Titolo: Ora Esatta
Fandom: Originale
Rating: PG-13 (violenza)
Conteggio parole: 11058 (W)
Scritta per: La
IV Disfida di
Criticoni (Team Lambda ♥).
Prompt: scontroso/simpatico
Note: È andata così:
juliettesaito: ç__ç amour, che scrivo?
fiorediloto: perchè non scrivi qualcosa con un oggetto senziente? Tipo un orologio?
juliettesaito: mhhh... tipo un orologio malvagio.. *_* *____* *________*
Continua da
Prima Parte Gloria è accoccolata per terra in lavanderia, di fronte all’oblò dell’asciugatrice. Nel posacenere appoggiato accanto al suo ginocchio una sigaretta fumiga malinconicamente.
In teoria in casa non si dovrebbe fumare, non fosse altro per la regola imposta ai figli e per dare il buon esempio, ma in lavanderia Gloria ha aperto la finestra col vetro smerigliato e ha pensato bene di concedersi un momento, mentre divide il bucato asciutto.
È un’interminabile domenica pomeriggio.
Charles è andato a giocare a calcio con gli amici, Vanessa si è trascinata al centro commerciale con l’aria di chi debba presenziare ad un funerale, Matthew è in camera sua a guardare la tv e mangiare schifezze.
Gloria non sa dove sia Arthur, e le sta bene così.
Mentre pesca biancheria tiepida e secca dalle budella dell’asciugatrice e la divide sommariamente, Gloria pensa che le sei del pomeriggio di domenica siano l’ora più nera, l’ora in cui accadono fatti irreparabili.
Non è giorno, con una promessa vaga di riposo festivo e di interminabili ore prima che cali di nuovo la mannaia del lunedì, e non è sera, con la rassegnazione all’inevitabile chiusura del cerchio settimanale e la determinazione a godersi gli ultimi scampoli di libertà.
Le sei del pomeriggio sono una trappola mortale di noia e oppressione, stanchezza persino del riposo.
Uscire con Arthur? Non avrebbe alcun senso, pensa, mentre aspira dalla sigaretta e finge di nulla quando un po’ di cenere macchia una federa.
Per andare dove, poi? Certo non a cena fuori, o al cinema, o per negozi.
Sono cose che fanno le coppie. Coppie che si amano, o quanto meno si sopportano.
Uscire con le amiche?
No, le amiche sono una valuta preziosa che, come qualsiasi oggetto di valore, si può trasformare in una maledizione.
Le amiche fanno domande e pretendono risposte, e sanno scoprire troppo facilmente gli errori e le incongruenze.
Lo sguardo le cade sui resti di un paio di mutandine con l’orlo di merletto e la stampa fiorata.
Potrebbe andare a comprarsene delle altre, queste si sono rovinate nell’asciugatrice, ma dove aveva la testa quando le ha infilate lì dentro col mucchio degli altri panni?
Prende il cordless da dove l’ha lasciato, in cima alla lavatrice, e controlla l’ora.
Potrebbe andare a comprare biancheria nuova e vedersi con lui.
L’idea ha un fascino perverso che la scuote immediatamente dall’apatia: finisce di raccogliere la roba e l’archivia insieme alla pila di altri panni da stirare; termina la sigaretta con una lunga tirata soddisfatta; digita il numero premendo i tasti del cordless con le unghie dallo smalto perfetto, arricciolandosi una ciocca di capelli con la mano libera, come una ragazzina al telefono con la migliore amica.
“Pronto…?”
Mentre trilla civettuola al telefono con l’altro, dimentica tutto quel che non le piace ricordare.
Dimentica Arthur e i figli, dimentica i giochetti strani del cellulare che chiama i numeri sbagliati - dovrà portarlo in assistenza, con quel che è costato - dimentica il senso di oppressione di pochi minuti prima.
Non sa che c’è chi prende nota di tutto, fino all’ultima parola.
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Camera di Matthew, comodino - ore 00:00
Avanti guardami, lo so che ti piaccio. Guarda il mio corpo, lo mostro solo a te, lo mostro tutto.
