Titolo: Hoshi wo mezashite
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Chinen Yuri ; Yabu Kota x Yaotome Hikaru.
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, NonCon!, Death!Fic, Violence, AU!, Under!Age
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Kei è stanco della sua vita. Stanco di quella routine che lo stava lentamente uccidendo. E Kota, il suo padrone, il suo carnefice e l’uomo che lo aveva comprato non migliorava le cose.
Note: Scritta per il
bigbangitalia.
Note 2: Scritta per la
500themes_ita con i seguenti prompt.
“25. Soffrire l’agonia.”
“338. Affetto crescente.”
“253. Da solo vado in pezzi.”
“154. Favola incompleta.”
“339. Un tempo per essere in lutto.”
“108. Promettimelo.”
Note 3: Scritta per la
diecielode con i seguenti prompt:
"You trick your loves // That yo're wicked and divine"
“The undisclosed desires in your heart.”
“You may be a sinner.”
“Your beauty’s not just a mask.”
"I'll make you feel pure."
"Trust me // You are the one"
WordCount: 23.331 @
fiumidiparole Infine, ma non meno importante, per questa storia
vogue91 ha creato uno splendido fanmix. Meraviglioso. Mi è piaciuto tanto! ** Ancora grazie! <3
Gift!
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vogue91 Lista capitoli precedenti:
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Capitolo 01**
Capitolo 02
“Anche in un silenzio doloroso, sei amato.”
{Kanjani8 - Donna ni hanaretetatte soba iru kara}
Yuri si guardava intorno. Kei non era ancora arrivato. Eppure il contratto era scaduto già da trenta minuti.
Ansioso e un po' preoccupato, si agitò sulla sedia, costringendosi a non muoversi nemmeno di un centimetro.
Si guardò un'altra volta le spalle, osservando l'ascensore. Le porte rimasero chiuse. Afferrò il bicchiere, svuotandolo in un sorso. Si voltò con uno sguardo malevolo verso il barista che lo riempì nuovamente.
Bevve un sorso mentre le peggiori immagini si affacciavano alla sua mente. Poteva essere morto. Strangolato. Dissanguato. Smembrato. Appeso da qualche parte.
Oppure essere impossibilitato a chiamare aiuto. Oppure quel cliente dall'aria così sospetta si stava ancora divertendo con lui.
Oppure...
Finalmente l'ascensore trillò come ogni volta che le porte si aprirono. Si voltò di scatto, osservando Kei che rideva, mentre teneva sottobraccio il ragazzo.
Alzò un sopracciglio, perplesso. Non credeva di aver mai visto Kei uscire insieme ad un cliente in nove anni che lo conosceva. Tornò a fissare il suo bicchiere con aria furiosa.
Era stato un idiota a pensare che potesse essergli successo qualcosa. Schioccò di nuovo la lingua.
Ecco perché non poteva preoccuparsi di altre persona che non fosse sé stesso. Perché odiava l'ansia, odiava il panico di non sapere le cose, odiava la sensazione di vuoto che sentiva nel petto.
Udì la voce di Kei mentre flirtava ancora con il cliente e i suoi balbettii imbarazzati. Si voltò ancora, guardando l'uomo che s'inchinava davanti a Kei e il più piccolo che lo ricambiava. Poi si salutarono.
Yuri sentì i passi di Kei avvicinarsi e poi vederlo accasciarsi accanto a lui, la testa sul bancone del bar, le gambe che penzolavano.
Avrebbe voluto girarsi verso di lui, afferrarlo per i capelli e sbattergli la fronte contro il bancone e dirgli che si era preoccupato mentre lui stava solo facendo la gatta morta con quell'altro.
Ma rimase in silenzio. Non avrebbe ammesso a voce alta quella debolezza. Schioccò la lingua, ancora una volta, bevendo di nuovo tutto in un sorso.
Kei ordinò da mangiare, strafogandosi come al solito.
« Com'è andata? » domandò dopo poco Yuri.
« Bene. Era la sua prima volta con un uomo. Avresti dovuto vedere come era impacciato, quasi tenero. »
Il più grande storse la bocca a quell'aggettivo. Conosceva abbastanza bene il genere umano per sapere che nessuno di quelli che mettevano piede là dentro non erano brave persone.
Ma continuò a rimanere in silenzio.
« Mi fa piacere. » disse solo « Tornerà? » chiese poi.
Kei annuì.
« Me lo ha promesso. Dice che se le cose vanno bene sul lavoro può tornare anche tutte le settimane. »
Chinen non ne era così convinto e né contento. I clienti abituali di Kei... tendevano sempre a sfiancarlo. Fisicamente ed mentalmente.
