[RPF Figure Skating] The four seasons [R - Capitolo 2/4]

Sep 14, 2010 09:35

Ttitolo: The Four Seasons
Autore: Meggie
Rating: R
Pairing: Stéphane Lambiel/Johnny Weir
Genere: Angst, Romantico
Avvisi: Slash, What if
Riassunto: È solo un gioco, un modo per passare il tempo.
Poi Johnny cade, e lo scherzo finisce.
Poi Johnny non può più partecipare alle Olimpiadi, ed è la vita, che sembra finire.
Ma il ghiaccio non è l’unica cosa che inizia a frantumarsi sotto le lame dei pattini.




The Four Seasons

# 2
Winter
La sua scusa era stata che non aveva mai trovato il tempo. Era impegnato, doveva allenarsi e allenarsi di nuovo. E ancora, senza sosta. Doveva… doveva fare un mucchio di cose.
Vere. Verissime. Ma erano scuse.
La verità era che non aveva idea di cosa dirgli. Non sapeva come introdurre l’argomento, come se poi l’argomento avesse realmente bisogno di un’introduzione.
Non gli aveva risposto. Aveva pensato ‘Dopo. Dopo lo faccio’. Il ‘dopo’, però, si era spostato in là nel tempo. Era diventato sfumato e privo di certezze. Era diventato un forse. Un può darsi. Un no. Un mai.
Aveva visto le nazionali, comunque. Si era fatto dare le registrazioni e si era visto Johnny scivolare via dal podio. Lontano. Troppo lontano per essere ammesso alle Olimpiadi da parte di una federazione a cui non gliene era mai fregato niente, di lui. Troppo lontano e troppo fuori forma.
E la sua voglia di rispondergli - di consolarlo? - era sparita ancora di più.
E alla fine, l’aveva chiamato Johnny. E lui si era sentito una merda. Una vera e propria merda. Una merda anche piuttosto codarda.
Tanto coraggioso su una pista di ghiaccio, e poi si comportava così. Stéphane si sarebbe preso a schiaffi. Forse anche Johnny l’avrebbe preso a schiaffi.
O forse no.
“Come va?”
“… un po’ preso, ma bene… tutto sommato bene…”
Johnny rise. “Un po’ preso? Lo immaginavo… non mi hai mai neppure risposto…” Johnny posizionò quella frase in bilico, dando a Stéphane la possibilità di farla cadere e farla esplodere, oppure di raccoglierla gentilmente.
“Johnny, io…” mormorò, cercando una scusa. Una delle tante che si era ripetuto costantemente nella sua testa, ma che in quel momento gli sembravano ancora più false e vuote di quanto già non lo fossero originariamente.
“Stéphane, non importa. Non volevo realmente una risposta… forse sì. Non lo so. Comunque non c’era realmente qualcosa da rispondere… quindi va bene. Penso.”
Stéphane avrebbe voluto dirgli l’ennesimo ‘Mi dispiace’, eppure se lo tenne tra le labbra. Johnny l’avrebbe preso a calci se gliel’avesse detto ancora una volta. Non voleva la pietà di nessuno, soprattutto la sua.
Nonostante si sentisse colpevole, e in debito, e da schifo, sapeva che quello non era ciò che Johnny voleva. O ciò di cui aveva bisogno.
“Comunque… non so neppure perché ti ho chiamato. Non doveva andare così questa conversazione. Tu dovevi iniziare a parlare senza sosta come al solito e io avrei trovato qualcosa con cui distrarmi…”
Stéphane sorrise. “Non c’è niente con cui puoi distrarti lì? Non ci credo…” mormorò, cercando di immaginarsi Johnny alle prese con la noia. Conoscendolo, probabilmente aveva già finito di sistemare tutta la casa almeno quattro volte. Aveva ripulito l’armadio eliminando tutta la robaccia inutile. Pettinato e coccolato Vanya come se fosse un figlio.
Stéphane, però, non aveva idea in che condizioni fosse. Forse non avrebbe potuto fare niente del genere.
Forse aveva solo pettinato Vanya.
Forse si stava realmente annoiando.
“Non lo so. Forse volevo sentirti balbettare al telefono ancora un po’… o farti sentire in colpa. Ti riesce bene…” ridacchiò Johnny, e Stéphane non poté fare a meno di morsicarsi un labbro e fingersi offeso.
“Oh, carino da parte tua…”
“Lo so. Tutto in me è carino…” ridacchiò nuovamente Johnny e Stéphane scoppiò a ridere.
Ma non lo contraddisse.
E poi, proprio come aveva sperato Johnny, si mise a parlare e parlare e parlare di ciò che stava facendo. E quando Johnny gli chiese dei nuovi programmi, lui si sentì bene e male insieme nel raccontarglieli a voce. Nel spiegarglieli, nel trasmettergli tutto, con le parole. Nel non potergli porgere la stessa identica domanda e aspettarsi una risposta altrettanto entusiasta.
“Sembrano dei bei programmi. Sembrano adatti a te…” commentò Johnny. E Stéphane riuscì a vederlo sorridere. E qualcosa, nel petto, si strinse. Si strinse anche nella sua gola. C’era una malinconia, in quella voce, che lo faceva sentire intrappolato. Lo faceva sentire desideroso di liberare quella voce da quella morsa.
Stéphane non sapeva se ne aveva le capacità.
Probabilmente no.