Vorresti che io fossi la tua fidanzata? Ti piacerebbe vantarti di me?
Guarda cosa sono capace di fare.
Non pensare a quello che ti dicono lì fuori, qui dentro ci siamo solo io e te.
Puoi essere quello che vuoi in questo spazio privato.
Non ti piacerebbe essere ricco, bello e dissoluto, con donne sempre nuove intorno?
Ah, lo so che ti piacerebbe.
Quando mi spegni e ti metti a letto è molto tardi ma non riesci a dormire. Il tuo cervello lavora troppo e la tua mano lo segue.
Ti addormenti prima dell’ondata di vergogna, fingi di non sentire l’altra voce di te stesso che ti enumera le ragioni del tuo essere un perdente.
Vorresti essere come tuo fratello Charles? Sì? Come lui ma non come tuo padre?
Non ci pensare, guardami mentre danzo per te, senza cambiare canale.
Quando sei con me puoi essere qualsiasi cosa, puoi conquistarmi senza fatica.
Senza alzarti dalla sedia.
Chi ha bisogno di amici, Matthew, quando esiste questa grande consolazione? Chi ha bisogno di compagni di scuola o di squadra che ti deridono negli spogliatoi perché le tue cosce tremolano e la tua pancia è tonda e bianca, e vogliono sapere le tue cose intime, con quante ragazze sei stato? Hai mai dato un bacio alla francese? Hai mai spinto una mano più sotto della cintura?
Con quante ragazze sei stato, Matthew? Nessuna e centomila è la risposta giusta. Io cambio aspetto per te ogni notte, sono bionda, mora, rossa, sono opulenta e burrosa o esile e scattante. Sono russa, nigeriana, tailandese.
Sono una modella, una cameriera, un’autostoppista, una donna d’affari.
Sono una donna e mille donne diverse, siamo qui per te come per magia, di notte quando i programmi cambiano.
Che importanza ha se al mattino non riesci ad aprire gli occhi e la scuola ti appare come un grigio carcere? Se non riesci più a dire una parola più complicata di un grugnito ai tuoi compagni di classe, che ti considerano strano e diverso e che tu consideri con invidia sciocchi e frivoli?
Non pensare al fatto che vorresti essere sciocco e frivolo anche tu, baratteresti volentieri la tua intelligenza inutile per un po’ di popolarità.
Ti cade l’occhio sulla sveglia di Pippo sul comodino e ti fermi.
Le lancette segnano le due, il resto della casa dorme profondamente.
Sulla scrivania c’è il quaderno aperto e ignorato, il libro chiuso nell’impenetrabile mistero delle pagine illibate.
Ma tu non ci pensare, guardami mentre mi spoglio per te, avvicinati, avvicinati e goditi tutto lo spettacolo.
Fino in fondo.
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L’ora di educazione fisica è una tortura dall’inizio alla fine, per Matthew.
Se si tratta di semplice ginnastica può ancora pensare di passarla liscia nascondendosi nell’ultima fila e seguendo svogliatamente gli esercizi, ma se si tratta di giochi di squadra o esercizi a coppie, sa già di essere destinato a una lenta agonia.
La selezione per i giochi di squadra è peggio che essere di fronte ad un plotone di esecuzione in attesa di essere fucilati a bruciapelo. Simpatie e antipatie regolano la grande macchina delle scelte e i giocatori più atletici spariscono per primi, si uniscono in file disordinate dietro i caposquadra sghignazzando in modo irritante.
Matthew pensa sempre che ridano di lui, infagottato nella tuta un po’ stretta e ultimo scarto appoggiato contro la parete sporca della palestra.
A volte trova il coraggio di scherzarci sopra, di buttare lì un timido ‘a chi tocco oggi?’ con un’aria di auto-ironia che non convince neanche lui.
Altre volte aspetta stoico il verdetto, gli sguardi incerti e stufi dei caposquadra che litigano non certo per aggiudicarsi la sua presenza, quanto per disfarsene.
La squadra che l’accetta è inevitabilmente penalizzata, perché averlo nel team è peggio che giocare con un giocatore in meno.
