Titolo: (I'll never be the same) If we ever meet again
Autore:
chibi_saru11 Beta:
faechan E E' DI UNA BELLEZZA ASSURDA. NO DAVVERO, LO E'.
Fandom: Inception
Personaggio: Arthur, Eames, Mal (menzionato Dom)
Paring: Arthur/Eames, Dom/Mal
Rating: NC.17
Warning: Slash, Slash, Pre-Inception fic, Canon Character Death
Parole: 11.330 (FiDiPua) [in totale]
Riassunto: La vita di Arthur era cominciata in una giornata di fine Novembre, sotto la pioggia scrosciante e le urla di due dei suoi compagni. E Arthur non l’avrebbe mai dimenticato. [Pre-Inception fic]
Note:
1. Nel fandom inglese si scherza che, prima o poi, sia obbligatorio scrivere una past!fic con il passato di Arthur. Io l'ho fatto, perchè non potevo certo essere da meno e questo è quello che ne è uscito fuori. La storia arriva fino ad Inception ed è vista come un prequel, quindi dopo questo avviene effettivamente il film e poi... boh 8D
2. Ma questo non è l'unico motivo per cui ho scritto questa fic. L'11 Novembre è un giorno bellissimo, dovreste tutti amare l'11 Novembre (amatelo maledizione, AMATELO!) perchè è il giorno in cui è nata la mia
3x9_lover e lei è bellissima e meravigliosa e questa fic è tutta tutta tutta per lei (e sì, lei l'ha avuta in tempi più decenti XDDD).
Ti ho fatto gli auguri il giorno stesso e prima (a Lucca) e dopo (con la fic) ma te li faccio anche un mese dopo (PERCHE' IO PUO') TANTISSIME ANGURIE TESORO MIO \O/ *limona*
3. Se non sapevate chi era Anthony Hopkins I'M JUDGING YOU. E Wikipediatelo e poi vedete TUTTI I SUOI FILM PERCHE' SONO IL BENE.
4. Vorrei inoltre specificare che io non sono mai stata a Zurigo. Perchè scegliere questa città? Perchè mi ispirava. Gli oggetti descritti dovrebbero, comunque, tutti essere a Zurigo dato che li ho presi dal sito del museo XD
Disclaimer: Inception non mi appartiene. A meno che io non abbia fatto un'inception su Nolan, certo. Ma purtroppo no. Bummer.
La vita di Arthur cominciò quando Arthur aveva… beh, 19 anni per una delle sue carte d’identità, 21 per un’altra e 16 per la terza - e questo contando solo le carte d’identità che usava più spesso.
Arthur ricordava quanti anni avesse realmente (per la sua vera carta d’identità), al tempo, ma non era importante.
Il punto era che la vita di Arthur non era cominciata il giorno in cui era nato con un nome diverso da Arthur e una famiglia che ormai non esisteva più. La vita di Arthur era cominciata in una giornata di fine Novembre, sotto la pioggia scrosciante e le urla di due dei suoi compagni.
E Arthur non l’avrebbe mai dimenticato.
*
Arthur era entrato nell’accademia militare per un motivo, lo ricordava; perché non credeva avrebbe mai potuto esserci un altro posto adatto a lui.
Si era sbagliato, ma non era questo il punto.
Il punto era che Arthur aveva un sogno, una volta. Un sogno patriottico che lo faceva andare avanti, che gli dava forza. Poi loro gli avevano dato un sogno. Uno, due, milioni, centinaia.
Sogni di guerra, sogni di sangue. E a poco a poco aveva dimenticato il suo, di sogno, e si era perso nei loro.
I militari l’hanno inventato per permettere ai soldati di spararsi, strangolarsi ed uccidersi a vicenda per poi svegliarsi, avrebbe spiegato un giorno ad una ragazza, ma mentre lo viveva non lo capiva sul serio. Mentre lo viveva sembravano solo sogni e morti senza significato.
Nella realtà (ma qual’era la realtà? Quando cominciava il sogno e finiva la vita reale?) gli stessi compagni che aveva ucciso prima gli sembravano zombie, lo spaventavano. Come potevano essere vivi se lui ricordava così chiaramente di aver sentito la loro vita scivolare via dal loro corpo sotto le sue mani?
Arthur si stava perdendo - e con lui tutto il resto del reggimento, davvero - ma non potevano fare altro che affogare.
E morire, volta dopo volta.
*
Arthur era morto la prima volta due giorni dopo essere arrivato nel suo nuovo campo.
Non era stata una morte particolarmente impressionante. Un colpo di pistola,secco e pulito, che l’aveva ucciso istantaneamente - o quasi.
Quando si era svegliato si era messo a sedere, cercando di respirare più che potesse, godendosi la sensazione dell’aria che gli entrava nei polmoni. si era sentito più vivo che mai.
Gli era sembrata un’idea stupenda, una trovata geniale, la rivoluzione di tutto l’addestramento militare.
Poi Mark, il compagno che gli aveva sparato prima, si era svegliato e si era voltato verso di lui. Era pallido, sudato e spaventato. Così tanto spaventato.
Per un giorno intero Mark l’aveva seguito ovunque andasse, senza perderlo mai di vista. Arthur aveva pensato che stesse esagerando.
Poi Arthur aveva ucciso la sua prima persona, nel sogno, due giorni dopo.
Non era una sensazione a cui era abituato. Non era una sensazione facile da gestire. Aveva voglia di piangere e urlare; aveva voglia di buttarsi a terra e non alzarsi mai più.
Non era il nemico quello che aveva ucciso, ma Charlie che gli aveva dato un leggero pugno sul braccio quella mattina e che sorrideva mostrando tutti i denti e che…
Poi si erano svegliati. Tutti, anche Charlie.
E la sensazione era sparita, ma ora non riusciva a sorridere a Charlie allo stesso modo. Ora c’era qualcosa che sembrava sbagliato nel modo in cui il suo petto continuava a muoversi, su e giù.
Poi Arthur comprese che Charlie stava respirando. E che sembrava una cosa incredibilmente fuori posto.
*
Nel corso dei mesi in cui durò l’esercitazione, Arthur sentì ogni parte della sua anima venire prosciugata, piano piano. Era una visione particolarmente poetica, ma poco significativa, solo che non avrebbe mai saputo spiegare il modo in cui tutto cambiò.