******

Il tempo, quando ti allenavi, non esisteva se non quando Peter decideva che era abbastanza. Allora riprendeva a scorrere.
Il tempo, quando avevi un obiettivo così grande, così importante, smetteva di valere qualcosa. Diventava ‘O tutto o niente’. E il resto del mondo piano piano si affievoliva.
Johnny, però, non si era affievolito. Era un pensiero quasi costante. Una forza che lo spronava a dare anche di più, a dare oltre il suo massimo disponibile. Johnny non era scomparso. Ma era solo nella sua testa.
Non l’aveva più sentito.
Quando, sull’aereo per Vancouver, pensò a tutto questo, si accorse che aveva voglia di risentirlo.
Forse il tempo aveva ripreso a scorrere.
Forse non si era mai veramente fermato.

******

Quando Stéphane lo vide, gli sembrò di avere davanti due versioni di Johnny in una. Sembrava felice, sorrideva e chiacchierava con gli altri, salutando e abbracciando quelli che conosceva meglio. Eppure, Stéphane riusciva a vedere quanto quel sorriso fosse tirato, quanto le pieghe del suo viso fossero statiche e prive di una qualsiasi luminosità. Quanto tutto fosse solo una facciata. Quanto fosse difficile.
“Johnny…”
Johnny si girò verso di lui e per un attimo si limitò a fissarlo, senza togliere quella maschera che aveva deciso di indossare per proteggersi.
Ma fu solo un attimo.
L’istante dopo i suoi occhi si addolcirono e il sorriso divenne più sincero, meno raggiante, forse, ma capace di esprimere molto di più. Capace di far vedere qualcosa di Johnny, di come si sentiva e non come tutti desideravano che si sentisse.
“Stéphane…” mormorò, indugiando sull’ultima sillaba e prolungando così il suo nome, avanzando di qualche passo per avvicinarsi a lui.
Fu Stéphane, come sempre, a sporgersi e ad abbracciarlo. Fu Stéphane a cercare il contatto fisico, proprio come sempre. Johnny aveva così spesso una sorta di distanza dagli altri. O forse solo con lui. Stéphane non sapeva perché. O meglio sì, Johnny gliel’aveva detto chiaro e tondo - Johnny non mandava a dire nulla, d’altra parte - che Stéphane era troppo… fisico, troppo appiccicoso, troppo francese, per il suo carattere. In quello, lui, era totalmente americano.
Stéphane, però, ogni volta fingeva di dimenticarsene. Ogni volta lo prendeva in giro, lo stuzzicava e si gustava le reazioni esagerate che Johnny gli regalava. Si gustava anche le risate che riusciva a strappargli, perché alla fine Johnny cedeva sempre un po’. Si lasciava andare.
Anche quella volta, l’aveva fatto. E si erano lasciati talmente andare che avevano finito per cadere entrambi.
Stéphane aveva finito per cadere. Johnny gli era andato dietro.
Si separò da lui, sorridendogli e guardandolo negli occhi.
“Sei sempre il solito, noto…” commentò Johnny, con un mezzo sorriso.
“Anche tu.” ribatté Stéphane.
“Ovviamente.”
Johnny gli sorrise e Stéphane rilasciò un sospiro che non sapeva di aver trattenuto. Osservò Johnny, sorridendo nel constatare che il suo eccentrico gusto in fatto di vestiti non fosse affatto diminuito. Era ancora Johnny, nonostante tutto.