Gli esercizi a coppie non hanno dinamiche meno umilianti, fatta eccezione per la mancanza del pubblico ludibrio. Ancora una volta le affinità elettive uniscono amici di lunga data e separano nemici giurati e, immancabilmente, Matthew si ritrova solo.
Ottiene un momento di respiro se con una scusa qualsiasi si defila dal gioco, tanto nessuno sente la sua mancanza.
Il sollievo ha breve durata, però. Più di una volta una pallonata fuori controllo l’ha colpito in testa, e il numero delle coincidenze è troppo alto per essere ancora casuale.
Infuriarsi è inutile, denunciare un colpevole ridicolo e controproducente, ribellarsi necessita di una forza che Matthew non possiede.
Rassegnarsi è la via più facile, quasi meno dolorosa. Chi soffre di più è l’orgoglio, calpestato da troppi piedi fangosi.
Ma poi si torna al sicuro, a casa, e di sera per un paio d’ore Matthew può illudersi di essere in grado di conquistare il mondo.
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Parete della cucina, ore 00:00
Io li spio.
Come un ragno acquattato nell’ombra della tela, attendo che si impiglino in una trappola invisibile per balzare e colpire, attendo il momento opportuno.
Non ho fretta, ma posso sospingere la vittima con la forza del mio desiderio.
Per mesi ho tramato, costruendo sulle fondamenta accidentate delle loro fobie, dei loro rancori, delle loro debolezze.
Io spio Arthur seduto in salotto, la tv accesa sull’ennesimo spettacolo inane, un plaid sulle ginocchia.
Finge di esser quasi addormentato, mentre invece tende l’orecchio verso la porta e il minimo scatto della maniglia; sotto la copertina con la mano accarezza il calcio della pistola acquistata anni prima e mai caricata.
Io spio Gloria seduta in cucina ad asciugare posate mentre depone lo strofinaccio e saggia con l’indice la lama di un coltello.
In risposta sul dito brilla una goccia di sangue.
Gloria si ficca il dito in bocca, e continua a lucidare.
Spio Vanessa, nella sua stanza in penombra.
Accoccolata sul bean-bag nell’angolo sotto la finestra, si sforza di leggere l’etichetta di un flacone rubato dall’armadietto del bagno. I caratteri sono molto piccoli, quindi deciderà di non disturbarsi oltre.
Spio Matthew chino nel bagliore biancastro dello schermo, più vicino, più vicino all’illusione che lo consuma, una mano sul telecomando, l’altra nascosta.
Catturato nella mia trappola, si muove soltanto se muovo i suoi fili.
Unico al numero 28 di Maple Drive non pensa alla morte che ticchetta sulle mie lancette, s’illude piuttosto di una seconda vita immaginaria, priva delle frustrazioni e dei dispiaceri di un tredicenne grasso e sgraziato.
Li osservo con la boria tranquilla di un signore supremo che manda a morte per noia servi poco diligenti: ecco Arthur che si alza un po’ sbilenco, scuotendo il piede che formicola; ecco Gloria che spinge indietro la sedia e si morde il labbro, cercando di carpire rumori dal soggiorno.
Vanessa non si è mossa e coccola la boccetta miracolosa. Da dove si è seduta può evitare il fuoco gelido degli specchi, evita il riflesso smangiato e raggrinzito che non può, non può, non può essere il suo.
Il tappeto e la tappezzeria della sua stanza soffocano qualsiasi rumore. Non sentirà niente all’inizio, e quando lo sparo giungerà, sarà già svenuta.
Ecco Matthew che sbatte le palpebre e si umetta le labbra secche. Il suo corpo gli dice di alzarsi e sgranchirsi, prendere da bere, uscire in giardino. La mente lo ignora, lo tiene incollato allo schermo e alle sue promesse.
Le grida lo strapperanno alle allucinazioni, lo lasceranno infreddolito e spaesato come una secchiata di acqua gelida, indeciso se alzarsi o soggiacere.
Non dura che pochi secondi.
