad Arthur non importava.
«Trova un modo o vado a dormire sul divano,» minacciò, la voce bassa e decisamente arrabbiata. Ed era ridicolo, perché non avrebbe dovuto essere una minaccia! Avrebbe dovuto essere una cosa normale!
Che ci faceva lui nel letto di Eames?
«Non fare così, tesoro,» protestò Eames, cercando di bloccare uno sbadiglio, «non…» ma prima che potesse dire altro Arthur si rese conto che si era riaddormentato.
La quarta volta Arthur si alzò e andò a dormire sul divano, per mantenere fede alla sua parola. Eames lo andò a riprendere alle quattro di notte, causandogli una crisi nervosa.
«Che diamine, Eames?» chiese, quasi urlando, ma l’altro non sembrava particolarmente impressionato. Era infastidito da qualcosa e Arthur davvero non riusciva a capirlo.
«Non riesco a dormire bene, se non sei a letto,» aveva finalmente detto l’altro, prendendolo per il braccio e trascinandolo di nuovo nella camera da letto.
La quinta volta che era successo Arthur non si era mosso, sebbene non fosse riuscito a riaddormentarsi per almeno un’ora.
La sesta volta non se ne accorse nemmeno.
*
Quando Eames si alzava ogni mattina lanciava i suoi vestiti ovunque e li lasciava lì, a terra. Quando Eames finiva una confezione di zucchero o farina o biscotti o qualsiasi altra cosa, posava le confezioni vuote in giro e poi se ne dimenticava, come se l’immondizia non fosse a qualche centimetro da lui.
Quando spacchettava un DVD gettava l’involucro trasparente a terra, e poi non ripuliva mai.
Dopo solo quattro giorni che erano lì quella casa era un porcile e Arthur aveva già preso l’abitudine di pulire in giro.
Non gli piaceva pulire, certo, ma gli piaceva vivere in un ambiente ordinato. E la casa di Eames non era ordinata per nulla.
*
Mal e Dom chiamarono per la prima volta cinque giorni dopo il suo arrivo.
«Non credo lavoreremo per un po’…» gli aveva detto Mal, ma Arthur poteva sentire la nota eccitata nella sua voce. Si morse il labbro pur di non chiedere.
Se avessero avuto bisogno di lui gliel’avrebbero chiesto, dopotutto. Lo preoccupava che non gliene parlassero, ovviamente.
Aveva paura perché Mal era un genio, ma un po’ tendente alla pazzia, che non sapeva mai quando fermarsi. Aveva paura che un giorno avrebbe creato un mostro fatto di pelle di cadavere e ne sarebbe stata incredibilmente fiera (Frankenstein, sì, Arthur dava la colpa ad Eames e alle sue maratone di film Horror).
Aveva paura, ma non poteva davvero fermarla. Non poteva fare nulla.
«Me l’avete detto. Quel progetto, no? » chiese allora, cercando di suonare indifferente. Mal avrebbe capito immediatamente che stava fingendo, ma non avrebbe detto nulla.
«Ti racconteremo tutto, Arthur, te lo prometto,» gli disse invece, e se fosse stata davanti a lui probabilmente gli avrebbe accarezzato la guancia, come faceva sempre lei.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, entrambi persi nelle proprie riflessioni e poi il momento passò.
«Allora, come vanno le cose? Devo aspettarmi una versione corretta e ampliata del “Perché odio Eames?”» chiese, ridendo, e Arthur avrebbe potuto arrabbiarsi. Avrebbe potuto chiuderle il telefono in faccia.
Invece rispose seriamente.
«Non va poi così tanto male,» ed era la cosa che lo sorprendeva di più.
Perché Arthur odiava ancora Eames. Odiava i suoi soprannomi, odiava il modo in cui approfittava di ogni occasione buona per toccarlo. Odiava il suo disordine e la sua arroganza.
Ma gli piaceva odiare. Era un sentimento che rimaneva, era un sentimento che lo faceva stare in piedi, che lo rendeva vivo.
Ed era pericoloso, incredibilmente pericoloso. Perché a poco a poco sarebbe diventato una droga, perché a poco a poco si sarebbe perso come era successo con i sogni. Avrebbe dovuto smetterla, probabilmente, ma le cose andavano bene e non molte cose nella vita di Arthur erano mai andate bene.