Non gli piacevano, ma quella era la vita. Lui veniva pagato, era una puttana e il suo lavoro era vendere il suo corpo.
E il suo lavoro invece consisteva nell'assicurarsi che i soldi arrivassero al conto in banca, che non eccedessero troppo con le loro “perversioni” e “giochetti” e che se ne andassero al momento giusto.
Nient'altro.
A volte odiava tutto quello. Odiava vedere Kei e gli altri ragazzi che si chiudevano per l'intera notte dentro quelle stanze, completamente a loro disposizione per tutte quelle ore, non sapendo o, sapendo troppo bene, in che condizioni sarebbero usciti.
Odiava tutto quello. Odiava il suo senso di inadeguatezza, la sua impotenza.
Ma quello era lavoro. Nient'altro che lavoro.
E fosse l'ultima cosa che gli era possibile fare, l'avrebbe portato a conclusione.
« E' un po' che Kota non si vede. » commentò indifferente Kei « Purtroppo il suo viscido tirapiedi si vede anche troppo spesso. » sputò infine.
« Kota è fuori per lavoro. Shangai. Per delle contrattazioni riguardo della droga. Una roba nuova. »
« Mh. E perché Yaotome non è andato con lui? Così mi avrebbe liberato della sua disgustosa presenza almeno quando lavoro. »
« Perché serviva qua a quanto pare. Kota dovrebbe rientrare in questi giorni. Ieri mi ha detto che le cose stanno procedendo meglio del previsto. »
Kei scosse le spalle, poi, finito il piatto, si appoggiò con la schiena al bancone, osservando il casinò vuoto.
Gli piacevano le luce soffuse sui tavoli da gioco, le macchinette spente, il silenzio e l'aria di quasi tranquillità che riusciva a respirare.
Si voltò di nuovo, bevendo dell'acqua.
« Ho sonno. » disse piano, osservando il profilo di Chinen.
« Ora chiami un taxi e vai a casa no? Devi solo stare sveglio per altri dieci minuti. »
Kei annuì. Odiava tornare a casa da solo. Odiava tornare in una casa vuota. Nella sua sterile vita c'era una sterile casa che lo attendeva con le sue poche, inutili e altrettanto sterili cose.
Si alzò in piedi, dando una pacca sulla spalla di Yuri.
« Domani è il mio giorno libero. Penso che passerò tutto il giorno a dormire. » sbadigliò, stiracchiandosi.
Yuri scosse le spalle. Lui sarebbe stato sempre là, a sorvegliare che il fragile mondo in cui era cresciuto continuasse a camminare lungo la sua strada.
« Ciao Yuri. »
« Buonanotte Kei. » si limitò a dire.
Kei afferrò la borsa e il giacchetto, infilandoselo con poca convinzione. Poi, alzando una mano, lasciò la sala.
Il più grande rimase fermo, bevendo un altro bicchiere di liquore. Ascoltò l'ascensore che si aprire e il rumore delle porte che si chiudevano davanti ad un Kei semi addormentato.
Ascoltò la sua voce salutare il portiere, che gli richiuse la porta alle spalle e sentì il rumore della portiera del taxi sbattere dietro la sua schiena.
Sospirò.
Si era assicurato che fosse sano e salvo una volta uscito dal palazzo. Adesso che il suo lavoro era finito, poteva anche lui andare a dormire.
**
Kei si guardava intorno, osservando una Tokyo sempre e comunque attiva, a qualunque ora del giorno e della notte.
Gli piaceva quella città che dava l'impressione di essere un po' abbandonata a sé stessa, gli piaceva l'idea di essere uno dei tanti. Non gli piaceva spiccare. Avrebbe voluto stare con i piedi più a terra, ma non poteva.
Sospirò.
Dalla borsa prese il mazzo di chiavi di casa. Osservò il secondo paio di chiavi, appese con un portachiavi diverso.
Le alternative erano due. Andare in una casa vuota, che odiava e dove c'erano solo oggetti che gli ricordavano quella vita misera che conduceva, o andare in un'altra casa vuota, che odiava un po' di meno, ma che, in un modo o nell'altro, riusciva a fargli dimenticare un po' tutto quello.
E Kei si chiedeva il perché, dato che la causa principale della sua sofferenza era proprio il proprietario di quella casa.
Sbuffò. Si avvicinò al tassista, dicendogli il nuovo indirizzo. Lui non fece una piega, anzi, forse ne era addirittura felice dato che doveva fare molta strada in più e che la tariffa notturna era costosissima.
Ma non gli interessava.
Non voleva tornare nella sua casa.