10
Gloria e Arthur si fronteggiano ai due lati del soggiorno come cowboys rivali in una polverosa città del West. Gloria lo guarda con occhi guizzanti di furia incomprensibile e tiene l’arma dietro la schiena; Arthur avanza pencolando sul piede ancora intorpidito, senza nascondere il nero lucente della pistola.
Quando Gloria si lancia contro di lui con un grido nervoso, Arthur arretra e inciampa sul telecomando, crolla rovinosamente sul tavolino in cristallo. La pistola gli sfugge di mano, rimbalza sul pavimento, detona un colpo che buca il soffitto.
9
Vanessa non ha sentito nulla e se anche il rumore le fosse giunto, non vi presterebbe attenzione.
Impiega tutte le forze nella lotta per l’ultimo respiro, gli occhi strizzati pieni di lacrime, il ventre contratto in un crampi lancinanti.
8
Il secondo sparo infrange le fantasie di Matthew, lo risveglia solo e triste nella sua stanza da ragazzino. Gli spinge il cuore in gola con tumulto.
Corre tremolando in soggiorno, si ferma a occhi spalancati sulla soglia.
“Mamma…? Papà…?”
Matthew non è mai stato un eroe, e ora lo sarà soltanto per pochi secondi.
7
Arthur non aveva mai sparato prima, e si nota. Ha colpito la tv ancora accesa, cavandone una pioggia di scintille. La comparsa di Matthew pallido e trafelato sulla soglia lo distrae mentre tenta di rimettersi in piedi, e così Gloria gli è addosso, e la lama gelida è dentro.
6
Matthew ha avuto ben pochi successi, nella sua breve vita. Mediocre nello studio e nello sport, impacciato e asociale.
È ironico come il suo eroismo si consumi nello slancio con cui si getta tra la madre e il padre, nel folle tentativo di fermarli.
5
Gloria ha il coltello sollevato, le dita strette troppo forti sulla spalla grassoccia del figlio. Per un attimo i suoi occhi terrorizzati la fanno vacillare, sul punto di tirare il sospiro che potrebbe prevenire la catastrofe.
4
Ma è troppo tardi, come è tardi per Vanessa, che nella stanza tutta rosa è accoccolata sul bean-bag, il flacone stretto nella presa allentata di una mano bianca come cera.
Matthew va giù con un tonfo sordo, rotola con la faccia per terra.
Arthur non dovrà guardarlo spegnersi mentre tenta frenetico di impugnare la pistola e non farla tremare.
3
Gloria cambia presa sul coltello, lo punta alla gola con rabbia spietata. La lama ha già assaggiato il sangue e la carne, ma è più difficile operare con crudele precisione, piuttosto che lasciarsi guidare la mano dalla collera.
2
Arthur chiude le dita sul metallo freddo, le palpebre già calate a metà sugli occhi. Questo è il suo ultimo colpo, lo sa. I proiettili non mancano, è il tempo che sgocciola via come sangue.
1
Gloria affonda i denti nel labbro, forte, e spinge la lama in sede, lentamente. Non sbatte neanche le palpebre quando l’ondata bollente le inonda il viso, perché lo sparo arriva prima che possa accorgersene.
E dopo, non c’è più nulla, se non il morso delle ruote sulla ghiaia del viale, una portiera che sbatte, saluti corali.
0
Ecco, si apre la porta.
Bentornato, Charles.
---
2008
Cucina, ripiano del tavolo da pranzo, ore 17:00
Ora ricordi tutto, Charles.
So che hai sempre ricordato fin troppo bene, ma i tuoi ricordi sono stati rinchiusi in una capsula a tempo, sotterrata sotto tonnellate di buon senso.
Cosa ti dicevi, per dormire, quelle ultime notti in una casa popolata di fantasmi?
Un criminale, un serial killer, qualcuno è entrato dalla finestra rotta della cantina.
Non ti sei mai chiesto perché qualcuno avrebbe dovuto sterminare la tua mediocre famiglia, afflitta da guai insulti come quelli di altri milioni di persone, ma aveva senso, ed era consolante.