«Sono felice per voi, Arthur,» aveva detto Mal, e suonava sincera anche lei, sincera e più tranquilla «te lo meriti, sai? Probabilmente Eames non ti merita, ma se ti fa felice tu meriti lui.»
«Non ho detto che passeremo il resto della nostra vita assieme, Mal,» si sentì di puntualizzare, perché Mal sembrava aver capito male, sembrava…
«Certo, tesoro, certo…» e non gli era sfuggito l’utilizzo del nomignolo preferito di Eames. A quel punto Arthur le chiuse il telefono in faccia.
*
Erano passati sei giorni, dieci ore e ventisette minuti - non che Arthur avesse tenuto davvero il conto, era semplicemente qualcosa che gli riusciva naturale, un’abitudine che non riusciva a perdere, quella di contare il tempo - da quando erano atterrati a Mombasa.
Erano passati sei giorni, dieci ore e ventisette minuti da quando erano atterrati a Mombasa quando Arthur ed Eames si erano baciati. Era inevitabile probabilmente, anche se Arthur si era ripromesso più e più volte di non farlo mai.
Eames aveva sabbia tra i capelli e la sua lingua sapeva di sale e di mare. Arthur poteva sentire il suo petto, sotto le loro magliette bagnate, e la mano di Eames vagava senza sosta lungo il suo corpo, come se non sapesse cosa voleva toccare prima.
Era stata una stupida idea quella di Eames di buttarsi in acqua e di trascinare Arthur con lui. Arthur non aveva apprezzato e aveva affogato - quasi, almeno - Eames per dimostrarlo.
Era una bella sensazione, doveva ammetterlo, e quando Eames era riemerso, respirando a pieni polmoni e aveva detto «Tu te la sei goduta un po’ troppo per i miei gusti, tesoro,» Arthur non aveva avuto davvero il cuore di dire nulla. Si aspettava che Eames avrebbe fatto una qualche scena tragica su come lo trattasse freddamente, ma Eames aveva riso lascivamente.
«Oh, oh!» e sembrava così divertito, così arrogante «non sapevo avessi questo tipo di fetish! Avresti dovuto dirmelo, tesoro!» aveva detto, aspettandosi forse che Arthur si allontanasse velocemente o lo colpisse.
«E cosa avresti fatto, in quel caso?» si era invece sentito rispondere, come se non avesse avuto alcun controllo sul suo corpo, come se la sua bocca si muovesse da sola.
Si odiava un poco. Eppure l’altra parte di lui, quella a cui piacevano i sogni reali, a cui piaceva Mombasa, a cui piaceva odiare Eames, in quel minuto vibrava dentro di lui. E quando le labbra di Eames si posarono sulle sue, Arthur rispose.
Gli passò una mano sul collo, accarezzandogli i capelli e lasciò che Eames cominciasse a toccarlo ovunque. L’acqua arrivava loro alla vita e rendeva i loro movimenti più difficili.
Quando Eames si staccò, affannato, Arthur si allontanò un poco, deciso a trasportare il tutto fuori dall’acqua e possibilmente al chiuso.
Eames gli afferrò il braccio, il respiro affannato e la bocca rossa - incredibilmente rossa - «Stiamo sognando?» fu la sua domanda, veloce, a corto di fiato.
Arthur ricordava come erano arrivati lì - erano usciti di casa mezz’ora prima ed erano andati alla spiaggetta vicina, un po’ troppo piccola ma sempre isolata. E ricordava quando si erano spogliati lasciandosi addosso solo i costumi per passeggiare sul bagnasciuga.
Arthur però non disse niente. Attirò Eames contro di sé, baciandolo di nuovo per pochi secondi.
«Ha così tanta importanza?» chiese, quando si tirò indietro e Eames non rispose, baciandolo di nuovo. Arthur lo prese per un no.
*
Arrivarono a casa velocemente, e non appena chiusero la porta dietro di loro Eames gli si lanciò addosso, spingendolo contro il muro dell’ingresso.