Nonostante un’Olimpiade mancata.
Era ancora Johnny. Quello strano, quello divertente, quello dolce, quello impertinente e sfrontato e sfacciato. E ambiguo. Quello che era virile come un uomo e l’attimo dopo diventava una ballerina sulle punte, pronta a danzare con leggiadria sul ghiaccio. Era sempre lui.
Nonostante un’Olimpiade mancata. Mancata per colpa sua.
“Sono qui perché dovrò commentare…” fu Johnny a spezzare il silenzio. Non lo stava guardando, i suoi occhi vagavano per il corridoio alla ricerca di chissà cosa.
“Lo so. L’ho saputo…”
“Ti interessi a me, adesso?”
Stéphane avrebbe voluto ridere a quell’affermazione. Oppure, meglio ancora, avrebbe voluto ribattere con un qualcosa di altrettanto ambiguo, qualcosa da sfoggiare per flirtare. Ma non gli venne in mente niente.
La verità era che sì, si ritrovava spesso a pensare a Johnny. Da quel giorno in Corea, ci pensava di continuo. A cosa faceva, a come stava, a cosa pensava, a cosa pensava di lui. Poi questi pensieri si erano diradati. Erano diventati pensieri meno puntuali, ma ugualmente presenti. Pensieri vaghi. Fantasie. Ogni tanto si ritrovava a pensare a Johnny, ma non a qualcosa di specifico. Si ritrovava a pensare a lui e a chiedersi che ore fossero da lui. A com’era il tempo lì. A cosa stava indossando. A tante cose. Ma Johnny era sempre lì, sempre presente.
Pensava ad un amico che aveva distrutto. Pensava ad un amico. Pensava a Johnny. E poi, poi si dimenticava di chiamarlo amico e rimaneva solo Johnny. E Johnny poteva dire un mucchio di cose diverse.
Un amico. Un collega. Una persona. Un ragazzo.
Johnny era un ragazzo. Quindi doveva essere un amico.
“Ogni tanto…” rispose infine, concedendo un mezzo sorriso.
Si sistemò meglio il borsone su una spalla e guardò l’orologio. Doveva andare. Era già in ritardo. Per quanto fosse rassicurante vedere Johnny lì, vederlo nonostante tutto, doveva proseguire per la sua strada.
Aveva un’Olimpiade davanti a sé, ed era intenzionato a vincerla.
Per lui, e anche un po’ per Johnny, forse. Perché se lo meritavano entrambi. Perché, forse, Johnny se lo meritava più di tutti, ma Johnny non avrebbe potuto combattere per quel titolo, quindi sarebbe toccato a lui, giusto?
A lui che non gli aveva rubato il titolo, ma gli aveva strappato la possibilità di vincerlo.
Avrebbe dovuto impegnarsi con tutto se stesso. Quella medaglia doveva essere sua. Era tornato per prendersela. Era tornato per dare il massimo, per vincere, per mettersi al collo un oro olimpico.
Avrebbe potuto farcela.

******

Cercherò di vincere anche per te. Johnny non gli aveva risposto.
Gli aveva scritto un messaggio. Non gliel’aveva detto a voce. La tensione per la gara era troppa, la concentrazione doveva essere massima, nessuna distrazione. Aveva trovato un minuto di tempo, una sera prima di addormentarsi, per scrivergli quel pugno di parole in un sms.
Non sapeva cosa si aspettava in risposta. Qualcosa, però, probabilmente si aspettava.
Johnny, in ogni caso, non aveva risposto.