Era morto più volte di quante potesse ricordarne, in più modi di quanti gli piacesse ricordare. Aveva ucciso ogni suo compagno almeno più di una decina di volte, vedendoli diventare freddi sotto i suoi occhi attenti.
Aveva smesso di importargli. A tutti aveva smesso di importare.
Arthur sapeva uccidere una persona in meno di cinque secondi; sapeva colpire i punti esatti per paralizzare qualcuno e lasciarli inermi e alla sua mercé; Arthur sapeva dove tagliare e con quale profondità per uccidere qualcuno in un colpo solo. Arthur non sapeva perché avrebbe dovuto smettere.
Non sapeva se erano vivi o morti o entrambi (in qualche maniera strana e contorta che non avrebbe mai potuto spiegare), ma avevano smesso di cercare di capirlo. Morivano, volta dopo volta, e si svegliavano, senza nemmeno più annaspare.
Poi alcuni morivano e non si svegliavano più.
Quando questo succedeva capivano di essere nella realtà (o forse no, forse erano loro ad essere tornati indietro e loro stavano ancora sognando).
Tre mesi dopo l’inizio dell’addestramento il progetto PASIV si dimostrò un fallimento e l’intera divisione venne riallocata.
Fu allora che Charlie sparò a Edwin, ad una gamba. Nel mondo reale.
Arthur reagì ancora prima che il suo cervello potesse collegare - era così abituato a farlo, gli veniva così facile… - e gli bloccò un braccio dietro la schiena, facendogli mollare la presa della pistola per poi portare una mano alla sua testa e spingerla in basso.
Gli avrebbe rotto il braccio, prima, poi l’avrebbe buttato a terra e gli avrebbe rotto anche l’altra mano. Non doveva ucciderlo, doveva solo immobilizzarlo.
Anche se avrebbe potuto ucciderlo, avrebbe potuto premere quel punto lì, accanto al collo. Lo conosceva, l’aveva utilizzato così tante volte.
«Davvero impressionante…» disse qualcuno dietro di lui e Arthur mollò la presa, mentre l’osso della spalla di Charlie si rompeva.
Si voltò verso la donna che aveva parlato.
«Tu chi sei?» chiese, mentre Charlie cadeva a terra, urlando per il dolore al braccio ed Edwin urlava per il dolore alla gamba.
La donna sorrise, però, «Ti andrebbe di lavorare per me?» rispose.
Era una giornata di fine novembre, stava piovendo e i suoi compagni urlavano dietro di lui. E Arthur disse sì.
*
Apparentemente il padre di Mal aveva ricevuto il PASIV per vie non esattamente legali e se ne era innamorato.
Aveva giocato con i livelli di un mondo che era completamente al suo servizio e ne aveva plasmato ogni singolo aspetto.
Mal aveva ricevuto la passione da suo padre e gli aveva mostrato giardini immensi ed edifici pieni di paradossi e situazioni impossibili.
Arthur, che conosceva solo il sangue e le urla e le morti, rimase quasi sconvolto quando scoprì quell’altro lato dei sogni.
Mal rise e rise e rise.
Lei gli accarezzava I capelli a volte, o lo sfiorava gentilmente quando lo vedeva tremare più del solito.
Era stata Mal a chiamarlo Arthur per la prima volta.
Lui stava ascoltando della musica -Chopin - e lei si era seduta accanto a lui, chiudendo gli occhi e ascoltando.
«Arthur è un bel nome, non credi?» aveva detto, guardandolo fisso.
«Credo di sì…» aveva risposto lui e da allora Mal non aveva mai smesso di chiamarlo in quel modo.
Arthur, gli piaceva, aveva un suono duro sulla sua lingua. E chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quel nome.
Dalla sua nuova identità.
*
Mal era stata quella che l’aveva trovato, ma Dom era stato quello che l’aveva tirato fuori a forza, che l’aveva trascinato e spinto.
Dom il ragazzo - e un giorno sarebbe diventato il marito - di Mal, era stato iniziato a quel lavoro dal padre di lei e i palazzi che creava erano veri e propri capolavori.
Quando Arthur aveva detto che sarebbe andato a comprare un completo - perché gli mancava la divisa e i vestiti di ogni giorno erano quasi pesanti quando li indossava - era stato Dom ad accompagnarlo, ad aiutarlo a scegliere.
E quando si metteva la giacca e la cravatta riusciva a respirare, ed andava meglio.
Dom era stato quello che l’aveva fatto riabituare al sogno, alle sue sfaccettature più dolci oltre che a quelle più aspre. Dom gli aveva insegnato a sognare tutto da capo.
E ora Arthur capiva cosa ci vedevano tutti loro nei sogni.
Era stato Dom a consigliargli di crearsi un totem. Arthur ci aveva pensato e ripensato, ma nulla sembrava giusto, nulla sembrava abbastanza. Scelse la sua targhetta da militare e incise su di essa un numero, sul retro, e lo nascose sotto la maglietta.
Nessuno, nemmeno Dom e Mal, sapeva del 4 che Arthur aveva scolpito nel retro della medaglietta (e nessuno avrebbe mai saputo che in realtà la stanghetta finale del 4 era meno profonda del resto del numero).
Dom lo aiutò a camminare sulle sue proprie gambe, ad abituarsi di nuovo.
E Arthur decise che non avrebbe mai tradito nessuno dei due. Che li avrebbe protetti per ricompensarli.
Fu in un minuto qualsiasi, in un periodo non importante, che Arthur promise di dedicare a loro la sua vita.
*
Miles, il padre di Mal, credeva nella bellezza dei sogni. Credeva nella loro perfezione, nella sensazione di pace che donavano e nella bellezza di poter creare interi mondi dal nulla.
Mal era più interessata a capirne le meccaniche, voleva prendere tutto quello che i sogni potevano darle e sfruttarli al meglio. Dom seguiva Mal senza domande, semplicemente perché era attratto dalla sua risata e dal suo intero essere.
Arthur seguiva loro perché non aveva dove altro andare.
Era stato per questo progetto che Mal l’aveva reclutato, gli spiegarono, dopo un po’. Perché Arthur era il migliore e perché avevano bisogno di qualcuno che coprisse loro le spalle.