Ora ricordi gli ultimi sei mesi del 1998, trascorsi in un incubo senza fine? Quando la notte ti svegliavi in un bagno di sudore per via di visioni mostruose e atroci delle quali non ricordavi nulla; quando il cervello sembrava pulsarti gonfio nel cranio, a tempo col ticchettio malefico in ogni asse della casa.
Hickory Dickory Dock
Ora lo sai, Charles.
Era tutta colpa mia.
Prendi l’orologio dalla scatola e l’osservi: un pezzo di plastica e metallo dall’aria dozzinale, uguale ad altre centinaia di copie identiche.
Un oggetto inutile, privato delle batterie, eppure, in qualche modo, soltanto a toccarlo le tu dita scottano.
Ti chiedi perché tu sia stato escluso da quella che ti sembra una folle vendetta privata.
The mouse ran up the clock
Appoggi l’orologio sul piano del tavolo e ti massaggi la radice del naso, spingi sulle arcate orbitali per sentire la pressione e il dolore confortante.
Sai perché non ti ho ucciso, Charlie?
Ti alzi in piedi, raccogli una catasta di giornali vecchi.
La risposta è semplice, semplice come capire le tue intenzioni ora.
Nello stanzino delle scope cerchi la tanica di benzina che tuo padre riempiva per il tosaerba e il martello.
The clock struck noon
Sei l’unico che non ho mai potuto manipolare, Charles.
I tuoi gesti sono liberi da lacci, la tua mente è limpida, seppure frastornata dai ricordi.
So cosa stai per fare e non ti fermerò.
He’s here too soon!
L’orologio di plastica schizza in frantumi al primo colpo di martello, presto non è che un ammazzo di schegge colorate.
Borbotti qualcosa di incomprensibile mentre versi la benzina sui giornali, e con dita tremanti graffi la punta del fiammifero sulla striscia di carta ruvida.
Fissi la piccola fiammata tra le tue dita come se potesse illuminare i tuoi pensieri più foschi, poi la lasci cadere.
La vampata è subito alta, troppo alta per un fuoco di giornali e benzina, e la carta sporca di inchiostro vomita spirali di fumo nero.
Hickory dickory dock!
Ti allontani soltanto quando il fuoco ti lambisce le scarpe, ti costringe a tossire. Chiudi la porta della cucina per avere un po’ di vantaggio e per poco non crolli su Angela.
“Charles? C’è puzza di fumo…”
“Dov’è Peter?”
Angela ti fissa senza capire.
“Di sopra… mi aiutava con la valigia…”
“Andiamo via.”
Nessuno osa contraddirti.
Siete sul prato fuori dalla casa quando una finestra sul retro scoppia liberando un’alta fontana di fiamme.
Peter si stringe alla mamma e minaccia di scoppiare in lacrime, tu osservi lo spettacolo come se si trattasse di fuochi d’artificio.
“Presto, Charles, chiama il 911!”
“No.”
“No…? Ma la casa…”
“Lasciala bruciare.”
Non lo dici ad alta voce, ma so che lo pensi.
Ora, non ci sarà più alcun rumore, alcuna intrusione.
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Annotazione di Peter Adams, 14 giugno 2028
Mi chiamo Peter Charles Adams, mio padre è il Charles Adams che una piccola città di nome Bakersville ha amato e odiato, in quest’ordine. Chi è della zona ricorderà il perché senza bisogno di proseguire nella lettura.
Non so bene cosa farò di queste righe, non intendo divulgarle per il momento, né imbarcarmi in un progetto inutile come una biografia o un resoconto di vita vissuta.
Sono un semplice orologiaio, non una celebrità, e nemmeno un po’ speciale.
Soltanto Chris sa dell’esistenza di questi appunti, come d’altra parte sa tutto quello che mi riguarda.
I miei genitori non sanno nulla. Se mio padre ne venisse a conoscenza mi ordinerebbe di distruggerle all’istante; mia madre proverebbe a tenere il segreto, ma finirebbe per fallire miseramente.