******

Odiava gli attimi prima della scesa in pista. Odiava dover attendere, rimuginare sul programma, ripeterlo senza sosta nella mente cercando di non ascoltare le grida, cercando di non sentire l’entusiasmo del pubblico per le esibizioni degli avversari, cercando di non sentire niente. Il silenzio. Il silenzio che era solo nella sua testa, solo lì, dato che nel palazzetto non si sentiva altro che rumore e grida ed entusiasmo.
Solo il silenzio. Dentro e fuori se stesso. In ogni angolo della mente. Doveva esserci solo quello.
Era difficile. Odiava quei momenti.
Ripassò nuovamente il programma. Erano al libero. Era la resa dei conti. Era il momento in cui tutto poteva accadere. Poteva farcela.
Poteva farcela.
Lo speaker annunciò il suo nome. Peter gli annuì, incoraggiandolo senza dire niente. Era arrivato il momento.
Poteva farcela.
E fu con quel pensiero che Stéphane Lambiel iniziò l’ultima gara della sua vita.

******

Non era capace di fingere. Non ci riusciva. Non era mai stato in grado di mettersi una maschera e andare là fuori, in pista, a pattinare mostrandosi in un qualche modo che non gli apparteneva. Le maschere le aveva abbandonate da bambino, quando ancora si divertiva ad andare in giro vestito a festa per Carnevale. O quando doveva parlare con Johnny e invece di dirgli ciò che pensava - di lui, dell’incidente, di loro - gli sorrideva affabile. Come un povero stupido.
Adesso era solo lui, era solo Stéphane, con i pregi e i difetti del caso, ma era solo lui. Era vero. Ed era vivo. Ed era così trasparente che tutti gli avrebbero letto dentro.
E in quel momento, quando abbassò le braccia ed espirò, tutti avrebbero solo potuto vedere la frustrazione e la delusione e l’amarezza di un sogno mancato. Di un sogno e di qualcosa di più, perché c’era anche una promessa al suo interno. E anche un obiettivo.
In quel momento, non c’era più niente.
Si chiese se Johnny l’avesse visto. Si chiese cosa stesse pensando.
Poi si ricordò che, comunque, avrebbe dovuto sorridere, che il pubblico di Vancouver era lì e stava applaudendo per lui, anche se lui non avrebbe sprecato nessuna energia da riversare verso l’esibizione che aveva appena fatto.
Ma c’era gente che stava urlando per lui. Li sentiva, il battito delle mani che si mescolava e si amalgamava perfettamente agli urletti dei fan più accaniti, andando a creare un rumore così denso che avrebbe potuto sentirlo sotto le dita.
Così, si inchinò leggermente, conscio del fatto che sul suo viso non ci fosse nulla di quell’entusiasmo che sempre le persone riuscivano a trasmettergli.
Cercò di assorbire le energie del pubblico, ma non ci riuscì e il suo umore non migliorò affatto, quando si voltò alle sue spalle per ringraziare anche le persone sedute da quella parte della pista.
C’erano ondate positive e un calore rincuorante che proveniva dagli spalti, ma non era abbastanza per scaldare il ghiaccio attorno a lui. C’era freddo, lì in basso. Perché lì in basso non c’era più niente.
Lui lo sapeva, sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima volta. E la sua ultima Olimpiade.
Lo sapeva, e proprio per questo era terribile constatare di non esserci riuscito. Di non aver attaccato il ghiaccio con tutte le forze, indipendentemente dai punti.
Il ghiaccio l’aveva sopraffatto. E adesso non gli rimaneva che andarsene sul Kiss & Cry con la delusione scritta addosso come se fosse stato un tatuaggio.
Non pensò più a Johnny. Pensò a se stesso, perché in quel momento non riusciva a pensare ad altro. Eppure, il primo pensiero che gli aveva attraversato la mente quando aveva terminato il suo programma, era stato il suo giudizio.
Ma Stéphane non ci badò. Arrivò a bordo pista e abbracciò Salomè e Peter, come faceva ogni volta, e si sentì ancora più triste.
Quello sarebbe stato l’ultimo abbraccio di loro tre.
L’ultimo Kiss & Cry.
L’ultima Olimpiade.
E niente, niente era andato come aveva sperato.

