[Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo] Why are you my remedy? (parte 1)

Feb 25, 2014 21:41

Titolo: Why are you my remedy?
Fandom: Percy Jackson e gli dei dell’olimpo
Pairing: Gareth Mahe x Nico Di Angelo
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, Soulmate!AU
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: C’erano dei giorni che erano diversi dagli altri. Che ti svegliavi e sapevi che qualcosa sarebbe cambiato, nel bene o nel male.
Nico non avrebbe saputo spiegarlo, seduto innervosito su una sedia di una grande stanza circolare, mentre non riusciva a smettere di grattarsi il braccio.
Lo sentiva.
Note: Scritta per il COW-T4 di maridichallenge con il prompt “Supernatural!AU” e per la 500themes-ita con il prompt “172. Promesse infrante”
WordCount: 11.365 fiumidiparole

La seconda parte della storia si trova * qua*

C’erano dei giorni che erano diversi dagli altri. Che ti svegliavi e sapevi che qualcosa sarebbe cambiato, nel bene o nel male.
Nico non avrebbe saputo spiegarlo, seduto innervosito su una sedia di una grande stanza circolare, mentre non riusciva a smettere di grattarsi il braccio.
Lo sentiva. Aveva solo otto anni ma era più sveglio dei suoi amici. Anche sua madre non faceva altro che ripeterlo.
A volte, anche la sua insegnante lo diceva, anche se Nico non sapeva bene se prenderlo come un complimento. Aveva il muso da topo e gli occhi piccoli e si rivolgeva a lui dicendo che i bambini intelligenti non vivevano a lungo.
Lui non aveva mai compreso quelle parole.
Si grattò di nuovo il polso. Bruciava, come se ci stessero marchiando qualcosa a fuoco, ma era un dolore lento e circoscritto.
Una volta aveva visto il padre di un suo amico con un tatuaggio e gli aveva spiegato come si facevano.
In quel momento gli sembrò che il pennino dei tatuatore stesse scrivendo qualcosa sulla sua pelle.
Si era già trovato in quella stanza.
Due anni prima si trovava seduto su quella stessa sedia, ma non si sarebbe alzato.
Si era alzata invece Bianca. Indossava un vestito chiaro, un cerchietto con dei fiori in testa e delle scarpette bianche basse.
Era là per la sua “Cerimonia dell’Accettazione”.
Quel giorno aveva guardato sua sorella con il fiato sospeso, non sapendo che cosa aspettarsi. Gli adulti non parlavano mai della cerimonia con i bambini, perché dovevano arrivare in quella stanza candidi e pieni della loro innocenza.
Non capiva il perché Nico, ma non ci aveva fatto caso.
In quel momento guardò Bianca avvicinarsi ad un uomo e bere da un bicchiere argentato e sorridere, come se stesse bevendo della cioccolata calda. Sembrava semplicemente felice.
I secondi furono interminabili. Nico aveva visto sua madre stringere la mano del padre con forza, mentre guardava in apprensione la figlia più grande.
Puoi l’uomo di fronte a sua sorella si era avvicinato a lei e le aveva esaminato il polso, prima di fare un grande sorriso, dandole un buffetto sulla testa.
« Bianca di Angelo. » esordì « Hai superato la Cerimonia dell’Accettazione. »
La sorella si era voltata di scatto verso di loro, correndogli indietro e stringendosi il polso fra le mani.
Quando era arrivata più vicino, Nico aveva già escluso le voci concitate e felici del resto della famiglia e osservò con curiosità il polso della sorella.
Aveva già visto dei segni simili sui polsi degli adulti o dei ragazzi più grandi. Alcuni erano più complessi, più arzigogolati, più estroversi o semplicemente quasi pieni di vita propria.
Altri, come quello della sorella, erano schietti, diretti nella loro semplicità. Per quello che aveva capito, il tatuaggio raffigurava anche, a modo loro, il carattere e la personalità della propria persona del destino.
Il nome che era appena apparso sul polso di Bianca era “Zoe”. La ragazza non riusciva a staccare gli occhi da quel piccolo tatuaggio, mentre continuava a sorridere felice. I genitori la stavano abbracciando, felici e sorridenti.
Quella sarebbe stata l’anima gemella di Bianca. La persona con cui avrebbe passato il resto della sua vita, felicemente.
Quella era una delle poche cose che Nico sapeva.
Si nasceva con una persona destinata, un ragazzo o una ragazza che ti avrebbero reso completo e felice.
Ognuno aveva un tatuaggio del genere sul polso e il giorno della Cerimonia serviva per rivelarlo al mondo.
Era una giornata felice. Di solito.
La madre di Nico gli accarezzò una spalla, riportandolo alla realtà. Nico alzò gli occhi verso di lei e la vide tesa.
Non fece altro che guardarlo mentre si grattava il polso. Era bianca come il gesso e aveva gli occhi lucidi, come se si stesse sforzando di non scoppiare a piangere. Forse era nervosa perché il giorno prima il padre se ne era andato di casa trascinando via Bianca. Forse il padre era innervosito dal fatto che non facesse altro che grattarsi e temeva che potesse attaccargli chissà quale malattia strana.
Si chinò su di lui, abbracciandolo e accarezzandogli i capelli.
« Nico, comunque vada, io ti vorrò sempre bene. Lo sai, vero? »
Nico annuì. La voce della madre gli arrivava lontana. La colazione che aveva mangiato quella mattina si stava rivoltando nello stomaco.
Iniziava a respirare male.
L’uomo che aveva visto alla cerimonia di Bianca chiamò a voce alta il suo nome e subito, come se fosse seduto su una molla, Nico lo raggiunse.
Indossava anche lui un vestito bianca, con delle scomodissime scarpe di pelle che gli stringevano i piedi ad ogni passo.
Mentre camminava, lo sentì ancora.
Quello era uno di quel giorni in cui ti svegli e te lo senti dentro che le cose sarebbero andate male. Non ascoltò una sola parola del discorso dell’uomo e si riprese solo quando vide davanti a sé il bicchiere d’argento.
Ci sbirciò dentro. Sembrava acqua. Si chiese perché Bianca avesse fatto quella faccia quasi estasiata. Forse era acqua zuccherata.
Si voltò istintivamente verso la madre. Lei era ancora là, con la schiena dritta, il suo vestito più bello e i capelli tirati sulla testa.
Stringeva le mani in grembo, quasi fino a farsi male e si stava sforzando di sorridere. Gli sorrise un po’ più apertamente, come per incoraggiarlo.
Nico inghiottì della saliva che non aveva e prese il bicchiere fra le mani, bevendone un sorso. Era veramente aspra, come se stesse bevendo una medicina per la gola.
Nello stesso istante in cui mandò giù un po’ di quell’acqua amarissima, gli sembrò come se il braccio stesse andando a fuoco, come se una bomba fosse appena esplosa da dentro.
Iniziò ad urlare per il dolore, lasciando cadere a terra il bicchiere, singhiozzando. Si portò la mano dolorante al petto, coprendola con la mano sana e scivolò sulle ginocchia a terra, accucciandosi su sé stesso, come se facendolo fosse riuscito a diminuire il dolore lancinante che lo stava colpendo.
Allontanò per un attimo il braccio dal petto, scoprendo il polso e vide la sua mano ricoperta di sangue, mentre là dove ci doveva essere il suo tatuaggio c’era solo un piccolo ammasso di carne e di sangue che bruciava come l’inferno.
Il suo fiato si spezzò, facendolo singhiozzare più violentemente. Faceva male, così tanto male che non riusciva a pensare a nulla.
L’uomo si avvicinò a lui. Gli afferrò il braccio, scoprendogli il polso con la forza e di nuovo Nico vide il sangue che gocciolava a terra.
Intravide qualcosa sotto il sangue e la pelle, che sembrava quasi infetta. Si stava formando un nome, velocemente.
Riuscì a leggere qualcosa di simile a “Gareth”, ma non ne era sicuro. Ogni lettera pulsava, così come i disegni astratti intorno al nome.
Quel tatuaggio era enorme e più si delineavano i tratti, più la pelle sembrava bruciargli e sanguinare ancora di più.
L’uomo sospirò, quasi desolato per lui.
« Nico di Angelo. » mormorò « Non hai passato la Cerimonia dell’Accettazione. »
Nico si voltò verso sua madre.
Era ancora immobile sulla sedia, troppo bianca per essere ancora viva. Invece si mosse, lentamente. Si alzò in piedi e poi gli corse incontro, abbracciandolo e piangendo.
Nico avrebbe voluto dirle di lasciarlo, che gli stava sporcando il vestito, ma non ci riuscì. Allungò la mano sana e abbracciò a sua volta la madre.
Anche se piangevano per due motivi diversi, erano l’uno il sostegno dell’altro. L’unica cosa che gli era rimasta ad entrambi, anche se Nico ancora non lo sapeva.