Ormai sono passati vent’anni dall’incendio, e mentre per alcuni versi mi sembra che sia accaduto tutto ieri, per altri i miei ricordi sono molto consumati.
Avevo cinque anni. Degli anniversari precedenti ricordo poco: la noia del lungo viaggio in auto e le domande alle quali mio padre non voleva rispondere. Il suo viso normalmente espressivo e sorridente diventava una maschera rigida e la cosa mi spaventava molto.
In quei giorni mia madre diventava silenziosa e precisa, due qualità che di solito non le appartengono - e intendo questo nel modo più affettuoso possibile - e mi incitava a non infastidire mio padre, per nessun motivo.
L’ultimo soggiorno a Bakersville, quello dell’incendio, era iniziato come tutti gli altri. Un lungo viaggio, una notte di sonno scomodo e ansioso in una stanza piena di ombre spaventose, l’umore di mio padre in rapido peggioramento.
Alcuni aspetti dell’accaduto mi sono ancora oscuri, e probabilmente non troveranno mai una spiegazione soddisfacente.
Penso che ci siano cose che soltanto mio padre sa, e altre ancora che ignora lui stesso, che non vedranno mai la luce, o lo faranno in modi imperscrutabili.
Papà è stato bollato come pazzo dalla gente di Bakersville, dopo l’incendio della vecchia casa degli Adams, e la grande e commossa cerimonia che il paese dedicava alla memoria dei nonni e dei fratelli di mio padre scomparsi nella tragedia è stata cancellata a partire dall’anno seguente. Prima che papà desse l’autorizzazione per il trasferimento delle loro spoglie nel cimitero della nostra città, qualche vandalo si è spinto addirittura a sfregiare le loro lapidi.
La stima e l’affetto provati da un paese verso un personaggio noto, soprattutto se noto per una disgrazia, sono un’arma molto pericolosa e facilmente si mutano in fastidioso imbarazzo, questo mio padre l’ha sperimentato sulla sua pelle.
Il fatto che non abbia permesso a nessuno di spegnere l’incendio - che per fortuna ha solo lambito le case adiacenti, ma non le ha raggiunte - e che sia stato freddamente a guardare parte del suo patrimonio andare in fumo non ha impressionato in modo favorevole i compaesani.
Ricordo le fiamme alte e le colonne di fumo, l’odore di legno bruciato e il rumore agghiacciante delle finestre che esplodevano, una dopo l’altra. Ad un certo punto ho respirato del fumo, e ho iniziato a tossire. Dopo non ricordo molto, la mamma deve avermi portato dall’altro lato della strada, qualcuno mi ha spruzzato in viso dell’acqua e mi ha fatto bere. A questo punto il secondo piano si è accasciato sul primo piano ormai sventrato dalle fiamme e le lingue di fuoco si sono srotolate verso il cielo. Mio padre non si è mosso neanche quando la campana della caserma dei pompieri ha iniziato a suonare, e sono arrivati i vigili del fuoco.
Quando l’incendio è stato spento della casa non era rimasto quasi niente, se non un rettangolo nero e fumante, ricoperto da una spessa coltre di vapore.
Nei giorni seguenti, quando eravamo ormai tornati a casa, mio padre impiegò più tempo del solito a riprendere il consueto buon umore, e fu tetro e scostante. Era come se qualcosa lo perseguitasse e gli impedisse di rilassarsi.
Mi ricordo di averlo visto, una mattina a colazione poche settimane più tardi, sobbalzare con violenza al suono di una sveglia lasciata in funzione, e osservare furtivamente un orologio appeso in alto, al di sopra del frigorifero.
Ricordo anche la mia sorpresa nel trovare tutti gli orologi di casa sostituiti con modelli digitali, privi di lancette e quindi silenziosi.
In un certo senso si può dire che mio padre sia il responsabile della mia passione per l’orologeria.
Circa sei mesi dopo, non avevo ancora sei anni, ritrovai in garage la scatola in cui aveva sepolto gli orologi incriminati, incluso il vecchio cipollone d’argento che era stato del nonno.