Il nome del cliente era Rodmick Jusupov, un russo che aveva bisogno di conoscere le mosse di una sua azienda rivale cinese.
Arthur non era certo di come si sentisse a tenere il fucile di nuovo tra le mani, non era certo che fosse sicuro. Quindi cominciò a fare ricerche. Mentre Dom e Mal costruivano palazzi e mondi, Arthur costruiva una rete di sicurezza, per assicurarsi che nessuno di loro finisse ammazzato, per assicurarsi che sarebbe andato tutto bene.
Non lo divertiva, ma lo faceva sentire più tranquillo, e quando ebbe scoperto anche il dettaglio più insignificante sulla vita del Signor Jusupov e su quella del suo rivale, potè tenere la pistola in mano senza tremare, muoversi all'interno della banca che gli altri due avevano costruito così perfettamente come se fosse ancora nel campo di addestramento, sparare come se fosse una sua seconda natura.
Quando si svegliò e Mal e Dom erano accanto a lui - anche se qualcuno aveva sparato in testa a Dom e Arthur si era buttato davanti a Mal per proteggerla e ne era uscito con più colpi di pistola di quanto gli piacesse ricordare - Arthur non si sentì bene. Si sentì di nuovo come durante l’addestramento.
Ma andava bene lo stesso. Dopotutto era bravo e quello? Quello era il suo posto.
*
Con ogni lavoro diventavano più bravi, più efficienti.
I livelli che Mal e Dom creavano erano capolavori di architettura e fisica, che permettevano loro di scappare velocemente qualora fosse stato necessario.
Il sognatore era Arthur, spesso. I suoi mondi erano più lineari, più stabili, dicevano Mal e Dom.
Ad Arthur piacevano le cose ordinate, ad Arthur piacevano le cose d’altri tempi. Ad Arthur piaceva quando era tutto al suo posto.
Quindi era sempre Arthur quello che doveva scappare dalle proiezioni, che veniva ucciso per primo, che si beccava tutti i proiettili. Era morto così tante volte che ormai non provava alcun tipo di sorpresa nello risvegliarsi - i primi tempi era stato terribile, ma ora era esattamente come svegliarsi da un sogno normale.
Però Mal e Dom avevano cominciato a morire molto di meno e Arthur cominciò a pensare che avrebbe dovuto fare di tutto per evitare che i suoi compagni morissero. Che sarebbe stato quello il suo lavoro una volta dentro il sogno.
A poco a poco, morte dopo morte, lavoro dopo lavoro, Arthur si rese conto che tutto quello cominciava a piacergli. Che, dopotutto, finché aveva il suo totem, finché poteva distinguere la realtà dal sogno, gli andava bene. Che si stava abituando.
Che non avrebbe mai potuto viverne senza.
*
Arthur continuava a sognare normalmente; prima o poi avrebbe smesso, o almeno così diceva Miles, ma per ora si godeva quelle immagini senza senso che il suo cervello gli trasmetteva quando chiudeva gli occhi.
Non era sempre piacevole - a volte c’erano gli incubi e il sangue e Charlie e Max - ma Arthur trovava affascinante il modo in cui non fosse cosciente, in cui niente, in quel mondo, avrebbe davvero potuto fargli male.
Molti ritenevano che gli piacesse avere tutto sotto controllo - ed era vero, la maggior parte delle volte - ma durante i sogni reali si lasciava andare come non poteva fare nei sogni lucidi. Lasciava che per una volta fosse qualcun altro a ricercare ogni minimo dettaglio, a pianificare ogni singolo secondo dell’intera operazione.
Quando si svegliava dopo aver sognato era più rilassato del solito, più tranquillo. Mal lo prendeva in giro, Dom si limitava a sorridere.
Arthur si sistemava meglio la cravatta e cominciava a programmare il loro nuovo colpo.
*
I lavori divennero sempre di più, e sempre più difficili, e loro si ritrovarono ad essere famosi - famosi nel mondo dei criminali, almeno, ma era pur sempre notorietà e i soldi che cominciarono ad arrivare loro erano più di quanto si aspettavano.
Arthur non era entrato nella cosa per i soldi e si limitava a depositarli in conti sparsi in varie parti del mondo. Mal e Dom li usarono per comprare una casa e cominciarono a parlare di mettere su famiglia.
«Dei bambini, Arthur, che ne dici? Potresti essere il loro zio preferito!» gli aveva detto Mal, toccandosi la pancia sognante.
Il punto era, però, che più andava aumentando la difficoltà dei loro lavori più era evidente che non avrebbero potuto continuare a lavorare solo loro tre, che non sarebbe stato abbastanza.
«Abbiamo un architetto,» cominciò Dom, indicando sé stesso - e poi anche Mal, perché davvero, loro due costruivano tutto assieme «e un’estrattrice,» e Mal sorrise perché tutti e due sapevano che Dom avrebbe potuto essere molto meglio, ma che era troppo impegnato a preoccuparsi per lei per portare a termine il lavoro «e un point man,» concluse, puntando poi verso Arthur «ma ci serve almeno un falsario…»
Nessuno di loro conosceva qualcuno di adatto, ma per arrivare ai dettagli più segreti di ogni loro singolo cliente Arthur aveva dovuto immettersi in giri non esattamente raccomandabili. E questo aveva anche i suoi lati positivi.
«Potrei avere un’idea in mente…» mormorò, prendendo il taccuino che Mal gli aveva regalato per Natale - una moleskine nera - e aprendolo.
«Bravo?» si era limitata a chiedere Mal - come se non le servisse sapere il suo nome o altro se non quella singola domanda.
Arthur non lo sapeva. Gli era stato raccomandato, gli avevano detto che era il migliore - le sue fonti più sicure, quelle di cui Arthur si fidava di più - ma Arthur non credeva mai completamente a nessuno. Non senza controllare di persona.
«Controllerò,» disse dunque, guardando l’indirizzo scritto sulla sua moleskine.
*
Arthur non era mai stato a Zurigo, ma se ne innamorò immediatamente. Se non fosse stato lì per lavoro probabilmente si sarebbe lasciato catturare dalle chiese e dai musei e da quelle costruzioni bellissime.
Avrebbe dovuto consigliare a Dom e Mal di andarci - se già non l’avevano fatto. Il fatto era che ora, però, non aveva il tempo.