Arthur avrebbe potuto lamentarsi, perché non aveva intenzione di far fare ad Eames tutto quello che voleva, ma non gli importava veramente, non in quel secondo.
Portò le mani ai lati del viso dell’altro, spingendolo di più verso di lui e facendo strusciare i loro bacini. Eames scese a mordergli il collo - e sì, sapeva già che gli aveva lasciato almeno tre succhiotti, il bastardo, e che se ne sarebbe vantato per almeno una settimana di fila - e Arthur gli passò una mano sui pettorali, prima di staccarselo di dosso e trascinarlo almeno verso il divano.
«E se poi lo roviniamo? Credevo che amassi quel divano!» scherzò Eames, baciandogli la nuca, e Arthur si voltò, gettandolo sopra il sofà.
«Avevo comunque intenzione di farlo rifoderare,» rifletté ad alta voce, scherzando fino ad un certo punto, e Eames si finse oltraggiato mentre Arthur si metteva a cavalcioni su di lui.
«Avresti dovuto rispondere qualcosa come “è il frutto del nostro amore, quindi è meraviglioso!”» lo rimproverò, mentre Arthur gli infilava la mano sotto il costume e gli stringeva l’erezione nella mano.
«Quello sarebbe stato semplicemente disgustoso…» rispose, mentre Eames si tendeva sotto di lui, inarcando il bacino per spingersi più a fondo nella stretta di Arthur.
Arthur accarezzò la base, risalendo per tutta la lunghezza e ricevendo in risposta un gemito incoerente. Scese nuovamente, mentre sentiva finalmente l’erezione dell’altro diventare completa.
«Non crederai davvero che si continui così, giusto?» chiese, mentre rimuoveva la mano e si affrettava a togliergli completamente il costume ancora mezzo bagnato.
«Non ci pensavo nemmeno,» rispose Eames, affannosamente, mentre andava anche lui a giocherellare con il costume di Arthur, rimuovendolo velocemente «oh, sembra che almeno qualcuno, qui in giro, sia felice di vedermi!»
«Non montarti la testa,» gli sussurrò Arthur sulle labbra, sdraiandosi su di lui e facendo toccare le loro erezioni «non ha un minimo di gusto.» Eames rise per qualche secondo, prima che Arthur gli mordesse il labbro inferiore. La mano di Eames si avvicinò velocemente alle sue natiche, spingendo Arthur verso di sé e la frizione tra i loro bacini strappò un gemito ad entrambi.
«Dovrei…» provò a dire Eames, ma gli mancò il fiato, per un secondo «dovrei suggerire di fermarci qui per preservare la tua virtù?»
chiese, ricevendo uno scappellotto da Arthur.
«Fottiti, Eames,» gli rispose, rimettendosi a cavalcioni e guardandosi in giro «lubrificante? Preservativi?»
«Dentro il puff,» lo istruì Eames, mentre Arthur alzava un sopracciglio «sempre meglio essere preparati per tutto, no?»
In effetti erano esattamente dove aveva detto Eames e Arthur li tirò fuori, versandosi un po’ di lubrificante nella mano e lanciando poi la confezione e i preservativi ad Eames.
Si rimise a cavalcioni sull’altro, mentre Eames afferrava il lubrificante per spargerselo sulle dita e prepararlo. Eames non aveva capito un cazzo.
Prima ancora che l’altro potesse fare qualsiasi cosa, Arthur si alzò sulle ginocchia, portando un dito alla sua propria apertura e infilandoselo dentro.
All’inizio era un po’ strano, ma quando Eames gli prese l’erezione tra le mani non riuscì a sentire altro.
«Dio, Dio Arthur, tu…» stava mormorando, incoerentemente, ma Arthur non aveva la testa di stare a sentire cosa dicesse, di rimettere a posto le sue parole spezzate e presto infilò anche il secondo dito, mugolando per il piacere. A quel punto Eames cercò di ribaltare le posizioni, inutilmente.
«Arthur, non ce la faccio più, non…» e Arthur decise che non ce la faceva più nemmeno lui. Si alzò un poco, prendendo l’erezione di Eames con una mano e cercando di mantenerla perfettamente ferma, e poi vi si adagiò sopra, facendola entrare nella sua apertura.