Nico si alzò presto quella mattina.
Erano passati quattro anni dalla sua cerimonia e da quel momento in poi le cose non avevano fatto altro che precipitare.
Due giorni dopo, suo padre aveva lasciato la loro casa, portandosi via sua sorella. Erano anni che non la vedeva e gli mancava.
Sua madre aveva cercato di convincerlo a rimanere, che le cose potevano ancora essere aggiustate, ma l’uomo se ne era andato via lo stesso, urlando che non avrebbe permesso ad un soulbroken di rovinare la sua reputazione.
“Non era possibile che fosse davvero figlio suo”, diceva. “Nessuno nella mia famiglia è un soulbroken”, aveva urlando. “Deve essere per forza un pezzo marcio della sua famiglia”, aveva urlato rivolto alla madre.
Nico era rimasto nella sua stanza a piangere.
Poco prima la madre gli aveva cambiato le bende, ma si riempivano velocemente di sangue e non riusciva a fare altro che a metterne altre e altre.
Non si fermava mai il sangue. Di notte un po’ l’afflusso diminuiva, ma di giorno era intollerante.
Il primo anno Nico l’aveva passato chiuso in camera.
Maria di Angelo aveva trovato un nuovo lavoro, uno serale, ma dovettero trasferirsi. Nico non si portò via quasi nulla. La vecchia casa gli ricordava dei giorni felici che, lo sapeva, non sarebbero mai più ritornati da loro.
La madre faceva il doppio turno in fabbrica. Usciva preso la mattina e tornava tardi la sera.
Con il tempo Nico si era abituato a fare tutte le cose da solo. Puliva la casa, cucinava, andava a fare la spesa e si cambiava le fasciature.
Era diventato bravo a stare da solo, nel suo piccolo angolo di conforto.
Poi un pomeriggio, dopo un anno dalla sua cerimonia, la madre aveva bussato in camera sua e si era seduto sul suo letto.
Dalla cerimonia, non si parlavano molto, ma la colpa era quasi sempre di Nico. Si vergognava del suo tatuaggio che sanguinava e si odiava per aver fatto soffrire la madre.
Aveva una vita felice e lui gliel’aveva rovinata.
Era come aveva detto suo padre.
Nico era un pezzo marcio che nessuno voleva intorno e aveva distrutto tutto ciò che aveva.
Ma Maria di Angelo non gli badava mai troppo. Si sedeva lo stesso sul suo letto e gli parlava di quello che faceva a lavoro, dei pettegolezzi in fabbrica o di quanto era buona la pasta che aveva cucinato per cena.
Nico di solito stava sotto le coperte, a fissare il muro. La ascoltava, ma gli rispondeva raramente.
Quella sera era tornata prima del solito e si era messa accanto a lui, come sempre.
Gli aveva detto di aver preso una settimana di ferie e che potevano stare insieme, andare a fare delle passeggiate o quello che voleva lui.
Poi gli aveva detto che voleva iscriverlo a scuola.
E da là le cose erano peggiorate ancora.
Nessuna scuola privata voleva Nico. Era un disonore avere in giro un soulbroken. Ragazzi destinati a diventare delinquenti o spacciatori o drogati o barboni. Erano il margine della società, la feccia di ogni popolazione. Dopo aver ricevuto dei rifiuti da sette scuole diverse, Maria di Angelo aveva ignorato le proteste del figlio e si era gettata sulle scuole pubbliche.
Anche là alcune lo avevano rifiutato, poi finalmente ne aveva trovata una che era disposto ad accettarlo.
Era specializzata nella rieducazione infantile di rifiutati. Là nessuno lo avrebbe preso in giro perché aveva un tatuaggio che sanguinava e marciva.
Nella scuola c’era tanti altri soulbroken e soulless, cioè colore a cui non spuntava nessun tatuaggio. Era quelli che nella loro vita passata avevano distrutto il legame con il loro soulmate o che aveva subito il recesso dello stesso legame dalla loro persona destinata. La maggior parte delle volte però, erano stati loro a prendere quella decisione egoistica di non volerne più sapere della persona destinata. Erano quelle persone che avevano segnato, nel loro egoismo, la vita successiva di quelli come Nico.
Era così che Nico aveva vissuto i successivi tre anni. Andando a scuola, stando per i fatti propri perché instaurare dei rapporti sociali era troppo complesso e doloroso e occupandosi della casa.
La madre sembrava essersi ripresa, per quanto una donna che ha dovuto accettare un divorzio e che non vede la figlia maggiore da quattro anni potesse riprendersi.
Aveva provato a vedersi con altri uomini, ma alla fine c’aveva rinunciato. Lei aveva già il suo soulmate, che l’aveva abbandonata.
E continuava ad amarlo, anche contro la propria volontà.
Era una spina nel fianco avere quel tatuaggio, anche se eri socialmente accettato da tutti e non eri un mostri che sanguinava ripetutamente senza morire.
Nico fissò il soffitto quella mattina, ripetendosi che la vita e il mondo in cui vivevano faceva davvero schifo, sotto ogni punto di vista.
Si alzò in piedi, andando a preparare la colazione.
Aveva compiuto da poco dodici anni e già si odiava a morte. Continuava a vivere per inerzia. Perché sapeva che, per qualche strano scherzo del destino, se anche lui se ne fosse andato sua madre ne sarebbe morta.
E gli aveva causato già abbastanza sofferenze fino a quel momento.
Doveva essere un bravo ragazzo. Doveva tentare di renderla felice. In ogni modo.