****

“Mi hai visto?”
La domanda era retorica - Johnny lo aveva, probabilmente, commentato. Per forza l’aveva visto - eppure suonava piena di insicurezza, e Stéphane non sapeva neppure perché. Forse perché c’era quel ‘mi’. Perché se Johnny avesse risposto di sì, allora voleva dire che aveva guardato lui. Proprio lui.
Non sapeva cosa volesse dire quella sensazione di speranza che sentiva nel fondo della pancia, sapeva solo che riusciva a scaldarlo. E, in quel momento, si sarebbe accontentato veramente di tutto. Di qualsiasi sensazione potesse tirare fuori da quel miscuglio che aveva dentro di sé. La maggior parte delle quali, lo sentiva da come si attorcigliavano attorno al suo stomaco in una morsa feroce, non erano affatto positive.
Perché oltre alla speranza c’era anche la rabbia e il timore e la delusione. E la paura che Johnny avesse visto tutto quello.
La sua disfatta completa.
La sua promessa infranta.
Che schifo.
“Certo che ti ho visto!” Johnny accompagnò la risposta con una risata leggera, che gli giunse alle orecchie in modo preciso. Quasi come se Johnny fosse lì con lui.
Se fosse stato lì…
… se fosse stato lì. Ma non c’era. Quella era solo la sua voce.
E, così come si aspettava, quella risposta in parte lo avvolse come un abbraccio e in parte lo colpì forte come un pugno. Era bella e dolorosa allo stesso modo. Bella e dolorosa, come era stata quell’avventura.
“Allora mi hai visto perdere…”
Stéphane delle volte non riusciva né a capirsi né a controllarsi. Quando le due cose avvenivano insieme era un disastro. E quella era una di quelle volte.
Johnny rimase in silenzio per un istante, prima di sbuffare. E Stéphane sapeva che quegli attimi gli erano serviti per valutare se rispondere o meno. O se riattaccare. Sarebbe stato molto da Johnny. Perché Johnny odiava le lamentele. Non che lui non si lamentasse mai, anzi, ma Johnny era così e così andava preso.
“Sì, ti ho visto anche perdere. E quindi?” borbottò alla fine, dandogli soddisfazione e permettendogli di auto commiserarsi ancora un po’ prima della strigliata. Stéphane sapeva che sarebbe arrivata. Così come sapeva che Johnny sarebbe comunque riuscito a farlo sentire meglio.
“E quindi niente. Non ho vinto. E il libero ha fatto schifo. E ho chiuso la mia carriera con una sconfitta. E… l’ha già detto che ho perso?” mormorò in una risatina.
Johnny, dall’altro capo del telefono, ridacchiò anche lui. “Sì, l’hai già detto e ho anche visto la tua faccia. Direi che è sufficiente, Stéph…” C’era un tono giocoso nella sua voce. Una presa in giro fatta per sdrammatizzare. Una risata per non piangere o non urlare.
“… ho perso, Johnny…” mormorò di nuovo, sedendosi sul bordo del letto.
E l’atmosfera sembrò cambiare così, con uno schiocco di dita. Non c’era più niente da ridere. C’era solo un macigno addosso, che non voleva saperne di andarsene. Che non voleva saperne di abbandonarlo.
Aveva perso.
La sua Olimpiade.
E l’aveva persa. Persa per sempre, perché non ci sarebbe mai stato a Sochi. Mai.
“Lo so, Stéph…” non c’era niente di allegro nella voce di Johnny, questa volta. Era dolce e comprensivo. E preoccupato, forse.
Stéphane si sentiva ancora più triste. Ancora con più voglia di gridare. O di piangere. Forse, dopo, l’avrebbe fatto.
“Dovevo chiudere alla grande. E sono arrivato quarto… non doveva andare così…”
Johnny sospirò nel telefono e per un attimo Stéphane ebbe l’impressione di sentire il fiato caldo dell’altro colpirlo sul viso. E rabbrividì.
“Essere quarto non è così male, Stéph! L’altra volta sono arrivato quinto! Mi stai dicendo che ho fatto schifo?”
Stéphane si concesse un mezzo sorriso. “Non sto dicendo che hai fatto schifo tu. Sto dicendo che ho fatto schifo io… e… non lo so.”
“… se fossi arrivato terzo, sarebbe cambiato qualcosa? Se Daisuke avesse sbagliato anche solo qualcosa in più, saresti arrivato terzo, lo sai… sarebbe veramente cambiato qualcosa?”
Stéphane ci pensò. Se fosse arrivato terzo sì, avrebbe vinto una medaglia. Un’altra, dopo quella di Torino. Un’altra, dopo essersi ritirato. Sarebbe stato emozionante, e bellissimo.
Ma il suo libero…
“Con lo stesso programma che ho fatto oggi?”
“Sì.”