Inizialmente gli fece male, se l’era aspettato, e dovette fermarsi quasi subito, respirando profondamente. Eppure Eames aveva ancora tra le dita la sua erezione, anche se non muoveva la mano, perso com’era, e Arthur aveva bisogno di fare qualcosa; quindi si lasciò cadere di più, sentendo Eames farsi spazio dentro di lui sempre più a fondo.
Quando finalmente Eames fu completamente dentro di lui ricominciò a muovere la mano e a spingere il bacino all’insù, mandando Arthur completamente in visibilio.
Cominciarono a muoversi entrambi, l’erezione di Eames che colpiva di continuo quel punto - sisisisisisilìpropriolì - che toglieva il respiro ad Arthur per qualche secondo.
Fu Eames il primo a venire. Arthur appoggiò una mano su quella ancora stretta intorno alla sua erezione e la accompagnò facendola continuare - gli piacevano le mani di Eames, erano grandi e calde. Venne poco dopo sul suo petto, ansimando.
Lasciò che Eames uscisse da lui e si togliesse il preservativo, lanciandolo da qualche parte del salotto non ben definita, e cercò di riprendersi.
Qualche secondo dopo provò ad alzarsi, il respiro ancora accelerato e la stanchezza che cominciava a farsi sentire. Dovevano ripulirsi, Arthur non si sarebbe mai lasciato cadere sul petto di Eames mentre era ancora in quelle condizioni. Eames, però, la vedeva in tutt’altro modo e lo attirò a sé.
«Tutto questo è estremamente disgustoso, Eames!» protestò, cercando di alzarsi di nuovo, ma l’altro lo tenne stretto fermamente.
«Non fare così, non vuoi che ti coccoli per un po’, tesoro?» . A quel punto Arthur gli diede un pugno. Ma, a sua discolpa, Eames se l’era decisamente meritato.
*
Arthur sognava ancora, a Mombasa, sognava di spiagge e tramonti, certo, ma sognava anche di scale che non finivano mai e di pallottole. Sognava di morti e di segreti.
Lui ed Eames, a volte, utilizzavano il PASIV, a volte tornavano a Zurigo, a volte andavano a Barcellona - non avrebbero dovuto farlo, non si ricreavano posti dalla memoria, era una regola base, ma lo facevano lo stesso.
Era quasi una necessità per loro prendere il PASIV ed entrare in quel mondo, lo era per tutti coloro che l’avevano provato. A poco a poco entrava a far parte di te e non c’era nulla che tu potessi realmente fare per uscirne.
Sognava con Eames, spesso, di essere seduti su un’amaca nelle Fiji o di visitare un museo che avevano visto milioni di volte a Barcellona. Gli mancavano i sogni con Dom e Mal e aveva cominciato a sentirli molto di meno, ma stava bene lì. Stava bene.
Poi sognava realmente, da solo, e spesso sognava la sfera, quella che Eames gli aveva indicato a Zurigo tanto tempo prima. Le linee di colore blu si muovevano senza sosta sotto il suo sguardo e se Arthur provava a mettere una mano avanti per toccare la consistenza del vetro, questo si piegava sotto le sue dita come acqua e scivolava lontano. Quando si svegliava, dopo quei sogni, e si ritrovava Eames che lo soffocava quasi tra le sue braccia, rimaneva in silenzio. Ma non stava poi così tanto bene.
*
Non parlavano mai di cose importanti, di cose come il futuro o quello che volevano fare. Nessuno dei due ne sentiva la necessità, nessuno dei due sapeva cosa avrebbe voluto dire.
Passavano praticamente tutto il giorno assieme, litigavano per piccole cose e parlavano di tutto e niente. Eppure Arthur si sentiva come se non si fossero avvicinati in alcun modo.
Era come se fossero ancora all’aeroporto mentre Eames lo trascinava sul volo contro la sua volontà.
C’erano minuti in cui sembrava dovesse cambiare tutto, in cui uno dei due avrebbe potuto farsi avanti e dire qualcosa. Eppure non ci riuscivano mai, rimanevano in silenzio a guardare il vuoto che si riempiva di parole non dette.
Non c’era equilibrio in quello che avevano.