**

Gareth Mahe non aveva la più pallida idea di cose gli stesse succedendo.
Era nella sala della Cerimonia dell’Accettazione e aveva appena bevuto dal bicchiere d’argento quella strana acqua.
Era rimasto un attimo immobile.
Era normalissima acqua. Si chiese perché sua madre fosse tanto emozionata per quella cerimonia senza senso.
Se doveva solo bere dell’acqua, tanto valeva farlo restando a casa, no?
Appoggiò il bicchiere su tavolo, dietro al quale si trovava l’uomo che seguiva sempre quelle cerimonie (almeno così diceva sua madre) e si guardò intorno.
Nessuno respirava e nessuno diceva nulla.
Si girò verso i suoi genitori. Erano immobili sulla sedia e fissavano dritti davanti a lui.
L’uomo si avvicinò a lui e gli prese il braccio, guardandogli il polso.
« Gareth Mahe. » esclamò l’uomo « Non hai passato la Cerimonia dell’Accettazione. »
Gareth lo fissò, chiedendosi se avesse dovuto offendersi o meno.
Certo, non era proprio una cima a scuola (anche se aveva solo otto anni) perché non aveva mai abbastanza voglia di mettersi a fare i compiti.
Insomma, in una bella giornata di sole quale bambino avrebbe scelto di stare fermo in casa, chino sui libri quando avrebbe potuto scendere in cortile a giocare con i suoi amici?
Nessuno.
Gareth ne era sicuro. Solo un bambino pazzo avrebbe scelto i libri agli amici o ai giochi.
Arrivati a casa, sua madre scoppiò a piangere.
Il padre tentò di consolarla, ma lei passò il resto del pomeriggio a singhiozzare in camera. Gareth non capiva quale fosse il problema.
Non capiva nemmeno per quale motivo la loro vita dovesse essere basata quasi esclusivamente sul tatuaggio.
Non lo aveva mai capito, nemmeno quando i suoi genitori avevano provato a spiegargli che avere il tatuaggio significava essere accettati dalla società, che era il bene e che non averlo, o peggio, avere addosso il marchio dei soulbroken era sbagliato.
Ma Gareth continuava a non comprendere.
Lui era sempre lui. Tatuaggio o non tatuaggio.
Era passato quasi un mese da quando c’era stata la cerimonia. Nei giorni successivi Gareth aveva incrociato la madre, ma lei i primi tempi scoppiava di nuovo a piangere, oppure tentava di fingere che andasse tutto bene.
Quella mattina suo padre era entrato nella sua stanza e si era seduto al suo fianco.
Gli aveva detto che forse poteva fare in modo di sistemare le cose, anche se non ne era sicuro, ma si era fatto promettere solennemente di non dire niente a nessuno. Era il loro segreto. Gareth aveva giurato sul suo libro dei “Giovani Maghi”.
Nessuno poteva essere così crudele da infrangere un giuramento fatto sul libro della magia!
Il pomeriggio stesso il padre lo aveva portato in un zona della città che non aveva mai visto. I palazzi erano tutti alti e grigi e le persone che passeggiavano per la città sembrava che in realtà non avessero una casa.
Era arrivati là con l’autobus ed erano scesi in una piccola piazza, poi si erano infilati dentro un palazzo ed erano saliti fino al terzo piano. Era un condominio senza ascensore. Davvero esistevano palazzi senza ascensori?
Nel suo quartiere, gli unici a non averne erano le villette (anche se a dir la verità, un suo compagno di scuola viveva in una villa a tre piani e aveva un piccolo ascensore, ma forse non era il momento di farlo notare al padre).
Entrarono in un appartamento che odorava di muffa e di chiuso e su un divano vide un ragazzo che dormiva. Aveva il braccio sinistro che penzolava a terra. Gareth si fermò a fissarlo. Aveva tutto il braccio sinistro pieno di ferite e di sangue e di graffi e di cicatrici.
Lo guardò meglio. Il ragazzino era scheletrico, quasi con le ossa sporgenti, i capelli neri e lunghi e indossava solo una canottiera, come se non gli importasse che gli altri lo fissassero. I jeans neri e gli stivali erano sporchi di terra e l’unica cosa che poco tempo prima doveva essere coperta era il polso. Dalla polsino elastica sul braccio sinistro spuntavano delle bende insanguinate e Gareth intravide la ferita viva che sanguinava.
Trattenne il fiato.
Era un soulbroken.
Era la prima volta che ne vedeva uno così da vicino.
Sembrava dormire, ma respirava talmente piano che Gareth si chiese se fosse davvero vivo. Sentì la mano del padre stringersi sulla sua spalla e avvicinarlo a sé.
Da un’altra stanza arrivò un altro uomo. Era alto e grosso e indossava solo una maglietta bianca e dei jeans.
Gareth lo guardò meglio e vide che anche lui non aveva il tatuaggio.
« Sono qua per l’accordo. » esordì il padre.
Gli tremava leggermente la voce e il ragazzino alzò gli occhi verso di lui, iniziando a spaventarsi.
« Lo sai che non durerà per sempre, vero? » si limitò a dire l’altro, accendendosi una sigaretta e buttando via il fumo « Dovrai venire qua almeno una volta ogni due mesi. La pelle dei soulless rifiuta contagi esterni. E’ protetta. Nessuno può ingannare la Cerimonia dell’Accettazione. »
« Lo so. »
« Non ti costerà poco. »
« Lo so. E adesso fallo. Muoviti. Ti ho già messo i soldi sul conto. »
L’altro ridacchiò, afferrando una macchina, delle cartucce e quella che sembrava una penna.
« Ho visto, tranquillo. » poi guardò Gareth e gli sorrise, dando delle pacche sulla sedia accanto alla sua « Forza ragazzino, vieni qua. Hai decisamente un padre che ti vuole bene eh? Sfidare la legge in questa maniera… » borbottò.
Gareth continuò a guardare il padre, che tentò di incoraggiarlo e lui fece come l’altro gli aveva detto. Si sedette di fronte a lui.
« Forza. Appoggia il braccio sinistro qua, così possiamo iniziare. »
« Cosa farai? » domandò piano il ragazzo, obbedendo.
« Il tatuaggio dei soulmates, no? Su, dimmi un nome. »
Gareth ci pensò su qualche secondo. C’era una ragazza con dei bei capelli rossi nella sua classe.
« Cindy. » disse subito dopo.
« Perfetto. Farà un po’ male ragazzo, sei pronto? »
Il ragazzino non ne era così sicuro e non voleva che la sua voce tremasse o che passasse per fifone, si limitò ad annuire.