Le sue fonti avevano localizzato Eames in un hotel a Zurigo -nel mezzo dell’Altstadt, la città vecchia - un hotel non troppo rinomato, un po’ anonimo, ma estremamente carino.
Solo che, quando Arthur vi entrò, chiedendo del signor Anthony Hopkins (e davvero, poteva scegliere un nome un po’ meno prevedibile?) gli dissero che era fuori e che, se voleva, poteva lasciare un messaggio.
«La sta aspettando, signor…» chiese il concierge, guardando verso Arthur. Lui si limitò a scuotere le spalle.
«Tornerò dopo,» annunciò, voltandosi ed uscendo dall’hotel - grato per la sua conoscenza, seppur molto superficiale, del tedesco.
Eames non lo stava aspettando, in teoria non avrebbe dovuto avere nemmeno la minima idea che Arthur fosse lì o di chi fosse Arthur, e non voleva dargli nessun vantaggio.
Si rese conto, mettendo le mani guantate dentro le tasche del cappotto, di avere un po’ di tempo libero; non aveva pensato a cosa avrebbe potuto fare, ma aveva, a dire il vero, sperato di avere un po’ di tempo per guardare la città.
Sarebbe dovuto restare nelle vicinanze dell’hotel, quindi avrebbe dovuto cercare qualcosa che era vicino ad Altstadt. Prese la guida turistica che aveva comprato prima di partire e individuò i monumenti più vicini a dove si trovasse.
Il Museum für Gestaltung catturò subito la sua attenzione. Non era troppo lontano da lì e la guida diceva che era un centro di riferimento per tutto ciò inerente al concetto di forma, dove design ed architettura avevano un ruolo assolutamente centrale.
Non era un periodo particolarmente affollato a Zurigo - non era natale, né un periodo estivo, e il freddo allontanava molti turisti -, quindi Arthur non dovette fare molta fila per poter finalmente entrare.
Il museo era bellissimo e Arthur si perse tra le opere, lasciando che la sua mente vagasse senza darle troppo peso. Era rilassante quel luogo, con così poche persone.
Si fermò davanti a due
sedie, poste
schienale contro schienale, gli piaceva il loro design compatto e semplice. Lo calmava, avrebbe potuto usarle per arredare uno dei suoi sogni.
«Willy Guhl, non lo trovi un po’ noioso?» chiese qualcuno, alle sue spalle, in perfetto tedesco - eppure c’era una specie di accento che risultava estraneo, un po’ troppo dolce.
Arthur si voltò verso l’altro, scrollando le spalle «Lo trovo funzionale ed elegante,» rispose, sinceramente. L’uomo non sembrava convinto, però.
«Poco creativo, però, ci vuole più immaginazione, a mio parere, per sfondare,» stava sorridendo e si era avvicinato a lui più del necessario, ma Arthur non si spostò.
«Sì? E sentiamo, cosa avrebbe più immaginazione?» chiese, mentre il suo interlocutore indicava una
sfera che molto gli ricordava i sogni reali, quelli senza controllo. Il blu che si mescolava ad altre striature, confondendosi e diventando qualcosa di indefinito.
«Non trovi sia magnifico?» e Arthur ci pensò su, ma decise di rispondere sinceramente.
«Lo trovo confusionario,» disse quindi, «impossibile da controllare. Caotico.»
«Lo dici come se fosse una brutta cosa,» sorrise l’uomo, come se la risposta l’avesse divertito incredibilmente.
Arthur avrebbe potuto rispondere al sorriso, ma preferì non farlo. Non sorrideva spesso, non se non ce n’era un reale motivo, non se Mal non era lì ad arruffargli i capelli subito dopo.
«In alcuni frangenti lo è,» fu la sua lapidaria risposta, mentre l’uomo accanto a lui cominciava a ridere ancora di più.
«Posso offrirti un drink? C’è un bar, qui vicino, dove si ci può riparare da questo freddo polare,» l’uomo gli chiese, quasi facendo un inchino.
Probabilmente pensava di essere affascinante, irresistibile. Che Arthur si sarebbe gettato ai suoi piedi immediatamente. Arthur fece una smorfia infastidita.
«Cosa? Prometto che sarà solo un drink, sono un gentiluomo, non proverò a portarti a letto al nostro primo incontro, tesoro,» disse lui, continuando a sorridere. Era un sorriso canzonatorio, ma anche divertito.
Arthur alzò un sopracciglio, lasciando che un sorriso di scherno gli nascesse sul viso «Non credo questo sia un problema,» asserì, ma l’altro non smise di sorridere, come se si fosse aspettato la risposta.
«Per il drink, invece? C’è qualche problema per quello?» insistette il suo interlocutore, invece di rispondere alla frecciatina, e Arthur lo scrutò per qualche secondo. Prima di scuotere le spalle.
«D’accordo, ma pagherà lei,» rispose, utilizzando il lei per mantenere una certa distanza, per non lasciare all’altro alcuno spazio «perché io non ho franchi con me, Signor Anthony Hopkins.»
Eames rise, di cuore, a sentire la sua copertura rinfacciata contro di lui così facilmente, e si incamminò, senza nemmeno controllare che Arthur lo stesse seguendo.
*
«Sono impressionato, devo dire. Non è una cosa da tutti trovarmi, Arthur,» fu la prima cosa che Eames disse, una volta che entrambi ebbero il loro drink in mano.
Il bar era carino, sebbene non esattamente il migliore della zona, Arthur non ci avrebbe probabilmente messo piede fosse stato da solo.
«Però lei ha scoperto che io stavo arrivando, Signor Eames,» rispose ,lui, anche se gli costava ammetterlo. Avrebbe dovuto aspettarselo, certo, non si diventava un ladro così bravo - e con una fedina penale immacolata - senza sapere sempre e comunque esattamente chi ti cercasse. Però Arthur non poteva comunque fare a meno di essere un po’ piccato.
«Non buttarti giù così, tesoro, non molti riescono a trovarmi a prescindere,» rispose invece Eames, guardandolo fisso «e non credi che potresti lasciare perdere il lei?»
«Perché dovrei farlo?» chiese Arthur, sinceramente incuriosito. Eames poteva anche essere il migliore, ma non gli piaceva, non gli piaceva per nulla.