**
La casa di Yabu Kota era abbastanza grande per essere un appartamento giapponese. C'era un ingresso, non molto lungo, che dava su una stanza molto grande, con una cucina abitabile e il salotto. Da un lato, sulla destra, c'era la porta per il bagno, mentre sulla sua sinistra, circa a metà del muro, c'era un'altra porta, che dava sulla stanza da letto.
Si tolse le scarpe, facendo cadere a terra la borsa e il giacchetto. Aveva sonno. Voleva solo dormire, per ore e ore senza svegliarsi.
Camminò lentamente, strascicando i piedi fino in casa. C'era un suo pigiama, lasciato lì quattro o cinque giorni prima, l'ultima volta che vi era stato. Lasciò cadere a terra i vestiti, infilandosi quelli sul letto, poi stancamente si diresse in bagno per lavarsi i denti.
Quando tornò sembrava uno zombie che camminava, ma si sentiva in qualche modo sereno.
Si gettò sul letto senza nemmeno coprirsi e crollò addormentato.
**
Yabu rientrò in casa. Erano da poco passate le otto del mattino ed era stanco morto. A causa di alcuni problemi in aeroporto, era stato trattenuto dai poliziotti per quasi tre ore e non vedeva l'ora di andare a dormire.
Schioccando la lingua, con gli occhi che gli si chiudevano da soli, si tolse le scarpe, senza nemmeno curarsi di accendere la luce. Si diresse in cucina, afferrando il cartone del latte e bevendo direttamente da là.
Poi gettò la borsa sul divano e aprì la porta scorrevole della stanza. Sbarrò gli occhi quando vide Kei, placidamente addormentato dalla sua parte del letto, le lenzuola arrotolate ai piedi del materasso e la finestra completamente spalancata.
Bestemmiò fra sé e sé per qualche secondo, giusto il tempo di mettere a fuoco la figura davanti a lui. Gli si avvicinò, irritato e, afferrandolo per il fianco, lo fece rotolare giù dal letto.
Kei lanciò un urlo e si alzò di scatto in piedi.
« Che cosa fai in casa mia, idiota? » lo aggredì Yabu.
« Kota mi hai spaventato. Sono sicuro che ci fossero metodi molto più gentili per svegliarmi. »
Yabu si tolse i vestiti, senza prestargli attenzione. Schioccò la lingua e, sistemando le coperte, si sdraiò, dandogli la schiena.
« Ho sonno adesso. Scompari dalla mia vista, devo dormire. » borbottò.
« Io stavo dormendo. »
« Non sono affari miei. Chiudi la finestra che ho freddo. » esclamò voltandosi verso di lui.
Kei sbuffò, obbedendogli e rimase fermo accanto al letto. Yabu sospirò, nervosamente.
« Puoi dormire anche te se proprio vuoi. Basta che non mi dai fastidio. Dopo pranzo devo essere di nuovo agli uffici centrali. »
Kei annuì, chinando leggermente la testa e si sdraiò nella parte più lontana da lui, accoccolandosi contro il bordo. Yabu appoggiò di nuovo la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Kei continuò a fissare la finestra chiusa, cercando di prendere di nuovo sonno.
« Yuri aveva detto che saresti tornato più tardi. »
« La contrattazione è finita prima del previsto. Sono tornato con il primo aereo notturno che ho trovato. » brontolò il più grande, con la voce già impastata dal sonno.
« E perché non sei andato nella casa di famiglia? » domandò poi.
Kei rimase in attesa, ma Yabu non rispose. Quando si girò per guardarlo, vide che si era già addormentato e dormiva profondamente.
Si avvicinò a lui, osservandolo. Sorrise tristemente, accarezzandogli una guancia. Lo sapeva che si sarebbe arrabbiato e sapeva a quello che andava incontro, al suo disgusto, al suo odio, al suo nervosismo perenne.
Eppure quando appoggiò la testa sullo stesso cuscino di Yabu, con il braccio appoggiato sul suo fianco, si addormentò finalmente sereno.
**
Kei si svegliò con la voce di Kota che urlava dall'altra stanza. Si alzò a sedere, osservando l'orologio e vide che erano le quattro del pomeriggio passate.
Lo raggiunse e vide che indossava solo il jeans e fumava, andando avanti e indietro al telefono, sbraitando contro chissà chi o chissà che cosa.
Osservò per l'ennesima volta il tatuaggio sulla sua schiena, un enorme albero di ciliegio che copriva l'intera superficie.
Il tronco dell'albero, maestoso ed enorme, partiva da poco dopo la fine della schiena, terminando poi poco prima della metà, immergendosi in quella che era la chioma verde e rosa che si espandeva fino alle spalle.