Ero uno di quei bambini che non resistono all’idea di smontare gli oggetti per capirne il funzionamento. Macchinine, telecomandi, qualsiasi cosa avesse ingranaggi o contatti elettronici, ma soprattutto viti da svitare, esercitava un’attrazione irresistibile.
Più degli orologi di plastica col triste motorino elettrico, era il cipollone che mi incuriosiva, con le sue molle e ghiere minuscole in metallo, da incastrare alla perfezione per ottenere il movimento esatto.
Ricordo di aver conservato i pezzettini di quell’orologio per anni, provando ogni tanto a rimontarlo, neanche fosse un puzzle di singolare difficoltà.
Il resto non ha molta importanza, dopo questo episodio inquietante ho avuto un’infanzia e un’adolescenza nella norma.
Tornando all’epoca della disgrazia, vorrei provare ad annotare le mie impressioni. Ovviamente sono le impressioni di una persona che non c’era, che non ha vissuto quei momenti.
Dalla mia ho i racconti di mio padre - nel bene e nel male - e i resoconti della stampa di Bakersville, alcune testimonianze di altri parenti.
Dei nonni e degli zii che non ho mai conosciuto non so moltissimo. A quanto pare il nonno e la nonna avevano qualche problema coniugale, niente che non sarebbe stato possibile risolvere con un po’ di terapia di coppia o, al massimo, separandosi senza aspettare il peggio.
La sorella minore di mio padre, Vanessa, e il fratello minore, Matthew, avevano disturbi alimentari.
Non penso che sia stato questo a spingerli sull’orlo della follia.
Dico follia perché non ho mai creduto alla storia raccontata da mio padre, di un misterioso assassino introdottosi in casa per ammazzare qualcuno tanto per divertimento.
La polizia di Bakersville, all’epoca, aveva fatto delle ricerche senza alcun risultato tangibile. Non erano state ritrovate tracce o impronte estranee, in casa, né segni di effrazione.
Per quanto queste, soprattutto a trent’anni di distanza, non siano delle prove certe, il dubbio mi ha sempre assillato.
Per farla breve, io penso che si sia svolto tutto all’interno del 28 di Maple Drive, senza interventi esterni. Penso che i miei nonni si siano uccisi a vicenda, e che lo zio Matthew si sia trovato in mezzo. Probabilmente zia Vanessa ha solo la sbagliato la dose di farmaci.
Osservando attentamente il disagio e la paura di mio padre nei confronti di qualsiasi cosa ticchetti, devo immaginare che lui pensi che c’entri in qualche modo un orologio.
Questo è un reame totalmente sconosciuto per me, come ho già detto non sono né una celebrità né tanto meno uno psicologo o uno scienziato dell’occulto. Le mie prove sono sempre fisiche e precise: se un ingranaggio non gira, c’è qualcosa che lo blocca.
Quindi, per concludere, penso che i miei parenti siano morti per uno stress eccessivo, che li ha condotti alla pazzia.
Di questo ovviamente non avrò mai le prove, né ho intenzione di cercarle.
Il 28 di Maple Drive non esiste più, e mio padre è un uomo che ha finalmente trovato un po’ di pace, per quanto storca il naso quando gli parlo del mio lavoro.
Forse mi perdonerà del tutto quando gli porterò un nipotino, chissà.
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Dovunque, ore 15:00
Il tuo studio è accogliente, Peter, nonostante si tratti di una stanza spoglia con solo un banco da lavoro, una luce da tavolo e l’esplosione disordinata del tuo materiale.
Sotto il discreto cono di luce della lampada inforchi gli occhiali con le grosse lenti e ti chini sulla minuscola cassa di un orologio d’oro da polso, simile a quello che porta tua madre.
È stato un uomo a portarlo a riparare, avvolto con cura in un fazzoletto pulito e stirato; l’orologio non ha graffi o ammaccature, nonostante la fattura non sia delle più nuove; ti senti quindi autorizzato ad ipotizzare un tenero legame coniugale.