Aveva già capito il tipo e sapeva, se lo sentiva sotto la pelle, che avrebbe creato problemi, che non avrebbe seguito il piano e avrebbe mandato tutto in malora. Che avrebbe sconvolto tutto.
«Beh, lavoreremo insieme, no?» e Eames sembrava così sicuro, così arrogante mentre si scolava il bicchierino di grappa che aveva ordinato poco prima.
«No,» rispose quindi Arthur, accavallando le gambe «non è ancora deciso,» toccava a lui deciderlo, dopo tutto. E lui non era convinto.
Eames poteva essere bravo - probabilmente lo era - ma Arthur non era certo che sarebbe mai riuscito a lavorare con lui. L’alchimia era importante, se non c’era quella lavorare diventava più difficile.
Non gli piaceva lavorare con persone di cui non si poteva fidare al 100%, non vi era abituato - non con Dom e Mal, certamente.
«Oh, andiamo!» si lamentò Eames, prendendogli una mano nelle sue «capisco che hai paura di innamorarti troppo di me, tesoro, ma…»
E a quel punto Arthur non riuscì più a trattenersi. Afferrò il polso della mano di Eames, quella che teneva stretta la sua, e lo spinse, facendolo girare - non completamente, non abbastanza da romperglielo, ma abbastanza da fargli un male cane.
A favore di Eames, Arthur notò che non urlò, ma si limitò a mordersi il labbro, contenendo il lamento di dolore.
«Non vedo, come ho già detto, alcun motivo di preoccuparsi di quello, Signor Eames,» ringhiò contro di lui, lasciando poi andare il suo polso.
Eames cominciò a massaggiarselo lentamente, mentre il sorriso ritornava spavaldo al suo posto.
«E allora non vedo quale altro potrebbe essere il problema, tesoro,» . Emanava sicurezza da tutti i pori e sorrideva come se pensasse che nessuno avrebbe mai potuto resistergli.
Arthur non gliel’avrebbe mai data vinta.
«Faremo un test, Signor Eames, per determinare le sue capacità,» decretò dunque, finendo il suo drink ed alzandosi «se saranno soddisfacenti potremo riparlarne, che ne dice?»
Gli sembrava un buon compromesso, dopotutto. Gli sembrava di aver ripreso il controllo della situazione.
L’espressione di Eames, però, sembrava suggerire tutt’altro. E Arthur lo odiò ancora di più per quello.
*
Arthur non era bravo come Dom e Mal a creare. Non aveva studiato architettura, ma ingegneria. Sebbene i suoi edifici mancassero di eleganza, però, erano strutturalmente perfetti.
Non avevano la poesia che a volte poteva vedere negli archi che Mal disegnava o nelle colonne che Dom plasmava. Però funzionavano.
Ad Arthur non era mai importato altro che questo: la funzionalità, la realisticità. Eppure ora, mentre Eames scrutava con sguardo attento l’edificio che era apparso davanti a loro, Arthur desiderò di essere capace di creare quelle colonne e quegli archi. Di essere capace di creare palazzi che lasciavano senza fiato chiunque li guardasse.
Eames sembrava poco impressionato dalla sua opera e Arthur lo odiò ancora di più.
«Spero davvero tu non sia l’architetto, sarebbe davvero imbarazzante,» si limitò a dire, «per creare ci vuole immaginazione, cosa di cui tu ovviamente manchi.»
«Vuole che io le rompa il polso questa volta, Signor Eames?» chiese, calmo e controllato, mentre si sistemava la cravatta nera del suo completo. L’aveva trovata appropriata, quella mattina, quando era partito per Zurigo.
Sarebbe stato un incontro di lavoro dopotutto, no? Ad Arthur piaceva fare una buona prima impressione.
Eppure non appena aveva visto Eames e quel maglione orrendo che continuava ad indossare, Arthur si rese conto che non aveva importanza. Perché nulla poteva essere più orribile di quel maglione.
«No, preferirei evitare, tesoro,» rispose Eames, ridendo, e Arthur si voltò verso di lui.
«Allora cominci a lavorare, signor Eames,» e poi, dopo qualche secondo, aggiunse «e la smetta di chiamarmi tesoro.»
*
Eames superò il test brillantemente. Si trasformò in qualunque persona Arthur gli mandò davanti: un bancario maniaco dell’ordine (questo assomiglia davvero a te!), un infermiere votato a salvare i più poveri, un cocainomane incallito. Persino quella modella bionda che aveva immaginato solo per prenderlo in giro.
Gli bastava vedere le proiezioni per qualche minuto, osservare come si muovessero, come parlassero e poi diventava loro. Senza alcuna possibilità di distinguere il falso dall’originale.
Eames era il migliore, le voci che gli erano arrivate si erano rivelate giuste, certo, ma Arthur avrebbe preferito non lo fossero.
Eames superò il test brillantemente, continuando a chiamarlo tesoro ad ogni occasione e, in generale, facendogli saltare i nervi.
Eames era il migliore e Arthur lo odiava.
*
Mal e Eames andarono immediatamente d’accordo. Arthur non ne fu sorpreso, erano entrambi spontanei e poco interessati a seguire uno schema. Facevano quello che volevano, quando volevano e non gli interessava nulla di tutto il resto.
Dom ed Eames, invece, ingranarono lentamente, occhieggiandosi guardinghi per alcuni giorni, prima di decidere per una relazione cortese, ma non particolarmente intima.
Dovevano recuperare i numeri della combinazione di una cassaforte dalla moglie di un famoso imprenditore, il nome della donna era Cheril Le Beurout, e il lavoro in sé non era particolarmente difficile.
Il problema era che il subconscio della donna era militarizzato, suo marito si era premurato che fosse così protetto che, probabilmente, nemmeno l’intero esercito degli Stati Uniti avrebbe potuto vincere.
Arthur e Dom avrebbero cercato di tenere lontane le proiezioni, mentre Mal avrebbe fatto la padrona di casa di una grande villa di stile settecentesco che organizzava un party decisamente sfarzoso - uno di quelli che Cheryl amava particolarmente - mentre Eames avrebbe preso le sembianze della cugina di Cheryl e avrebbe cercato di farle rivelare la combinazione.
Arthur aveva ricercato e sistemato ogni più minimo dettaglio, aveva pensato ad ogni cosa che potesse andare nel verso sbagliato, a qualsiasi domanda avrebbe potuto porre Cheryl. Evidentemente non aveva pensato ad Eames.