Avevano vissuto sette mesi assieme, a Mombasa, ma era come se ogni giorno fosse il primo e l’ultimo tutto assieme.
Non era una cosa completamente negativa - c’era l’eccitazione, ogni giorno, di qualcosa di nuovo che si formava nelle loro mani - ma nemmeno qualcosa di positivo. Non c’era la necessità di mettere parole in mezzo a loro, definizioni.
Se tutto fosse continuato così, ad Arthur sarebbe andato benissimo.
*
Andavano a fare la spesa assieme, ogni giorno, e poi Eames si fermava al casinò, magari, mentre Arthur faceva un giro tra le bancarelle locali o andava con lui - senza mai giocare troppo.
Fu lì che Arthur trovò il suo totem. Glielo diede Eames, paradossalmente, ma Arthur non gli disse mai che aveva deciso di tenerlo.
Tre mesi dopo il loro arrivo erano andati al casinò, una sera, una delle poche uscite che si concedevano settimanalmente. Non decidevano spesso di giocare l’uno contro l’altro - erano i soldi di entrambi, dopotutto, quelli che scommettevano - ma a volte capitava.
Quella sera era una di quelle: stavano giocando a dadi. Eames vinse ogni volta e Arthur non era così stupido da credere che fosse del tutto casuale.
«Me la pagherai questa, Eames,» gli sussurrò, passandogli accanto, mentre l’altro scoppiava a ridere, prendendo due dadi dalla tasca e mettendoglieli in mano.
«Pensa ora a quante persone vorranno giocare con te, e a quanti soldi potremo farci,» rispose, allontanandosi verso il tavolo del black jack.
Arthur soppesò i dadi nella mano, tastando la loro consistenza e cercando di sentire il loro peso.
Vinsero entrambi, quella sera, e quando tornarono a casa Eames lo pressò sul pavimento, sdraiandosi su di lui e scopandolo fino alla mattina successiva. Fu probabilmente in quell’occasione che Arthur perse uno dei due dadi, quello che cadeva sempre sul sei.
L’altro, che cadeva sempre sul quattro, rimase nella sua tasca, dimenticato.
Fu solo un mese dopo, quando Eames sfiorò la sua medaglietta e toccò il quattro che vi era inciso dietro, che Arthur ci ripensò.
«Non sapevo che nell'esercito si usasse incidere dei numeri dietro,» aveva mormorato, baciandogli la pelle proprio sotto la medaglietta. Arthur aveva considerato di rimanere in silenzio, ma non lo fece.
«È il mio totem, Eames,». L’altro si era ritirato velocemente, come se improvvisamente la sua pelle scottasse e lui dovesse allontanarsi il più possibile. Lo guardava preoccupato, come se Arthur fosse a due secondi dall’ucciderlo.
Incredibilmente non gli importava.
«Io…» provò Eames, incerto su cosa dire, «cosa vuol dire il quattro?» chiese invece poi, lasciando che la sua curiosità avesse il sopravvento, una volta capito che Arthur non stava per attaccarlo.
«Ho ucciso la mia prima persona quattro giorni dopo essere entrato nel programma,» rispose, sporgendosi in avanti e mordendo il collo dell’altro, piano «mi sembrava giusto.»
Non c’erano molte altre storie dietro quel numero. Semplicemente era un memento, un ricordo.
Poi Eames decise che, dopotutto, non gli importava così tanto e gli infilò finalmente la mano nei pantaloni.
A ripensarci dopo, probabilmente, avrebbe potuto riprendere il discorso una volta finito il tutto, non mentre Eames era dentro di lui e spingeva, spingeva, spingeva.
«E tu, Eames,» disse, tra un gemito e l’altro, «ce l’hai un totem?». L’altro non si degnò nemmeno di rispondergli, aumentando il ritmo e baciandolo - probabilmente per evitare che ripetesse la domanda.
Fu solo molte ore dopo che finalmente Eames ci ripensò. «Non ho un totem,» disse, mentre stava con gli occhi chiusi appoggiato al petto di Arthur, la sua barba che gli solleticava la pelle «non ne ho mai sentito il bisogno, non mi è mai interessato capire cosa fosse reale.»