Gareth si grattò il polso. Anche dopo sei anni, il tatuaggio prudeva, come se avesse passato della candeggina sulla pelle..
Lo guardò distrattamente, ormai lo conosceva a memoria.
Il tatuaggio la prima volta aveva fatto talmente tanto male che aveva preferito tenersi solo il nome, semplice e lineare. I contorni iniziarono a sbiadirsi, come se fosse stato fatto con un pennarello per bambini, di quelli che vanno via con l’acqua.
I primi tempi non comprendeva l’importanza di avere una stupida scritta sul polso.
Poi era cresciuto e aveva iniziato a guardarsi realmente intorno, a lasciare la sua zona sicura del proprio quartiere e ad andare oltre.
Prima di essere mandato in un collegio privato per ragazzini con famiglie super ricche, quando saltava scuola andava sempre nei quartieri per disagiati.
In qualche maniera che non riusciva a spiegare, si trovava bene là. Forse perché dentro di sé sapeva che quello era il suo posto di appartenenza.
Era un soulless.
Aveva troncato il legame con il proprio soulmate e quindi era privo di ogni legame con il mondo. Si sentiva libero come il vento, felice di poter andare dove voleva, quando voleva.
Con l’unica regola di essere a casa in tempo per i pasti, ovviamente.
Su quello sua madre non trasgrediva mai. A tavola doveva sembrare la famiglia perfetta. La madre casalinga che fa lustrare la casa da cima a fondo, che partecipa alle associazioni di beneficenza e che fa anche volontariato, il padre con un ottimo lavoro governativo e che è amorevole con la moglie e il bambino (che era stato tanto avventato da falsificare il suo certificato della cerimonia con un bel “Passato”) e poi il figlio perfetto, sportivo, bravo a scuola, educato e anche gentile con gli amici.
Una facciata.
Ecco cosa era davvero la sua famiglia. Una bella facciata, come le scenografie dei teatri.
Tolto lo strato superficiale, Gareth riusciva a vedere la desolazione che li accompagnava dalla cerimonia.
Suo padre passava tutto il tempo a lavoro (e probabilmente aveva un’altra), lui preferiva occuparsi nello sport piuttosto che nello studio e sua madre era una donna ossessiva compulsiva con problemi depressivi.
E odiava il figlio, alla follia.
Non capiva, Gareth, perché solo i soulmate “normali” avessero diritto ad una vita felice. Non era giusto.
Era solo uno stupido nome. Senza alcun senso.
Guardava i suoi genitori e non capiva perché dovessero continuare così. Si amavano ancora? Oppure il loro legame si stava sciogliendo? Nella loro vita successiva sarebbero stati anche loro dei soulbroken o dei soulless?
Gareth non aveva una risposta. Sfiorò con il polpastrello il suo finto tatuaggio. Un nome che non sarebbe mai apparso perché lui aveva deciso che era meglio non avere più niente a che fare con qualcuno.
« Signor Mahe, la mia lezione potrà non essere interessante come il suo tatuaggio, ma può per favore essere meno sfacciato nella sua dimostrazione di disinteresse? »
La voce aspra e dura della sua professoressa lo riportò con i piedi per terra. Si guardò intorno, un po’ spaesato. Alcuni dei suoi compagni lo fissavano, altri ridacchiavano.
Si chiese, in una manciata di secondi, perché nonostante tutto sua madre avesse voluto spedirlo in un collegio con dormitorio nonostante abitassero nella stessa città. Di tanto in tanto vedeva suo padre, quasi ogni sabato. Ma Gareth non incontrava la madre da più di sei mesi.
Un tatuaggio sul polso valeva più del suo affetto? Evidentemente sì.
Solitamente avrebbe risposto con una risposta sarcastica alla prof, ma in quel momento era troppo amareggiato per farlo. E poi non voleva di nuovo finire dal preside. Il suo ufficio puzzava di muffa.
« Mi scusi professoressa McSimons. » si limitò a dire.
Gareth la vide tentennare di fronte alla sua aria remissiva e riprendere subito la lezione, mentre lui nascondeva un sorriso amaro. Ci voleva così poco per confondere le persone
Un tatuaggio finto e un comportamento finto.
Tutto in Gareth riportava alla menzogna.
Chinò gli occhi sul libro di testo. Letteratura inglese. Analisi di un testo. Lui odiava letteratura inglese. Preferiva la matematica e la chimica. Là non si poteva sfuggire. Non c’erano “interpretazione” o “punti di vista”.
Due più due era sempre quattro. Non cambiava.
Erano passati sei anni dalla sua cerimonia e ogni volta che andava nel sobborgo per farsi risistemare il tatuaggio, incontrava sempre quel ragazzo scheletrico, quello che la prima volta aveva visto sul divano che dormiva. Lo aveva visto anche il mese prima.
Non puzzava come il tatuatore, né come gli altri uomini che giravano per quelle strade. Aveva sempre le braccia martoriate e non mangiava. Ma era curato nel proprio disinteresse.
I capelli erano sempre puliti, anche se disordinati. I vestiti odoravano sempre di fresco e profumato, anche se ormai erano consumati dal continuo uso quotidiano. Le sue mani erano tenute per bene, anche se c’erano di tanto in tanto delle piccole macchie di sangue, probabilmente a causa del suo tatuaggio.
Era più grande di lui, doveva avere almeno vent’anni. Indossava una collanina con un teschio e la maglietta nera era troppo larga per lui. Quando si piegava sul divano si vedevano le costole sporgenti e la colonna vertebrale.
Lui dormiva quasi sempre. Solo una volta quando si era alzato per andare via lo aveva visto sveglio, di schiena, mentre andava nell’altra stanza. Gareth aveva sentito un brivido lungo la schiena e se ne era andato velocemente.
Eppure non riusciva a toglierselo dalla testa.
Era là, fisso nella sua mente e non voleva saperne di andarsene.
Scosse leggermente la testa, cercando di pensare ad altro. Ad esempio il suo libro, anche perché era abbastanza sicuro che la scusa “Non ho studiato perché ero troppo impegnato a pensare ad un soulbroken autolesionista che vedo ogni mese mentre mi faccio un tatuaggio finto per fingere di essere un soulmate” non avrebbe sortito l’effetto desiderato.
Si grattò il polso. Certo che iniziava a prudere parecchio il maledetto! Era un segno che a breve avrebbe dovuto tornare dal tatuatore.
Forse avrebbe dovuto semplicemente far sparire quel ragazzo dalla sua testa e basta. Tanto probabilmente non sarebbe sopravvissuto a quell’inverno. Era talmente magro e sfato che Gareth si chiedeva come faceva ancora a reggersi in piedi.
Sbuffò leggermente.
Magari avrebbe dovuto semplicemente cercarsi davvero una ragazza di nome Cindy, innamorarsi, trovare un lavoro e farsi una famiglia e fingere di avere una vita normale.
Decisamente, quella sembrava essere l’unica opzione possibile e attuabile.