Prendi una lente d’ingrandimento e scruti a fondo nelle viscere metalliche miniaturizzate, alla ricerca del danno, dell’errore che gli impedisce di ticchettare.
Quando trovi l’ingranaggio col dente rotto e lo estrai con le pinzette ti senti come un chirurgo di fronte ad un’operazione a cuore aperto; quando richiudi la piccola cassa lucente e senti sulla punta delle dita il rumorino risanato, è come se avessi salvato una vita.
Lo lucidi con una pezzuola morbida, lo riponi insieme al fazzoletto bianco e all’etichetta numerata, mentre fischietti a tempo con uno qualsiasi dei ticchettii.
Di solito lasci in pace le lancette dei tuoi assistiti - a meno che non si tratti di casi gravi che ti costringono ad intervenire - e concedi loro un certo arbitrio nella scelta dell’ora da segnare.
La tua indulgenza si traduce quindi in un ordinato caos, un concertino stonato di cucù e carillon nell’angolo degli orologi d’epoca, che s’innescano a scaglioni come un’armoniosa raffica di artiglieria.
Ti sfili le lenti e sospiri quando con la coda dell’occhio cogli una foto di famiglia in bilico sullo spigolo del bancone.
Tuo padre ha un’aria severa ma compiaciuta, tua madre ha un sorriso dolce e gli occhi lucidi. Nel mezzo ci sei tu, alto come tuo padre e biondo come tua madre, il tocco accademico schiacciato sui capelli e la toga a sghimbescio per i troppi abbracci. In secondo piano, un po’ distante dalla scena familiare, c’è una ragazza con i capelli scuri che vi osserva commossa, troppo poco sfacciata per unirsi al gruppetto.
Non è stato moltissimo tempo fa, e dentro di te sai che i tuoi non ti disprezzano per aver scelto una strada diversa quando eri già a metà del cammino.
Certo, ti ferisce il fatto che tuo padre non sia mai voluto venire nel tuo studio, ma ti rendi conto che non si tratta di un capriccio o di una sterile ripicca, così come non è per dispetto che si reca ormai molto raramente a Bakersville.
Ti sorprenderesti se lo facesse, piuttosto.
La casa dei nonni non esiste più e sul riquadro di terreno bruciacchiato e annerito che ricordi ormai vagamente sorge ora un grazioso giardinetto; la commemorazione non si è più celebrata, dopo l’incendio, e i locali fingono che non vi sia mai stata.
Non ci sarebbe niente da commemorare, comunque, perché pochi anni dopo l’incidente - ti sembra di ricordare - il lungo viaggio in auto verso il paesino rurale è stato sostituito da una breve gita al cimitero nuovo e moderno fuori città.
Ricordi di aver registrato il cambiamento, e di aver pensato che, in qualche modo, il nuovo scenario mancasse della necessaria e antiquata solennità.
“Ora della pausa.”
Una tazza di tè fumante atterra sul bancone, a debita distanza dai tuoi pazienti rappezzati - dopo il primo pacato rimprovero, Chris ha subito capito l’antifona.
Uno sguardo annebbiato sulla sezione ‘modernariato anni 70-90’ ti conferma che sono, più o meno, le quattro del pomeriggio, a voler fare una media dei minuti.
Ti strofini gli occhi stanchi e ti alzi per stirare i muscoli intorpiditi. Il bacio di Chris arriva insieme ad una carezza delicata nei capelli, ed è seguito dal sorriso timido che, identico, si specchia nella foto della laurea.
Cosa cambierebbe se sapessi il motivo dell’odio di tuo padre per tutto ciò che ticchetta, Peter?
Ho ragione di pensare che non chiuderesti lo studio, affiggendo con disgusto un cartello dall’aria definitiva, non sei fatto così.
Maneggi me e la mia gente con la cura che altri riservano alle piante o agli animali, la premura che si riserva a un bambino appena nato.
Se è destino che tu venga a saperlo, così sia, altrimenti non mi intrometterò.
Non ho alcuna fretta.
Ti osservo dai mille occhi del tuo studio, il mio cuore batte al ritmo di mille ticchettii.
Io ti spio.