Ai piedi dell'albero c'era una figura scura in piedi, a capo chino e fissava il tronco, senza fare nulla. Kei non gli aveva mai chiesto il significato di quel tatuaggio, anche perché Yuri gli aveva detto che era una cosa personale e Kei non sentiva di avere con lui tutta quella confidenza.
Yabu si voltò verso di lui e Kei si mise immediatamente sulla difensiva, guardandolo storto.
Lo vide chiudere il telefono e gettarlo sulla poltrona, poi lo prese per un polso, gettandolo sul letto e montandogli sopra.
Kei sentiva il fiato pesante e serrò le mani intorno al lenzuolo.
« Chiederlo è troppo difficile, vero Kota? »
L'altro fece un sorriso.
« Non chiedo a ciò che è mio. » fu la sua secca risposta prima di girarlo e prepararlo frettolosamente, senza nemmeno tanta convinzione.
Gli sfilò del tutto i pantaloni, afferrandolo per i fianchi e alzandolo sulle ginocchia e penetrandolo con una profonda spinta. Kei morse il cuscino, soffocando il grido di dolore e le lacrime, per non dargli soddisfazione.
Yabu lo afferrò di nuovo, graffiandogli i fianchi e continuando a penetrarlo con spinte sempre più profonde e sempre più veloci, ansimando a voce alta. Sorrise afferrandolo per i capelli e beandosi dei suoi gemiti di dolore e venendo dentro di lui con un ansimo roco.
Uscì dal suo corpo, lasciandolo ricadere sul letto. Si buttò accanto al suo fianco, con aria soddisfatta, ignorando il cellulare che continuare a suonare in salotto.
Gli accarezzò i fianchi, ignorando i tentativi di Kei che si scostava da sotto la sua presa e poi fece scivolare i polpastrelli lungo la sua colonna verticale, per finire alla base del collo, dove spiccavano in bella vista i kanji tatuati di “Yabu Kota”, circondati da un ramo di ciliegio che gli percorreva l’intera linea della spalla, terminando con un fiore di ciliegio.
Sorrise, di nuovo. Gli piaceva vedere quei segni addosso a Kei. Era una sua proprietà e solo a lui poteva appartenere.
Gli altri ragazzi che lavoravano per Yuri, invece, che dietro al collo aveva tatuaggio della famiglia.
Ma lui era diverso. Era importante.
Yabu aveva sfidato gli ordini era andato contro tutti e tutto. Lui era suo. E per il suo egoismo Kei viveva una vita paragonabile all’inferno. Ma non gl’importava. Quello che più contava era averlo vicino, perché era come una droga.
Tutto il resto, perdeva improvvisamente d’importanza.
« Sei un animale Kota. » sussurrò piano Kei alzandosi a sedere e togliendo bruscamente la mano del più grande da dietro il suo collo, irritato.
« Come siamo permalosi. » lo sbeffeggiò Yabu dirigendosi un’altra volta in cucina e afferrando il telefonino che aveva ripreso a squillare « Ho diritto a qualche assaggio gratis della mia merce, no? » rise, rispondendo poi alla chiamata.
Kei lo fissò, sul volto una smorfia disgustata.
Odiava quando Yabu lo definiva “merce” o “proprietà” o ancora “oggetto”. Lo detestava, ma non poteva fare niente.
Era stato comprato, era suo, gli apparteneva. E per quanto quegli aggettivi lo nauseavano, poteva rimanere solo in silenzio.
In fondo, era solo una puttana. Yabu stringeva la sua vita nelle mani.
**
Takaki era di nuovo dentro la stanza. Kei lo considerava come la sua piccola oasi di calma e tranquillità in un mondo che odiava.
Certo, Yuri alla fine aveva avuto ragione. Takaki non era la persona che sembrava, non sempre per lo meno.
Kei aveva imparato a dosare per bene le parole, perché sapeva che quando il più grande perdeva la pazienza, iniziava a picchiarlo, senza fermarsi fino a che non aveva le mani piene di sangue.
E odiava vedere le sue lacrime che non scivolavano mai oltre gli occhi, mentre si dirigeva strisciando in bagno per lavarsi. Le odiava perché si ostinava a credere che il Takaki che conosceva era una persona gentile, che lo aiutava quando uscivano dal taxi, che gli pagava il caffè, che gli portava dei regali e dei fiori, che dopo che avevano finito di fare sesso lo stringeva a sé, accarezzandolo e coccolandolo.