**

Nico odiava sognare. Inevitabilmente sognava e ricordava parti del suo passato che avrebbe voluto seppellire in fondo ad un cassetto. Odiava ricordare quello che aveva, quello che non aveva più e quello che non avrebbe mai avuto.
Si alzò dal letto di pessimo umore e si guardò intorno. Sulle sue labbra spuntò un sorriso amaro. Aveva venticinque anni e non riusciva nemmeno a distinguere la realtà dalla finzione. Non avrebbe dovuto riuscire a non farsi influenzare da ciò che sognava?
No, evidentemente. Ma lui ci aveva provato. Davvero, con tutte le sue forze.
Se avesse avuto delle persone con cui parlare, probabilmente quelle persone avrebbero giurato che Nico ce l’aveva messa tutta per tirare avanti decentemente.
Era andato a scuola. Aveva preso il diploma, nonostante tutto. Aveva studiato, senza creare problemi a nessuno, se non esclusivamente a sé stesso. Era stato bravo. Pensava a tutto lui. Alla casa, alla madre.
Aveva anche iniziato a pensare alle bollette da pagare quando la madre aveva perso il lavoro perché si era ammalata di una brutta polmonite.
Certo, le aveva dovuto mentirle, ma tanto lei non avrebbe mai scoperto la verità. Stava sempre a letto e non si alzava quasi mai. Stava troppo male.
Le aveva detto che nei sobborghi cercavano qualcuno come aiuto nelle cucine. Era più o meno la verità. Non aiutava nelle cucine, ma nello spaccio di pasticche per i soulbroken, ma tant’era che aveva bisogno di soldi. E in quel modo se ne guadagnavano di più.
E poi c’era Percy nei sobborghi.
Percy era a capo di una delle piccole bande di spaccio del quartiere, che si rifacevano tutte ad un capo che Nico non conosceva e che, sinceramente, non voleva nemmeno conoscere. Percy era più grande di lui di almeno tre o quattro anni ed era come lui.
Quando era approdato da lui, affamato e stanco e bisognoso di soldi, lo aveva aiutato, preso sotto la sua ala, accudito e rimesso in piedi, per quanto una persona come Percy potesse aiutare un quattordicenne disperato.