Ad Eames che era riuscito a rovinare tutto il suo piano elegantemente. E che aveva comunque portato a termine il lavoro senza alcun problema.
Semplicemente non come Arthur l’aveva pianificato.
*
«Oh, andiamo! L’importante non è che siamo riusciti a completare il lavoro?» chiese Eames, passandogli un braccio sulle spalle, come se fossero amici. O colleghi. O persone che si sopportano. E Arthur non aveva alcuna intenzione di essere alcuna di quelle cose.
«Avevamo un piano, Signor Eames,» soffiò tra i denti, cercando di fare capire all’altro che, se ci teneva al braccio, avrebbe fatto meglio a toglierlo da lì e se ci teneva alla vita avrebbe fatto meglio a sparire «non c’era alcuna ragione di deviare dal piano, non c’era-»
«Il piano era noioso, caro,» disse Eames, suonando tanto come un bambino che era appena stato rimproverato - ma almeno aveva tolto il braccio e Arthur la considerava una vittoria personale - «e andiamo, non puoi dire che non è stato divertente!»
«Divertente per chi, Eames? Perché hai pensato di entrare lì e sedurre il nostro bersaglio?» e non stava urlando, Arthur non urlava, abbassava la voce pericolosamente. Trovava fosse un modo molto più efficace di spaventare chi avesse davanti. «Sai quante cose sarebbero potute andare storte?»
Eames, però, non era minimamente intimorito, nemmeno un poco, e continuava a rimanere là, tranquillo. Come se Arthur non fosse pronto a scaricargli addosso la sua pistola.
«Ma non è successo nulla, no?» fu la sua risposta e a quel punto Arthur dovette farsi realmente violenza per non dargli un pugno proprio su quel suo sorrisino da strapazzo.
«Avrebbe. Potuto.» Lo ripetè a denti stretti, stringendo i pugni così forte che si fece quasi male. Come faceva quel cretino a non capire che aveva messo a repentaglio l’intera operazione? Come poteva non capire quanto fosse importante avere un piano?
Se si aveva un piano si evitavano cose spiacevoli. Se si seguiva il piano si poteva controllare e limitare i danni, la maggior parte delle volte.
Ma Eames aveva preso tutte quelle cose e le aveva gettate nel cesso, con nonchalance, come se non fosse successo nulla. E Arthur non poteva perdonarglielo, semplicemente non poteva.
«Tu non vivi mai un po’, Arthur?» e questa volta Eames sembrava serio - non l’aveva chiamato tesoro o caro o cucciolo o qualcosa di simile - e il suo viso non aveva il solito sorriso di scherno.
Arthur ripensò alla volta in cui si era sentito più vivo, con l’ossigeno che gli riempiva i polmoni e il ricordo di una pallottola che gli perforava la carne. No, avrebbe voluto dire, io non vivo mai. Sentirsi vivi è pericoloso.
Invece si aggiustò la giacca, «Non credo siano affari tuoi.»
Eames non rispose e il momento di tensione che Arthur aveva sentito tra di loro passò, così come era venuto.
«Finalmente mi dai del tu! tesoro, sono emozionato!» disse, improvvisamente, e Arthur si rese conto che era vero, che aveva cambiato dal lei al tu nel mezzo della discussione. E ora non poteva rimangiarselo.
«Non ti meriti una cortesia come l’uso del lei,» disse allora, lanciandogli un’occhiata di puro disprezzo ma cui Eames rispose semplicemente con un sorriso compiaciuto. Maledetto, maledetto Eames.
«Non vedo l’ora di lavorare ancora con te, tesoro,» e il suo sorrisino era ancora lì, che pregava Arthur di prenderlo a pugni fino a farlo sparire «e magari di fare altro.»
«Se io avrò una qualsiasi opinione in merito,» rispose immediatamente, cercando di mantenere il suo tono in più freddo possibile «non solo non lavoreremo mai più insieme, ma non faremo mai e poi mai altro. Ho degli standard, io.»
E non era esattamente vero; non che non avesse degli standard, ce li aveva eccome, ma che Eames non rientrasse in suddetti standard. Era insopportabile ed era un cafone e portava caos ovunque andasse, ma Arthur era disposto a concedergli che fosse il falsario migliore che ci fosse in giro e che sapesse quello che faceva, la maggior parte delle volte e quando non andava in giro a rovinare piani altrui. Era attraente, certo, era stata la prima cosa che aveva notato quel giorno a Zurigo.
Il punto era, però, che Arthur aveva dei principi. E che non aveva alcun interesse a farsi Eames una notte e poi vederlo andare via con quella sua espressione soddisfatta.
Eames si limitò a ridere più forte al suo commento e portò una mano in avanti, probabilmente per scombinargli i capelli - e solo Mal poteva farlo, perché Mal era stata la prima a dirgli che avrebbe dovuto smettere di tenere i capelli a quel modo e a cui Arthur aveva detto che lo facevano sentire meglio - quindi Arthur gli afferrò il polso e lo girò, di nuovo, esattamente come a Zurigo.
«Felice di vedere che non hai ancora perso il tocco,» si limitò a dire Eames, evidentemente in preda al dolore - la sua voce era un po’ forzata, come se per parlare normalmente ci fosse voluta tutta la sua forza di volontà.
«Non molto felice di vedere che sei ancora qui, Eames, spero non ci dovremo rivedere poi tanto presto,» sibilò, lasciando andare il braccio dell’altro e incamminandosi verso l’uscita.
Aveva giusto il tempo di tornare in albergo, cambiarsi e poi raggiungere Mal e Dom a cena.
«Stammi bene, tesoro, a presto,» gli gridò dietro Eames.
Arthur decise di ignorarlo.
*
Il problema era che Eames era il migliore. E che a Dom piaceva lavorare con i migliori, lo faceva sentire meglio.
Il problema era che Eames era fantasioso. E che a Mal piacevano i tipi fantasiosi, le ricordavano lei e seguivano le sue idee strampalate.
Il problema era che Arthur non sopportava Eames, ma Mal e Dom sembravano assolutamente decisi a voler lavorare con lui.