Kei non aveva mai ricevuto delle coccole. E quando Takaki lo aveva squadrato, perplesso e gli aveva chiesto come era possibile una cosa del genere, Kei non aveva saputo che cosa fare, quindi si era limitato a fare ciò che sapeva fare meglio: lo aveva di nuovo sedotto, facendosi scopare una seconda, una terza, una quarta volta.
E così si era dimenticato per un po’ di quello che gli accadeva. Si era dimenticato di non aver mai avuto una vita normale, di non aver mai fatto delle esperienze normali.
E si era anche dimenticato di quella parte di Takaki che lo portava a picchiarlo, senza tregua.
Anche quella sera evidentemente Kei aveva detto qualcosa di sbagliato. E ci pensava seriamente mentre sentiva il sangue scivolargli lungo il volto. Perché non gli aveva detto niente di più strano del solito.
Un saluto, un bacio, gli aveva sfiorato il petto come tutte le volte. E lì Yuya era impazzito. Non gli aveva detto nulla.
Doveva solo fingere che andasse tutto bene ancora per poco. Yuya si stancava facilmente.
Quando il più grande scese da sopra di lui, per sedersi sull’orlo del letto e iniziare a passarsi le mani sul volto e a borbottare qualcosa che non capiva. Kei si era trascinato esausto nel bagno, lavandosi la faccia che gli faceva male ovunque toccasse.
Forse aveva anche uno zigomo rotto. O il setto nasale rotto. Non lo sapeva. Sciacquò via il sangue, pulendo il lavandino e tamponandosi delle ferite con l’asciugamano.
Tornò dentro la stanza, sedendosi accanto a Yuya. Quest’ultimo lo abbracciò, nascondendo il volto nella sua spalla, scivolando sdraiati.
Kei gli accarezzò la testa con la mano libera.
« Tu sei diverso. » mormorò all’improvviso Yuya, senza alzare la testa.
Il più piccolo annuì, lentamente.
« Perché? » domandò piano, chiedendosi in che cosa fosse diverso e perché si meritasse i suoi pugni e i suoi schiaffi.
« Odio le donne. Loro… non mi piacciono, piangono sempre. Tu invece no. Piangevano sempre anche le mie ex ragazze. » borbottò accarezzando il corpo di Kei.
« A me non piace piangere. » replicò piano Kei « Sono anni che ho smesso di piangere. »
« Io… è da quando mia madre se ne è andata che non piango. » spiegò piano l’uomo « Lei se ne è andata e io non ho fatto nulla. Ero felice che se ne fosse andata. »
« Come mai? » mormorò Kei accarezzandogli la fronte e stringendo le sue braccia intorno al più grande.
L’altro scosse le spalle, mordendo un labbro. Kei temette di ricevere un altro schiaffo, ma Yuya scosse solo di nuovo le spalle, come se trovasse le parole giuste per formulare la frase.
« Lei… era una prostituta. Dopo che mio padre è morto, non avevamo nemmeno i soldi per mangiare e quella era l’unica cosa che poteva fare. »
Kei si morse un labbro. Non gli piaceva la piega che quel discorso stava prendendo.
« Dopo la morte di mio padre, lei… mi toccava, troppo. Credo fossero degli abusi sessuali, ma non mi ricordo molto di quel periodo. Mi ricordo bene di quando invece mi lasciava con i suoi clienti perché lei era troppo occupata a bere. Loro gli lasciavano i soldi sul tavolo e lei allora mi chiudeva dentro la stanza, a chiave. E io urlavano e loro… facevano di me quello che volevano. E io… sentivo solo i miei singhiozzi perché dopo un po’ non riuscivo nemmeno a sentire loro. »
Si sciolse dal suo abbraccio e Kei lo fissò con gli occhi lucidi. Non era giusto. Non era giusto che Yuya avesse sofferto così tanto perché sapeva che non se lo meritava.
Lo abbracciò, di nuovo e di nuovo ascoltò senza di una parola le sue richieste di perdono e Kei non poteva fare altro che annuire e perdonarlo perché, in fondo, non ne aveva colpa.
Lui stesso aveva visto altri ragazzi perdere completamente la ragione dopo pochi mesi di quella vita. E lui non poteva immaginare quanto potesse aver influenzato quella vita nella testa di Yuya.
Non ci voleva pensare.
« Mi dispiace. Io non vorrei mai farti del male… » sussurrò ancora Yuya « Inoo-san, tu per me sei speciale e voglio che lo ricordi sempre. »
« Lo so Takaki-san. Lo so, non preoccuparti. »
**
Yuri aveva appena spento le ultime luci e si dirigeva come ogni mattina al bar. Fuori pioveva.