Nico entrò dentro il palazzo che aveva tutta l’aria di essere abbandonato, anche se mentre camminava lungo i corridoi e le scale vide che in realtà era più che abitato. Davanti a lui c’erano tutti emarginati. Uomini, donne, bambini, ragazzi. I più grandi avevano l’aria di chi ha appena ricevuto l’ennesimo calcio in faccia. I più piccoli invece erano ancora animati da una vaga fiammella di speranza. Giocavano fra di loro, passando e correndo fra i corridoi, incuranti di Percy e Nico che stavano camminando.
Nico sentiva la testa che gli girava. Non riusciva a fare altro che a guardare la schiena di Percy, grande e solida davanti a lui, ad osservargli i capelli neri e i jeans strappati. Anche le scarpe erano rotte, ma addosso a lui stavano bene.
Gli davano un aspetto trasandato, anche se a guardarlo meglio, Nico vide che non era solo un effetto voluto. Percy era davvero povero, esattamente come tutti gli altri che vivevano nei sobborghi. Era solo leggermente più ricco degli altri.
Lo seguì direttamente dentro casa sua.
Essere un pusher gli dava solo diritto ad un appartamento minuscolo con il bagno e il cucinotto che aveva l’aria di poter esplodere da un momento all’altro.
Percy gli disse che poteva sedersi sul divano se voleva mentre tentava di cucinare qualcosa. Si voltò, sorridendogli, dicendogli che non era molto bravo come cuoco.
Nico non aveva risposto, immobile al suo posto a guardarlo mentre si muoveva. Aveva passato gli ultimi tre anni della sua vita a tentare di reprimere quelle sensazioni, quella idee, quelle emozioni. Aveva tentato di dirsi che essere gay era solo l’ennesima stronzata che potesse toccargli. Che si ricordava bene delle invettive di suo padre contro quegli “schifosi pervertiti che popolavano la sua terra” e anche se non c’era più il pericolo di ritrovarselo davanti, sentiva ancora crescergli l’ansia quando, chiuso nella sua stanza e ben nascosto sotto le coperte, si masturbava di fronte ad un fumetto porno gay.
Si odiava, ancora di più.
E Percy era tutto ciò che aveva sempre sognato. Era alto, atletico, con i capelli neri e gli occhi verdi e il suo sorriso e il suo ottimismo era qualcosa che lo stava lentamente uccidendo. Lo guardava parlare Nico, ma non riusciva ad ascoltarlo.
Anche quando il ragazzo appoggiò sul tavolo un piatto di uova strapazzate e del pane tostato insieme ad un bicchiere di latte, Nico impiegò qualche secondo per comprendere che gli stava chiedendo qualcosa.
Il più piccolo era arrossito come una femminuccia, aveva biascicato qualcosa e poi si era letteralmente gettato sul cibo.
Era abituato a mangiare poco Nico, ma il digiuno non l’aveva mai provato fino a quella settimana, quando la madre aveva perso il lavoro e non riusciva nemmeno a stare seduta nel letto.
Percy iniziò a parlargli di quello che poteva fare per lui, che poteva fare il corriere, portare le pillole nei quartieri alti o nelle aziende e ritirare i soldi.
Tanto nessuno avrebbe fatto caso ad un ragazzino un po’ pallido, se fosse stato vestito meglio gli disse tirando fuori dall’armadio dei vestiti un po’ vecchi.
Nico aveva annuito e accettato. Con i primi soldi aveva potuto pagarsi l’iscrizione a scuole e i nuovi libri e anche a comprare delle medicine per la madre, sempre al mercato nero perché avendo perso il lavoro non poteva più permettersi di pagare l’assicurazione medica.
Era bravo Nico in quel lavoro. Anche quando incrociava la polizia o altri tipi di controlli, riusciva sempre a sfuggirgli, sia perché correva velocemente, sia perché riusciva a mimetizzarsi in mezzo alla folla della metropoli.
E poi aveva modo di vedere Percy ogni giorno. Lo aveva osservato da lontano, come semplice amico, per due anni. Fino a quando, durante il compleanno del più grande, Nico non aveva preso coraggio per dirgli tutto quello che si teneva dentro.
Poi all’improvviso dalla sua stanza da letto era uscita una ragazza. L’aveva già intravista, ma solo di sfuggita. Sapeva che si chiamava Annabeth e che frequentava il suo stesso giro, ma era la prima volta che li vedeva… in atteggiamenti intimi.
Guardando Percy che la baciava, l’abbracciava e rideva, spezzò il cuore di Nico. Si morse un labbro a sangue e, senza dire niente a nessuno, lasciò la festa prima ancora che cominciasse.