E a mandare lui a riprenderlo. Arthur non sapeva perché, esattamente, Dom e Mal avessero deciso che era il suo compito. Avrebbe potuto lamentarsi un po’ di più, certo, ma la prima volta Mal e Dom stavano decidendo che chiesa utilizzare per il matrimonio e Arthur non se la sentiva di insistere e la seconda volta Mal era incinta e, beh, Arthur non era così senza cuore, e la terza volta non ricordava nemmeno cosa fosse successo.
Il punto era che, apparentemente, Arthur si era ritrovato a viaggiare per tutto il mondo ad inseguire Eames. Ed Eames l’aveva notato, ovviamente, e non perdeva mai occasione per fare battute - «Lo so che ti sono mancato, tesoro, ma seguirmi fino in Cina?» o «Ti piace proprio rincorrermi, hm?» - e poi Eames, dopo quella volta a Zurigo, continuava a registrare le sue camere d’albergo sotto il nome di un famoso attore britannico (e, seriamente, com’era possibile che nessuno se ne accorgesse? Arthur trovava questa completa ignoranza mondiale un pochino sconcertante). Lo faceva come a sfidare Arthur, come se fosse un gioco personale tra loro.
E Arthur si arrabbiava, ogni volta, e quindi cercava più a fondo, con più insistenza. Perché non poteva perdere. Perché non poteva essere da meno.
Era un po’ come sentire l’ossigeno entrargli nei polmoni, era un po’ come vivere. Era un po’ pericoloso e forse avrebbe dovuto smetterla.
Eppure non poteva farlo. Eppure si ritrovò alla reception di un hotel a Barcellona, e chiese di Jude Law (seriamente? Nessuno pensava fosse strano?) e quando Eames si unì a lui al bar, Arthur gli mostrò il nuovo lavoro e si lamentò per tutto il tempo di aver ceduto, ancora una volta, a Mal e Dom ed essersi fatto convincere a chiamare Eames.
Il problema era che, sebbene Eames facesse finta di crederci, sapevano che tutte le lamentele di Arthur non avevano più nessuna credibilità. Che se fosse stato davvero contrario a tutto quello né Mal né Dom l’avrebbero costretto - perché loro erano fatti così e lo spingevano a fare delle cose solo se pensavano che in realtà stesse solo facendo il cocciuto.
Arthur non era ancora pronto, però, a fronteggiare la verità, ad affrontare quello che voleva dire quel giochetto che continuavano a fare entrambi, instancabilmente.
Quindi si rifugiava in quella scusa, e, per una volta nella sua vita, ringraziava Eames perché stava al gioco e non faceva domande.
Non avrebbe saputo come rispondere.
*
Quando non dovevano lavorare Arthur solitamente si rintanava a casa sua a Los Angeles, un bell'attico che aveva comprato con i soldi del loro primo lavoro, giusto per allontanarsi da Mal e Dom, sperando che smettessero di preoccuparsi così tanto per lui.
Dom e Mal insistevano che andasse a cena da loro almeno tre volte la settimana («Sapete che non sono vostro figlio, vero?» chiedeva a volte, giusto per essere sicuro «Beh, più o meno…» era la risposta di Mal, solitamente) e quando se ne andava gli davano persino gli avanzi - e non era assolutamente necessario perché Arthur sapeva cucinare. Più o meno. Sapeva mettere le cose nel microonde. A volte.
Poteva perfettamente ordinarsi cose a casa, in ogni caso, ma Dom e Mal insistevano così tanto, ogni volta, che non riusciva davvero a rifiutare.
Il suo appartamento era essenziale, arredato semplicemente, ma la stanza che Arthur preferiva era il salotto e specialmente il suo divano.
Era un divano comodo, completamente bianco, e ci teneva particolarmente. Si sedeva lì, nelle sue giornate di riposo, un libro in mano e passava ore ed ore a leggere, disteso.
Non guardava spesso la TV, non aveva tempo solitamente, e quando ne aveva preferiva leggere in ogni caso. Il punto era che casa sua era accogliente e Arthur si sentiva bene a poltrire - incredibilmente, sì - disteso sul suo divano bianco.
Era il suo paradiso, il suo posto segreto. Per questo lo infastidì trovare la prima cartolina.
Non sapeva come avesse fatto Eames a scoprire dove vivesse - era stata comprata, ovviamente, sotto falso nome - ma quando lesse “Spero di non mancarti troppo, tesoro,” e guardò l’immagine di dietro (che per decenza decise di non guardare mai più in vita sua), decise di aprire Word e scrivere una lista dei motivi per cui odiava Eames.
Probabilmente avrebbe potuto fare un qualcosa di un po’ meno strano, ma aiutava.
Quando lo mandò a Mal, poi, e ricevette in risposta un “LOL, sei completamente perso, Arthur,” decise di farne anche uno sui motivi per cui odiava Mal.
Era decisamente più corto (quella di Eames raggiungeva le tre pagine, quella di Mal arrivava appena alla fine della prima), ma Arthur riteneva convogliasse perfettamente i suoi sentimenti.
Le spedì pure quella e ricevette in risposta un “molto maturo, Arthur,” che probabilmente voleva essere offensivo. Arthur si sentì molto fiero di sé stesso.
Almeno fino alla cartolina successiva “Che fai, mi scrivi lettere d’amore e poi le mandi ad altre persone?”.
A quel punto cancellò entrambi i file dal suo computer.
*
Ad Arthur sarebbe piaciuto dare la colpa a Zurigo, dopotutto era evidentemente tutta colpa sua, ma c’era una parte di lui che gli diceva che non era esattamente razionale farlo.
Erano a Zurigo per un lavoro, un lavoro che avevano portato a termine egregiamente, senza alcun problema. Ed erano in albergo, Mal e Dom che erano già saliti in camera - perché dovevano chiamare James e Philippa e dire loro che mamma e papà stavano bene - e lui ed Eames avevano deciso di andare in quel bar - il che la diceva lunga sul grado di alcool che Arthur aveva già ingerito perché normalmente non si sarebbe mai nemmeno avvicinato.
Si punzecchiavano da almeno un ora, cadendo nel loro solito scambio di battute che, davvero, non avrebbe dovuto essere così divertente e rilassante per Arthur come invece era, quando Eames disse qualcosa di insolito.
«Cosa farai, ora?» aveva chiesto Eames e Arthur era troppo ubriaco per cogliere, immediatamente, la stranezza di quella domanda.