Stéphane chiuse gli occhi, rivedendo davanti agli occhi quel se stesso così diverso, così spento e stanco e assurdo. Quel se stesso a cui non avrebbe dato proprio niente. Quel se stesso con cui si era arrabbiato non appena la musica era terminata. E lui non era riuscito neppure a forzare un sorriso.
“No. Il mio libero avrebbe fatto schifo ugualmente. Avrei una medaglia, però…”
“Stéphane, è veramente solo una questione di medaglie? Sul serio? Non ci credo. Non per te…”
“No… però…”
… però ho perso. E dovevo vincere.
“Non mi interessa se hai perso. Non mi interessa se non sei stato il solito Stéphane, oggi…”
Si spinse all’indietro, fino a coricarsi sul letto e fissò il soffitto, sorridendo leggermente. “Allora lo ammetti che ho fatto schifo!”
“Sai essere veramente impossibile, giuro!” Stava ridendo, però, la sua voce era calda. Stéphane pensò che era una risata che riusciva sempre a mettergli allegria. Chissà come faceva, chissà che potere nascondeva dentro di sé.
Stéphane doveva ammettere che la sua voce aveva sempre effetti strani. Doveva ammetterlo, ma non l’avrebbe fatto.
Rotolò su un fianco, sbuffando fuori dalle labbra l’aria calda che aveva intrappolato nei polmoni.
Voleva essere abbracciato e voleva stare da solo, tutto contemporaneamente. Era la maledizione di essere insoddisfatti con un fallimento. Era la maledizione di qualsiasi atleta. Johnny poteva capirlo perfettamente.
“Sei arrabbiato?” domandò in un sussurro, lasciando che le parole vagassero senza meta nella stanza, riempiendola di incertezza.
“Stéphane, perché dovrei essere arrabbiato?”
“Perché ho per-“ la sua ennesima lamentela, però, venne interrotta da Johnny.
“Credevo che avessimo superato questo punto.” E Stéphane pensò che sì, probabilmente l’avevano superato, ma adesso dov’erano? Da che parte stavano andando? “… e credo anche, anzi, ne sono abbastanza sicuro, che tu pensi che io sia arrabbiato perché mi avevi promesso che avresti vinto anche per me. Che, chiariamoci, pensavo e penso sia una cosa molto carina e molto stupida. Non puoi promettermi una cosa del genere. E io non posso arrabbiarmi”
Il cuore di Stéphane batteva nel suo petto quasi volesse uscire dal suo corpo. E lui aveva perso le parole tra le pieghe del discorso di Johnny.
“Quindi…” proseguì “… possiamo dire di lasciarci questa discussione alle spalle?”
Stéphane non sapeva se sarebbe stato in grado di scrollarsi di dosso la sensazione di fallimento così facilmente. Non lo sapeva perché nei giorni successivi tutti gli avrebbero chiesto proprio di quello. Del suo quarto posto. Della sua non medaglia.
Desiderava tornare a casa sua, anche solo per poco tempo, e abbandonarsi al suo letto e alle sue coperte e al suo paese, senza pensare a niente. Poi, di sicuro, sarebbe stato in grado di affrontare tutto.
Solo un altro po’ di tempo, per favore.
Quanto alla questione con Johnny…
“Mi dispiace. Mi dispiace davvero…” … di non esserci riuscito. Mi dispiace, Johnny. “… però non posso tornare indietro, no? Non posso farci molto, adesso…”
“No, non puoi farci molto…” la voce di Johnny era di nuovo calma e serena. Gli piaceva ascoltarlo parlare, anche quando avrebbe preferito isolarsi in un mondo parallelo in cui nessuno potesse raggiungerlo. “… e basta. Cambiamo argomento, che nei prossimi giorni non farai che ripetere sempre le stesse cose. E sai che noia? Non si può proprio dire che i giornalisti siano fantasiosi quando scelgono le domande, non trovi?”
Stéphane ridacchiò, prima di dargli ragione e rotolare sul letto allungando le gambe che aveva tenuto rannicchiate fino a quel momento.
Stéphane si perse nella voce di Johnny, si perse nelle risate, nello stare bene, nel ‘non pensarci, ci sarà un momento, quando sarai più calmo, anche per quello’, nel far finta che niente fosse successo. Gli serviva quello. E quello era ciò che Johnny gli stava dando.
Avrebbe dovuto ringraziarlo, ma le parole non gli uscirono.
Rimasero imprigionate nel suo stomaco insieme a quella strana sensazione che ogni tanto avvertiva quando pensava all’altro. Stéphane non aveva voglia di rifletterci su. Sapeva che era qualcosa che aveva lì, che aveva dentro, da un po’ di tempo. E neppure sapeva specificare da quanto, ma c’era.
Per adesso, per il tempo di quella telefonata e anche per un altro po’ dopo, sarebbe rimasto lì. A coccolarlo e a scaldarlo.
Ne aveva bisogno.