Era normale. Era ancora aprile.
A breve sarebbero stati nove anni che conosceva Kei.
Ricordava bene quando Kota si era presentato davanti a lui, con quel ragno e gli aveva detto che avrebbe lavorato per lui da quel momento in poi.
Sospirò. Odiava ricordare il passato.
Yuri lavorava. Sempre là. Era diventato da poco il capo del giro della prostituzione a Shinjuku ed era sempre pieno di lavoro.
Attendeva Yabu. Non si ricordava perché dovevano vedersi e non aveva voglia di tornare all’ultimo piano per prendere il telefono che aveva lasciato là poco prima.
Sapeva solo che Kota si era infilato per la seconda volta in un guaio più grande di lui, che non poteva gestire e come sempre era andato da lui per parlargli.
A dir la verità era da solo tre o quattro anni che avevano ripreso i contatti. Erano rimasti per lungo tempo senza parlarsi e per tutti gli precedenti non aveva fatto altro che sfogare su di lui la sua frustrazione, picchiandolo e maltrattandolo quando più ne aveva voglia. E Yabu non si era mai lamentato. E quello lo faceva impazzire.
Era uscito in strada, a fumarsi una sigaretta, quando dalla macchina erano usciti Yabu e un adolescente.
Era ferito, il volto che sanguinava, i vestiti strappati. Yuri si chiese che cosa avesse fatto i così tremendo da meritarsi un simile trattamento.
Schioccando la lingua irritato per quell’improvviso problema, aveva afferrato Kota per una spalla, avvicinandolo al suo volto. Lo aveva guardato negli occhi e poi, quando si ricordò che erano in mezzo ad una strada, li spinse dentro al palazzo.
Salirono tutti e tre in silenzio, spezzato di tanto in tanto dai singhiozzi del più piccolo. Yuri continuava a guardarlo, chiedendosi che cosa potesse aver combinato e, soprattutto, perché fosse là.
Entrarono nella sua stanza e Yabu spinse bruscamente il ragazzino sul letto, che si portò immediatamente le gambe al petto, squadrando Yabu, terrorizzato.
« Che cosa è successo? Chi è questo qua? » aveva ringhiato Chinen, fuori di sé.
« E’ Inoo Kei. Il ragazzo del mio ultimo incarico. » Kota gli lanciò un nuovo sguardo e Kei lo spostò immediatamente, senza emettere fiato.
Chinen si passò una mano sul volto. Afferrò il fratello, portandolo nel corridoio.
« Perché è vivo? » sibilò « Gli ordini erano chiari. Uccidere lui e sua madre. »
« Non lo voglio uccidere. Lui… deve lavorare qua. Deve stare in vita. »
« Kota, mi sono stancato di coprirti il culo e di tirarti fuori dai guai. Ora entra là dentro, mettigli un cuscino in fronte e fallo fuori. Non ho intenzione di avere problemi a causa tua. »
« Yuri, non lo farò fuori. Lui… » si morse un labbro « Si fa scopare bene. E’ bello. Sono convinto che ci farà guadagnare parecchio. Fidati. »
Yuri si era passato entrambe le mani sul volto, camminando avanti e indietro, rimanendo in silenzio a lungo.
« Giuro che se muore mentre è con un cliente, vengo a cercarti personalmente e ti strappo centimetro per centimetro quel tuo bel tatuaggio Kota. »
Il più piccolo annuì e rientrarono insieme dentro la stanza. Kei era in piedi davanti alla finestra e fissava fuori dalla finestra.
Pioveva. Non era strano per essere solo aprile.
Sembrava essersi calmato e questo avrebbe diminuito per un po’ la mole di lavoro, pensò Chinen.
Quando li sentì rientrare, il ragazzino si volto di scatto, appiattendosi contro la vetrata.
« Adesso lavorerai per lui. » gli aveva detto solo Kota.
Stava per andarsene, quando ad un tratto si fermò. Si riavvicinò al più grande.
« Ah, mi raccomando, non fargli mai allungare troppo i capelli. » si avvicinò a Kei, che cercò di sfuggirgli, ma senza successo.
Kota lo afferrò per i lunghi capelli neri, trascinandolo davanti a Chinen e voltandolo di schiena.
Il ragazzo gli scoprì la base del collo, facendogli vedere il tatuaggio e Chinen sospirò di nuovo.
« Questa ragazzo è mio Yuri. Ricordatelo. Nessuno, a parte me e i clienti può averlo. »
Lasciò andare il ragazzo, spintonandolo via. Kei cadde a terra. Kota non si voltò nemmeno a guardarlo e, senza aggiungere altro, lasciò la stanza.