Nico raggiunse il bagno, scuotendo la testa. Necessitava di una doccia fredda, per dimenticare i propri problemi, ormai seppelliti sotto anni e strati di dolore e accettazione.
Che Percy non potesse essere il suo uomo del destino era pressoché scontato considerando che il nome che aveva sul polso non era il suo, eppure si era innamorato lo stesso. Nico non sapeva se era possibile o meno una cosa del genere o se capitava solo ai soulbroken e ai soulless, in quanto ormai privi di legami.
Sapeva solo che ci era rimasto male, perché aveva visto che era un soulless. Magari avrebbe potuto accettare un ragazzino con un tatuaggio che sanguinava da mattina a sera. Avrebbe anche dovuto immaginare che un ragazzo come Percy non avrebbe potuto rimanere single a vita.
Si gettò sotto l’acqua gelida, anche perché non c’era nessuna alternativa. L’acqua calda non arrivava ai sobborghi.
Si lavò velocemente i capelli, stando ben e attento a non bagnarsi eccessivamente il polso sinistro con il sapone. Bruciava da far schifo. Evitò anche di guardarsi. Odiava il proprio riflesso, ciò che vedeva, ciò che rappresentava.
Odiava tutto. Avrebbe voluto prendere a calci lo specchio, con tutte le forze che aveva.
Uscì dalla doccia, vestendosi rapidamente, gettando uno sguardo al muro. Se si fosse mosso, avrebbe magari potuto fare in tempo per prendere la metropolitana. Doveva raggiungere la parte opposta della città, dove si trovava l’orfanotrofio dove lavorava già da un paio d’anni.
Dopo essere stato acchiappato nel Financial District mentre vendeva a due distinti manager droga e pillole per soulbroken e dopo essersi fatto solo un anno di carcere (e aveva dovuto ringraziare il fatto che fosse minorenne), Nico aveva deciso di troncare con quella vita.
Certo, vedeva ancora Percy e gli altri, vivevano ancora nello stesso condominio nei sobborghi, ma i loro rapporti si limitavano a quelli. Nico voleva una vita onesta.
Povera, ma onesta.
I giorni nelle carceri lo aveva torturato per mesi. Non era assolutamente sua intenzione ritornarci, mai più.
Lasciò il palazzo velocemente. Era stato Percy a trovargli quel buco dove vivere, sette anni prima, poco prima di essere spedito dietro le sbarre.
La madre era morta per la febbre poco prima e lui non aveva più un posto dove andare. Percy si era grattato la testa, pensieroso, cercando ad un modo di aiutarlo, trovandogli poi l’appartamento in cui era andato a vivere. A Nico non piaceva farsi vedere spezzato, ma la perdita della madre era stato un duro colpo per lui. Si era buttato senza riflettere in ogni lavoro che Percy gli passava, non curandosi più della sicurezza e dell’anonimato.
Aveva pagato a caro prezzo quella disperazione.
Solo al mondo, Nico aveva trovato lavoro in un orfanotrofio come infermiere. Aiutava un dottore a curare i bambini che si facevano male. Certo, la paga era da fame e il lavoro era tanto e la maggior parte delle volte tornava a casa arrabbiato e sfiduciato.
Guardava quei ragazzini emarginati e si chiese che cosa sarebbe diventato lui se la madre non avesse combattuto per proteggerlo, per donargli una vita migliore.
Ogni volta che ci pensava, gli sembrava di ricevere una stilettata nel petto.
Anche quella sera tornò verso la metropolitana. Aveva sonno ed era stanco. Avrebbe dovuto mangiare, lo sapeva, ma non ci riusciva.
Aveva perso il conto dei pasti saltati nell’ultima settimana. Non che gli importasse realmente qualcosa, ma forse, almeno per una volta, avrebbe dovuto dare retta a Percy e mangiare un po’ più regolarmente.
Fece passare il biglietto della metro nell’obliteratrice e poi montò sul vagone. Si appoggiò contro un palo e fu dopo un paio di fermate che, di nuovo, la vita di Nico parve rovesciarsi su sé stessa.
Aveva visto per l’ultima volta sua sorella diciassette anni prima, il giorno prima della sua Cerimonia di Accettazione.
Prima che suo padre scomparisse trascinandosela dietro perché era troppo vergognoso avere un figlio soulbroken. Era meglio andarsene via abbandonando tutto e tutti portando con sé la perfettissima figlia soulmate.
Ma ne era sicuro.
La ragazza che si era appena seduto davanti a lui era Bianca. Era più alta, snella, con un vestito bianco e delle scarpe basse. Aveva i capelli lunghi e castani sciolti sulle spalle e sembrava ancora più delicata di come la ricordava.
Si chiese se avesse già incontrato Zoe, ma a giudicare dalla sua espressione serena e felice, avrebbe detto di sì. Aveva già visto quello sguardo in molti altri adulti, sua madre per prima. Si era unita con la sua anima gemella e…
Quando Nico spostò lo sguardo sul ragazzo accanto a lui, i pensieri di Nico si annullarono. Per quasi un minuto non riuscì a pensare a nulla, sentendo solo delle piccole scariche elettriche scivolargli sotto la pelle.
Il ragazzo era il più bello che avesse mai visto. Forse anche più bello di Percy o forse lo pensava solo perché si sentiva completamente scombussolato. Non era mai capitato di sentirsi in quella maniera, così strano, così stravolto, così… leggermente felice.
Il tatuaggio pulsava e faceva più male del solito. Nico avrebbe dovuto controllare se la fasciatura era ancora ben stretta sotto il polsino, ma non riuscì a staccare gli occhi dal giovane accanto a sua sorella.
Sembrava appena uscito da una rivista sportiva di un qualche college famoso. Gli occhi azzurri, i capelli biondi e un po’ spettinata, le spalle larghe, il vestito elegante.
Sembrava tutto semplicemente al suo posto.
Ad un certo punto tutto tornò sui propri binari. Spostò di nuovo lo sguardo su Bianca, che lo stava fissando come se avesse appena visto un fantasma.
Nico non sapeva bene come comportarsi, quindi distolse lo sguardo. Forse fingere di non averla vista avrebbe risolto tutto.
Non ne voleva sapere di riaprire certe ferite che dovevano ancora rimarginarsi.
Ma doveva immaginarselo che lei non avrebbe desistito. Era sempre stata testarda Bianca e avrebbe dovuto sapere che le cose non sarebbero potute andare meglio.
Bianca si alzò dalla sedia, ignorando il ragazzo che aveva accanto e si piazzò davanti a lui, le braccia incrociate davanti al petto.
« Nico? » sussurrò piano.
Il fratello si sentì ancora più pallido e scostò la testa, facendo scivolare i capelli lunghi e neri di fronte agli occhi.
« Nico, so che sei tu, quindi smetti di ignorarmi o faccio una scenata di fronte a tutta il vagone. » mormorò a voce ancora più bassa, abbozzando un sorriso.
Il ragazzo si morse un labbro, tornando a guardarla e vide che aveva gli occhi lucidi.
« Come stai? » domandò piano, cercando di non farsi attrarre troppo dal giovane dietro di lui.
Lei si voltò a vedere la fermata e poi sorrise più apertamente.
« Aspetta. Parliamo meglio fuori, che ne dici? Fermiamoci a prendere un panino da qualche parte, così siamo più comodi. »
« Cos…? No, davvero, io non… »
Lei lo afferrò per una mano, tirandolo e fece un cenno al suo amico che lo seguì velocemente sulla banchina della fermata..
« Davvero, Bianca, io non penso che… »
« Conosco un posto carinissimo. » lo interruppe ancora lei con gli occhi che brillavano per l’emozione e Nico si ricordò che anche da piccolo non riusciva mai a trattenerla, ad impedirle di fare tutto ciò che voleva fare.