«Bevo, Eames, è quello che si fa nei bar,» mugugnò, cercando di far uscire le parole esattamente come le pensava perché non gli sarebbe piaciuto mostrare ad Eames che, da ubriaco, non era nemmeno in grado di pronunciare giustamente delle stupide pamol- par-parole «è quello che facciamo da tutta la sera, no?»
Eames però non sembrava essere divertito - aveva uno sguardo strano, come se Arthur fosse la cosa più adorabile che esistesse dopo un gattino o qualcosa di simile e Arthur avrebbe voluto dargli un pugno. Era un sentimento che lo prendeva spesso mentre era con Eames.
«No, Arthur, intendo…» e titubò un attimo, come se non era certo di voler concludere la frase. Arthur avrebbe dovuto capirlo che era un momento catartico, che avrebbe cambiato la loro vita per sempre o qualcosa di simile.
Arthur cercò di reprimere un piccolo rutto, perché non sarebbe stato signorile.
«Intendo cosa farai dopo questo lavoro? Intendo…» e ancora una pausa, stava diventando molto fastidioso e la parte ubriaca di Arthur si chiese perché non si desse una mossa «…ti andrebbe di venire con me a Mombasa? Devo sistemarmi, per un poco… troppe persone alle mie calcagna,»
Era una domanda importante, la parte sobria di Arthur lo sapeva. Era una domanda che assomigliava più ad un colpo di pistola, al momento prima di un calcio, dove l’aria si fermava e tu sentivi qualcosa, alla bocca dello stomaco, che si aggrappava alle tue viscere così forte da farti quasi vomitare.
La parte sobria di Arthur si sarebbe bloccata a quel punto, avrebbe guardato Eames e sarebbe stata indecisa su cosa fare o cosa dire, su come respirare, su come muoversi.
Il problema era che la parte sobria di Arthur non esisteva in quel momento.
«Cosa c’è a Mombasa?» chiese allora, aggrottando le sopracciglia e Eames sbatté un paio di volte le palpebre, cercando di capire.
«Intendi in generale? Il mare e…» rispose Eames, visibilmente confuso, ma forse un poco speranzoso.
Arthur pensò al mare. Gli piaceva il mare, era rilassante. Sorrise, senza nemmeno accorgersene, tenendosi la testa con una mano.
«Mi piace il mare,» ripetè anche ad alta voce, perché sembrava importante «in Africa c’è un bel mare…»
Eames rise, a quel punto, scuotendo la testa e togliendogli il bicchiere dalle mani - cosa che ad Arthur non piacque proprio per nulla, gli piaceva il bicchiere, era molto simpatico - «Forse avrei fatto meglio ad aspettare domani,» stava parlando a sé stesso, Arthur se ne rendeva conto, ma non capiva lo stesso «o almeno prima, quando non eri così andato. Lo reggi davvero poco l’alcool, hm, tesoro?»
Arthur aprì e chiuse la bocca due volte, perché non era certo di cosa ne sarebbe uscito, forse qualcosa come “non piamarti Teswofo” e no, non era esattamente quello che voleva dire.
«Ma l’invito in Africa è ancora valido?» chiese, allora, «mi piace il mare,» ripetè giusto per giustificare il suo interesse.
Eames si fermò e lo guardò intensamente. Il giorno dopo Arthur avrebbe riconosciuto in quel momento l’attimo in cui Eames, una parte di Eames, che probabilmente assomigliava molto ad Arthur da sobrio, gli avrebbe ricordato che le promesse fatte da ubriachi non valevano, che avrebbe dovuto lasciare perdere. Eames però era un bastardo.
«Se tu vuoi venirci è ancora valido,» disse allora, sorridendo e posando una delle sue mani su una di Arthur - c’era una sorta di dejavù in tutto quello - «ma se dici sì ora non puoi cambiare idea domani, caro.»
Arthur rise, perché non capiva cosa volesse dire, a lui piaceva il mare, perché avrebbe dovuto cambiare idea? E strinse la mano di Eames, allungandosi per riprendersi il bicchiere.
Eames glielo allontanò ancora, ricevendo un’occhiataccia da Arthur.
«Se dico sì mi ridai il drink?» chiese, ma Eames scosse la testa.
«Già mi ucciderai per questo, Arthur, non voglio aggiungere altre cose ai miei capi d’accusa,» e anche se Arthur non capiva bene cosa volesse dire, rispettò la sua decisione.
E in quel minuto la sua vita cambiò radicalmente, senza che lui se ne rendesse nemmeno conto.
«Sì, okay, vengo,» rispose, buttandosi indietro sullo schienale della sedia e sentendo la testa che cominciava a girargli leggermente.
Eames rise, come se avesse appena vinto alla lotteria, ma Arthur era troppo stanco per dirgli qualcosa.
*
L’indomani Arthur le provò tutte. Provò a dirgli che non era valido, che Arthur non era ovviamente in possesso delle sue facoltà mentali, che non poteva davvero pretendere che andasse da lui a Mombasa, che era follia.
Che ma cosa ti è venuto in mente, Eames?
Eames non si era mosso dalla sua posizione e quando Arthur gli aveva posto l’ultima domanda si era limitato a mettergli in mano due biglietti aerei.
Mal e Dom erano già partiti, preoccupati per i bambini e quando Arthur aveva chiesto loro quando avrebbero cercato il prossimo lavoro erano stati molto vaghi.
«Abbiamo un progetto che vorremmo portare a termine prima, Arthur…» aveva mormorato Dom, insicuro, guardando Mal di sottecchi.
Mal sorrideva, come una bambina che non vedeva l’ora di tornare a casa e giocare con il suo nuovo regalo di Natale. Arthur provava sensazioni contrastanti riguardo l'emozione che le vedeva in volto. L’amava, certo, ma ne aveva anche paura.
«Ci faremo sentire noi, Arthur,» gli disse, accarezzandogli la guancia prima di andarsene.
Arthur sentì l’istinto di fermarla graffiargli la gola, addentrarsi nelle sue viscere e pregarlo di dargli ascolto. Rimase in silenzio a pensare a come togliersi dal casino con Eames.
Quello, più della sera prima, fu il momento per cui Arthur non si sarebbe mai perdonato.
Part 2»