Chinen rimase in silenzio, osservando il ragazzino che si appiattiva i capelli contro il collo, cercando di non piangere. Yuri lo afferrò per le braccia.
« Forza. Poteva capitarti molto peggio. » gli disse spingendolo poco delicatamente verso il bagno « Ora muoviti. Lavati per bene e non fare scherzi. Non sono una persona spiritosa. »
Kei lo aveva guardato per un secondo e Yuri si disse che, forse, avrebbe dovuto avere più polso su Kota, invece di dargliela vinta.
Non era giusto.
Non lo era, ma difficile la vita era giusta.
A Kei era capitato di trovarsi solo nel momento sbagliato, nel luogo sbagliato, davanti alla persona sbagliata.
**
Quando rientrò nell’appartamento di Yabu, il padrone di casa era sdraiato sul divano e faceva zapping alla televisione.
Erano ormai alcune settimane che non andava da lui. Per evitare di fargli vedere i lividi, cercava sempre di non farsi vedere.
Ma quel giorno era stanco. Necessitava di vederlo.
Kei si guardò allo specchio, guardandosi il volto. Aveva cercato di coprire il più possibile i lividi con il trucco, ma non era sicuro di riuscire a fargli passare inosservati.
« ‘Giorno. » salutò dirigendosi immediatamente in camera da letto e chiudendosi la porta alle spalle.
Yabu aveva alzato a malapena la testa e aveva borbottava un saluto a sua volta. Kei si tolse con fatica i vestiti, infilandosi una felpa e il pantalone del pigiama.
Aveva freddo, nonostante il riscaldamento fosse accesso. Quando uscì passo dietro Yabu, andando verso il frigo.
Non aveva mangiato nulla. Per evitare Chinen gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che era stremato e che non si sarebbe fermato a mangiare come gli altri giorni. Prese quello che c’era. Del prosciutto, della maionese e del pane. Si sarebbe fatto dei panini.
Sentiva lo stomaco accartocciarsi su sé stesso tanta era la fame.
« Potevi mangiare al casinò. » disse Yabu cambiando di nuovo canale « Non ho fatto la spesa. Sono stato quasi sempre fuori casa. »
« Ho un po’ di sonno. Sai, Takaki-san mi ha davvero stancato questa notte. Reggere i suoi ritmi è quasi impossibile. » commentò con un sorriso.
Yabu ringhiò qualcosa, ma Kei lo ignorò. Provocare Kota era sempre stato semplice e lui si era sempre divertito fin troppo nel cercare di spingerlo al limite.
E molto spesso il limite Kei che lo superava e Yabu non era mai così gentile nei suoi confronti, per quanto, fuori dal letto, Kei aveva notato alcuni miglioramenti nei loro rapporti personali.
A volte sembravano più una coppia di marito e moglie brontoloni che padrone e schiavo.
C’era stato un periodo in cui lo odiava. Perché non aveva fatto nulla quel giorno, perché lo aveva lasciato in balia di quel verme schifoso che si trovava come tirapiedi. Perché gli aveva dato un’illusione che ci fosse, in tutto quello, qualcosa di buono. E invece poi era arrivato Hikaru, che lo aveva distrutto.
Lo aveva odiato perché era colpa sua se ogni notte veniva gettato in una stanza d’albergo a soddisfare ogni più disgusto capriccio di chi comprava il suo corpo.
Ma lentamente il suo desiderio di vendetta era scemato e si era abituato. Si era abituato a tutto quanto, anche a Yabu. E, nonostante tutto, continuava a cercarlo. Kei sapeva che nulla di quello era normale, che avrebbe dovuto passare ogni secondo libero a meditare su come ucciderlo, ma non ce la faceva.
Per qualche strano meccanismo nel suo cervello, l’odio si era trasformato in indifferenza, che a sua volta era mutato, senza rendersi conto di come, in un affetto sempre più crescente.
Lo cercava, lo stuzzicava. Si faceva fare di tutto perché si rendeva conto di essere solo uno zerbino nelle sue mani, non c’era altro che potesse fare.
Poi quell’affetto si era stabilizzato. Era diventato più forte, rendendolo allo stesso tempo ù debole, più esposto ed era stato in quel momento che aveva capito di essersi innamorato. E lo odiava quando lo trattava come un oggetto. Lo odiava quando lo afferrava e lo scopava, come se non avesse nemmeno dei sentimenti.
Ma, nonostante tutto, andava bene così. Perché anche se a letto era un oggetto, in quel momento si trovava in quell’appartamento, di cui solo lui e Yabu erano a conoscenza.