Era una risposta a cui Arthur aveva pensato. Eames non era così interessato a dividere il sogno dalla realtà, viveva in mezzo, nella linea grigia che tutti dicevano di evitare e in cui lui, invece, si era fatto una casa.
Arthur non gli chiese più nulla, addormentandosi poco dopo cullato dal russare dell’altro; ma la mattina dopo, quando andò a recuperare il dado rimasto - quello che finiva sempre sul numero quattro - cominciò a pensare e si toccò la catenina.
*
Fu esattamente otto mesi, sedici ore e cinquatasette minuti dopo che Arthur era atterrato a Mombasa che Dom lo chiamò.
Non si sentivano da minimo due mesi - «Saremo troppo impegnati per un po’, Arthur… siamo così vicini, non hai idea!» - e quando Arthur vide il numero di Dom che lampeggiava sul suo cellulare quasi sorrise di riflesso.
«Dom, ehi,» disse, portandosi il telefono all’orecchio. E poi tutto andò a puttane.
*
Arthur avrebbe potuto urlare contro Dom, chiedergli perché non gliel’avesse detto prima. Se Mal stava così male perché non l’aveva chiamato?
Credevo di poterla gestire da solo, avrebbe detto, perché quello era Dom e Dom era fatto così.
Arthur avrebbe potuto scoppiare a piangere e Dom avrebbe cercato di consolarlo, anche se probabilmente era distrutto. Anche se probabilmente avrebbe voluto buttarsi anche lui da un palazzo.
Arthur avrebbe potuto reagire in molti modi, a dire il vero, e gli passarono tutti davanti agli occhi in pochi secondi. Ma c’era solo una cosa che avrebbe mai realmente fatto.
«Dammi qualche ora, Dom, prendo il primo aereo,» annunciò, senza nemmeno rifletterci troppo, senza nemmeno pensare ad Eames. Ad Eames che era andato a comprare qualcosa per quella sera, da mangiare assieme.
Avrebbe dovuto aspettarlo e spiegargli, ma non aveva tempo. Non raccolse nulla, se non lo stretto necessario - non erano certamente i soldi quelli che gli mancavano e avrebbe potuto ricomprare tutto senza nessun problema.
Prese il dado truccato e se lo mise in tasca, prendendo la sua medaglietta e lasciandola alla fine del letto.
Non sapeva se Eames avrebbe capito, non sapeva se anche Eames aveva pensato a come quei mesi non fossero stati altri che un sogno nella realtà.
Quante volte Arthur aveva toccato il suo totem? Quante volte aveva dovuto assicurarsi che non stessero ancora dormendo?
Eppure era la realtà, era sempre e comunque la realtà, e magari toccando il quattro inciso sulla sua medaglietta - che aveva un piccolo rigonfiamento alla fine della stanghetta - Eames si sarebbe potuto ripetere la stessa cosa.
O forse lo stava lasciando lì solo per farsi ricordare, solo perché, alla fin fine, Arthur era il vero bastardo tra di loro.
*
«Ci serve un falsario,» avrebbe detto Dom, qualche anno dopo, quando il dado rosso sarebbe risultato familiare tra le dita di Arthur e di Mal non sarebbe rimasto altro che un’ombra che continuava a perseguitare Dom ovunque andasse - e che non aveva nulla della donna che Arthur amava, nulla - «ci serve il migliore.»
E Arthur avrebbe saputo che Dom voleva dire ci serve Eames.
Non si videro più dopo che Arthur lasciò Mombasa. Eames rimase lì, nella sua casa intestata a Hugh Laurie, anche se Arthur non seppe mai perché - forse perché aspettava lui o forse per qualche altra ragione, ma la cosa non aveva importanza.
«Stai scherzando? Eames è a Mombasa, è praticamente il cortiletto della COBOL,» avrebbe detto e Dom non avrebbe fatto nessun commento sul fatto che Eames fosse ancora in quella città o che Arthur lo sapesse. Non avrebbe detto nulla, ma sarebbe andato a prendere Eames personalmente.
Arthur avrebbe continuato a lanciare il dado per ore, dopo la sua partenza. E ad ogni quattro - sempre e solo quattro, per sempre quattro, - avrebbe sentito il bisogno di lanciarlo un’altra volta.
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