Si sedette ai tavolini di un bar aperto fino a tardi e Nico si sistemò a disagio sulla sedia, di fronte a Bianca e accanto allo sconosciuto che lo fissava ancora come se avesse visto anche lui un fantasma, qualcuno di un passato.
Intravide il suo tatuaggio e abbozzò una risatina senza gioia. Probabilmente quel ragazzo perfetto non sembrava aver mai visto un soulbroken in vita sua.
« Allora, come te la cavi? » chiese Bianca interrompendo i suoi pensieri.
« Mh. Bene. Ho un lavoro, ho un casa e basta. Adesso io dovrei… »
« Nico di Angelo! » lo ammonì lei « Ti ho cercato in tutta New York per più di dieci anni, adesso che sono riuscita a trovarti non intendo lasciarti andare per nulla al mondo. »
Lui si guardò intorno. Si chiese se intorno a lui c’erano dei conoscenti che avrebbero potuto rovinare l’idilliaca idea che Bianca si stava facendo di lui.
Un qualcosa dentro di lui si mosse. Gli faceva piacere sapere che Bianca lo avesse cercato. Lui era stato talmente occupato a pensare ad altro, che anche solo pensare di cercarla era fuori discussione.
Aveva rinviato, giorno dopo giorno, dicendosi che prima o poi l’avrebbe cercato.
Senza mai farlo.
« Mh. Va bene. » acconsentì « Tu… come te la cavi? »
« Bene. » il suo sorriso si fece ancora più largo « Sono diventata avvocato associato nello studio di Zoe. » arrossì « Ho incontrato Zoe in tribunale, lei era l’avvocato della difesa, era il mio primo processo e… beh, lasciamo stare. » rise, imbarazzata.
Nico accennò un sorriso.
« L’importante è che tu sia felice. » disse sincero.
« Sì, io… » improvvisamente si fece a disagio « E tu Nico? Come stai? Sei magrissimo e bianco come il gesso. » allungò la mano per accarezzargli una guancia, ma lui si scostò velocemente.
« Non… non mi piace essere toccato, scusami. » mormorò distogliendo lo sguardo.
« Che lavoro fai? » chiese lei cambiando argomento.
Nico incrociò le braccia al petto, fissando oltre di lei.
« Lavoro in un orfanotrofio, assisto il dottore. Ho appena finito. Stavo andando a casa, in uno dei sobborghi. »
Lei non sembrava giudicarlo, ma sorrideva e basta. Nico avrebbe voluto chiederle del padre, ma sapeva che poi a quella domanda sarebbe giunta una domanda alla quale lui non era ancora in grado di rispondere, una domanda su sua madre.
Rimasero in silenzio per una manciata di secondi, poi Bianca si voltò verso lo sconosciuto, rimasto in silenzio, nervoso, fino a quel momento. Nico ne approfittò per bere un po’ d’acqua. Si sentiva ancora nervoso e a disagio.
« Lui è Gareth Mahe. Sta facendo il suo primo tirocinio nel nostro studio e frequenta l’università di legge. »
Nico rimase immobile per qualche secondo, poi poggiò il bicchiere sul tavolo.
Gareth.
Gareth era lo stesso nome che pulsava sul suo polso, quel nome che non si era formato, che sanguinava dolorosamente giorno e notte. Gareth era il nome di colui che se ne era andato in qualche sua vita precedente, che lo aveva lasciato e abbandonato e reso quella vita un inferno di sofferenza.
Non era un nome così comune. E poi aveva letto di ciò che accadeva quando i soulbroken incontravano la loro anima perduta. Scariche di adrenalina, emozioni che risalivano a galla, rimanendo quasi addormentate sulla superficie di un’acqua limpida, calma, rischiando di tramutarsi in tempesta.
Un ammasso di promesse infrante che si schiantavano contro la superficie della sua mente, graffiandoli e ferendolo e tagliandolo e facendolo sanguinare con i vetri taglienti della propria testa.
I sensi che si annebbiavano, i pensieri che se ne andavano, una sorta di calore che lo riscaldava da dentro, come se avesse potuto, concentrandosi solo un altro po’, entrare in contatto con lui, come facevano tutti i soulmates.
Era sicuro che fosse lui, e si chiese allora chi era quella “Cindy” che c’era tatuato sul suo braccio. La persona per la quale lui era stato dimenticato? La sua vera anima gemella? Lui era stato solo una sorta di passaggio di prova?
Sentiva la rabbia e il nervosismo salirgli fino in gola, annebbiandogli il cervello.
Ma non disse nulla. Si limitò ad accennare un saluto con la testa. Non era sicuro come sarebbe uscita la sua voce se avesse iniziato a parlare.
« Sai. » riprese Bianca « Il nostro studio si occupa per lo più di soulbroken e soulless. Stiamo dalla loro parte. Noi pensiamo che tutti dovrebbero avere gli stessi diritti degli altri e che non è giusto che sia solo un tatuaggio a definire chi siamo. Quindi, se mai tu dovessi avere bisogno di una mano… sappi che io adesso ci sono, Nico. » allungò ancora la mano, ma questa volta Nico non si allontanò e si fece sfiorare il dorso della mano.
« Fa male il tatuaggio? » domandò dopo lei.
« Sempre. » rispose lui senza riuscire a dire altro.
« Ci sono alcuni studi medici che affermano che si può ridurre il dolore. Ci sono delle sperimentazioni che stanno avendo buoni risultati. Posso farti parlare con qualcuno e… »
« Bianca, se voglio ridurre il dolore di questo maledetto tatuaggio, prendo delle pillole. Illegali. Al mercato nero. E’ l’unico posto dove posso ottenere quello che voglio senza che dei soulmate che si credono superiori a me mi guardino come se fossi il peggiore dei delinquenti! » esclamò a voce alto, sentendo una nota di rabbia vibrare nella sua voce.
Prese un profondo respiro, tentando di calmarsi.
Le leggere scosse di adrenalina non erano finite. Forse se non fosse più stato nello stesso posto di Gareth avrebbe ritrovato la propria lucidità, il proprio controllo. Forse era la sua presenza che lo confondeva.
« Lo so. » commentò lei inaspettatamente « Lo so quali sono le pasticche che prendi, ma io… »
« Bianca, tu non puoi capire come io mi senta. » lo interruppe lui mantenendo un tono di voce controllato « Non puoi capire quale sia il dolore costante e continuo che io sento, né come le persone mi guardano, né come vedo il mondo intorno. Ho passato anni a fingere che andasse tutto bene e so che non andrà mai bene. Lavoro da anni dentro un edificio che crolla a pezzi dove ci sono centinaia di bambini abbandonati perché non sono perfetti. Solo perché qualcuno ha deciso che erano pezzi difettosi. Tu non hai idea di quale sia il mio mondo e delle differenze che ci sono con il tuo. »
Si alzò in piedi, cercando di non guardare Gareth.
« Ora vado. Fra poche ore devo tornare a lavoro. » si limitò a dire abbandonando un paio di dollari per le bibite e scomparendo fra la folla.

challenge: 500themes ita, pairing: mahe x di angelo, fandom: percy jackson, challenge: cow-t4

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