******

Sull’aereo di ritorno da Vancouver, Stéphane non pensava a niente. Tutti quelli attorno a lui erano intenti o a leggere o a dormire o a guardare un film. Ognuno nascosto nel proprio mondo, coccolandosi col silenzio e il buio totale che proveniva dai finestrini.
Stéphane non dormiva. Osservava il cielo, quell’immensa distesa scura. Ripensava agli ultimi giorni. Alla gara. Alla sconfitta. Alle dichiarazioni fatte alla stampa. Ai party cui era andato, perché, in ogni caso, doveva festeggiare. Perché sì, perché se lo meritava.
A Johnny.
A Johnny, che proprio durante una di quelle feste gli aveva detto “Stéphane, smettila”.
A Johnny che si era appoggiato a lui, con un bicchiere di champagne in mano e un sorriso sulle labbra e aveva gli aveva detto, “Ora odio Evan ancora di più”.
A Johnny che, ormai ubriaco, aveva lasciato uscire la tristezza per tutto quanto e gli aveva detto “Avrei dovuto esserci io”.
E quando lui aveva provato a ribattere, preso nuovamente dai sensi di colpa e da quella morsa allo stomaco e dai bicchieri di troppo che aveva voluto concedersi perché sì, perché se li meritava, Johnny gli aveva nuovamente detto “Stéphane, smettila”. Contro il suo collo. E lui era riuscito a sentire il suo fiato caldo contro la propria pelle.
Aveva avuto un piccolo brivido e aveva sorriso.
Johnny aveva ancora il bicchiere di champagne in mano quando si era sporto verso di lui e l’aveva baciato, prima di appoggiare la fronte contro la sua spalla e rimanere lì praticamente tutta la sera, ad osservare gli altri ballare.
Stéphane non aveva osato muoversi.
E adesso, adesso che stava tornando a casa, a chilometri di distanza da Johnny, da Vancouver, dall’Olimpiade, non riusciva a pensare ad altro.
Non riusciva a fare a meno di pensare a quanto il peso di Johnny si fosse rivelato confortevole. A quanto avrebbe voluto rimanere così, su un divanetto in penombra, con la musica assordante, l’amarezza per la sconfitta ad avvolgerlo e il calore dell’alcool a consolarlo. E Johnny, Johnny cui lui aveva strappato il suo sogno più grande, accanto a lui.
Il vento e la pioggia e la neve del Canada, in quel momento, erano sembrati più lontani che mai.

NOTE: Ed ecco finalmente il secondo capitolo \O/
Per prima cosa, un grazie enorme a liz che ha letto e betato il tutto <3
Per il capitolo... so che è… beh, diciamo che le cose non vanno proprio benissimo XD Ma d’altra parte è l’inverno ù_ù E d’inverno fa freddo ù_ù
E niente, spero che vi piaccia, perché dovete sapere che descrivere le Olimpiadi dal punto di vista di Stéph… non è stato proprio facile *lo coccola*. Non so quante volte ho visto le sue performance :/
Adesso vi lascio, comunque. Ci risentiamo col prossimo capitolo, “Primavera”, ovviamente :P

fandom: rpf figure skating, anno: 2010, !longfic, rating: r, longfic: the four seasons, !warning: slash

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