Aveva il doppione delle chiavi. Usciva con lui qualche volta.
E, se decideva di non recitare la parte dello yakuza privo di cuore, sapeva anche essere piacevole, nonché incredibilmente stupido. E Kei adorava quel lato scemo di Yabu, che sembrava mostrare solo davanti a lui.
Certo, non si faceva illusioni. Tutti quei sentimenti sarebbero rimasti per sempre rinchiusi nel suo cuore. Era un desiderio nascosto, un qualcosa che non avrebbe mai dovuto emergere.
Era una sua voglia, un sentimenti che cresceva prepotentemente dentro di lui, ma non poteva parlargliene a voce alta. Aveva paura e poi di certo non si aspettava di essere ricambiato, né che le cose per lui sarebbero mai cambiate.
Quindi si era abituato.
Osservò le spalle tatuate di Yabu, ancora intento a cambiare canale.
« Hai mangiato tu invece? » gli chiese.
« Non ho fame. » borbottò Yabu voltandosi verso di lui e Kei distolse immediatamente lo sguardo, dandogli le spalle e continuando a mangiare il suo panino.
Yabu si sistemò meglio sul divano, cercando di capire che cosa ci fosse di sbagliato in Kei quel giorno.
« Io fra poco esco. Vuoi… andare a fare una colazione decente? » chiese Yabu alzandosi in piedi e sedendosi sul tavolo. Kei lo imitò, cercando di far cadere i capelli lungo il profilo.
« Una colazione occidentale? » propose emozionato.
Adorava le colazioni con il caffè e i cornetti e i dolci.
« Perché no. » mormorò solo il più grande.
Si avvicinò ancora un po’, appoggiando il braccio sulla sua spalla. Kei gemette, spostandosi.
« Come ho fatto a farti male? » s’indignò Kota « Mi sono appena appoggiato! »
« Ho dormito male in questi giorni. Ho il nervo accavallato. » mentì allontanandosi, poi finse uno sbadiglio, posando bruscamente il piatto sul tavolo « Mi dispiace. Ho davvero sonno. Magari domani, ok? »
Gli passò davanti, ma il più grande lo afferrò per un polso, tirandolo indietro. Gli afferrò il mento, alzandogli il volto.
Con la mano libera gli scostò delicatamente i capelli dal volto, sfiorando i lividi e le ferite.
« Chi è stato? »
« Un cliente. Niente di speciale, capita spesso. » sibilò Kei cercando di liberarsi dalla presa.
Ma sapeva che non sarebbe servito a nulla, infatti il braccio di Yabu non si spostò di un solo centimetro e il più grande continuò ad accarezzargli il volto.
« E’ stato il tuo tanto amato Takaki-san? » mormorò piano.
« Non è affar tuo. »
« Lo è invece se ti riduce in questo stato. Yuri… non lo avrebbe permesso e lo sai perfettamente. »
« Certo, perché io sono solo un pezzo di carne da vendere al miglior offerente, vero? » urlò Kei riuscendo finalmente a liberarsi « Yuri non lo avrebbe permesso perché altrimenti non avrei raggiunto la cifra che vuole lui, giusto? » continuò « Non fare il moralista Kota, perché non lo accetto, non da te. »
« Yuri ti vuole bene e lo sai perfettamente. Lo avrebbe impedito per chiunque ragazzo e lo sai. Lui… si affeziona a voi, anche se non vuole. »
« E il suo modo di dimostrare il suo affetto è ignorare i polsi che mi sanguinano per le corde troppo strette? O fingere di non vedere gli zigomi rotti? O ascoltarmi e basta mentre gli dico che un cliente ci è andato veramente pesante con me? E’ questo il suo modo di volermi bene Kota? »
Yabu lo fissò, poi gli rifilò uno schiaffo. Kei sbatté contro il muro, scivolando a terra e portandosi una mano sulla guancia ferita, trattenendo un gemito di dolore.
« Ti sei mai chiesto perché non sono più tornate tutte quelle persone? Yuri se ne è occupato personalmente. E lo fa con tutti. Puoi pensarla come vuoi. Puoi pensare che lo faccia solo perché siete tanti piccoli oggetti da vendere ogni notte oppure puoi pensare che lo faccia perché vi vuole bene. Io mi sono stancato Kei. » gli passò accanto, infilandosi velocemente le scarpe.
Non si aspettava che Kei gli corresse dietro. Sapeva che non lo avrebbe fatto.
Quando però si chiuse la porta alle spalle e iniziò a scendere le scale, fu difficile ammettere con sé stesso di avere ragione.
Almeno per una volta, avrebbe voluto che Kei lo smentisse.