Titolo: I don't wanna hear you. Say it.
Fandom: RPF - Attori
Pairing: Robert/Susan/Jude
Genere: angst, tipo.
Avvertimenti: deathfic
Conteggio parole: 1112 (
fiumidiparole)
Note: Non è riletta, ma devo postare ed ho un male alla testa allucinante aka ve la beccate così. La mia idea iniziale era di fare qualcosa di angst, mentre poi è diventato un monologo ridicolo. Sono consapevole di aver scritto qualcosa ai limiti dell'italiano, ma se qualcuno avesse comunque qualcosa da segnalare per migliorare è sempre ben accetto.
Grazie a
manubibi il mio headcanon comprende Jude, Susan e Robert che convivono felicemente.
Also, questa fic partecipa al
la mia tabellina della Maritombola con prompt 49 - "Cimitero" e a
quella di RDJudefic_ita con prompt "Rabbia".
«Io avevo paura della morte» sussurrò Nick. «Ho scelto di restare. A volte mi chiedo se non avrei dovuto... be’, questo non è né qua né là... in effetti io non sono né qua né là...»
- Harry Potter e l’Ordine della Fenice
Susan è in chiesa, il capo chino, un velo nero sul volto. È nella prima panca. Di fronte a lei c’è una lunga e sontuosa bara grigio metallo - la mia bara - cui qualche fiore ai lati rende la scena meno malinconica, sopra c’è una foto - la mia foto -; nello scatto sono, per citare la stessa Susan, “in un’espressione a metà tra il serio, l’adorabile e l’allegro. In poche parole: tu”.
Lei è meravigliosa, come sempre. Quasi un peccato che tenga il velo ad oscurarle il volto, perché i suoi occhi sono bellissimi - specie se limpidi e lucidi di pianto - non dovrebbe impedire al mondo di accorgersene.
È silenziosa, intendo la sala.
Non mi aspettavo nemmeno così tante persone al mio funerale - insomma, se escludiamo i fan.
Infossano la bara e io sento che dovrei essere lì, seppellito sotto due metri di terra, invece che qui a volteggiare nell’aria.
Susan riesce e mantenere un certo contegno, mentre passa un’ultima volta davanti alla mia foto - ha sempre avuto una gran classe, la mia Susan, forse è uno dei motivi per cui mi completava.
***
Sono passati due mesi.
Due mesi in cui Susan mi viene a trovare tutti i giorni - a volte piange, a volte, se non c’è nessuno, mi parla.
Due mesi in cui sono venute persone da ogni dove, persone che nemmeno speravo di conoscere, solo per rendermi omaggio.
Due mesi in cui ho visto mio figlio diventare un uomo, accettando la mia scomparsa.
Due mesi e lui non è mai venuto.
Non al funerale, non sulla mia tomba.
Dalla mia posizione, non posso di certo andare a trovarlo. Sono intrappolato qui, in questo lugubre cimitero, dove giace il mio corpo in decomposizione.
Per un... fantasma? Non so nemmeno io cosa sono; dicevo, per un’entità come me ammetto esserci molto tempo libero - tutto quello del mondo, oserei dire - e in un cimitero non ci sono molte cose da fare: imparo i nomi dei miei vicini di tomba e penso. Ogni tanto osservo anche le persone.
Penso a tutti i ricordi della mia vita - in fondo è per questo che sono qui, no? - penso a quello che ho fatto e a quello che avrei potuto fare. Penso a chi ha pianto la mia scomparsa e poi penso a lui che non è venuto a dirmi addio, che non era accanto a Susan.
Mia moglie arriva - bellissima, ovvio, ma che mi ripeto a fare - e poggia degli splendidi fiori bianchi vicino alla mia lapide; è inverno - lo vedo dalle piante spoglie e dal fatto che che le visite agli abitanti di qui diminuiscono con l’andare del tempo - e lei si siede per terra. Trema, ma non sono sicuro sia per il freddo.
«Ciao, Robert. Credo che questa chiacchierata avrei dovuto farla all’inizio» Fa una pausa e sistema meglio i fiori.
«Vedi, non sono stata del tutto sincera con te. O meglio, lo sono stata, ma ho omesso parte della verità. Sai qual è? Che ci manchi terribilmente. A tutti noi.
Ho portato Indio il mese scorso ed è stata la cosa migliore per lui - dovresti vedere come ha preso sul serio il testimone che gli hai passato, Rob. Si prende cura di Rafferty, Iris e Rudy come un fratello ed un padre. Credo sia da te che ha ereditato questa capacità di far sentire le persone protette». Sospira ed un sorriso amaro le si forma agli angoli della bocca.
«Sto per arrivare al punto, non preoccuparti». Ha gli occhi gonfi di lacrime e so che sta per piangere. Vorrei abbracciarla.
«Ti ricordi com’eravamo felici tutti insieme, io, te, Jude i bambini? Certo che lo ricordi». Certo che lo ricordo. «Il fatto è che Jude non è riuscito ad accettarla. La tua morte. All’inizio pensavo fosse una reazione, che col tempo se ne sarebbe fatto una ragione.
«Mi sbagliavo, chiaramente. E forse l’ho lasciato troppo libero di cadere, mentre avrei dovuto costringerlo a rialzarsi fin da subito». Le trema la voce, ma fa un lungo respiro e continua.
«I primi giorni non ha parlato. Stava tutto il tempo seduto sulla tua poltrona e non spiccicava parola con nessuno. Non mangiava, sono quasi certa che non dormisse neanche. Non che io fossi in condizioni migliori, certo. Non devi pensare nemmeno per mezzo secondo che sia stato facile per me. È stato dannatamente complicato non farmi trascinare giù dalla disperazione.
«Ma i bambini. Oh, che miracolo i bambini. Non sono neppure figli miei, ma è come se lo fossero. Avevo delle responsabilità nei loro confronti, non ti pare? Non potevo semplicemente lasciarmi andare al dolore». Un piccolo, tenero sorriso prende posto sul suo volto per un momento. «Jude no. Non c’è riuscito
«A una settimana dalla tua morte ha reagito: una mattina si è alzato da quella stupida poltrona ed ha iniziato a distruggere tutto. Letteralmente, ancora oggi il salone ha frammenti di soprammobili ed altre cose sparsi ovunque. Era arrabbiato, capisci? Non è riuscito a perdonarti per essere uscito dalle nostre vite». Si perde in pensieri lontani, sembra dimenticarsi che mi sta parlando. Passano alcuni minuti ed io mi sento in colpa, ma ho bisogno di di ascoltare il continuo; un soffio di vento le passa tra i capelli e si riscuote.
«Scusa, sono venuta qui per farti conoscere la storia, non posso andarmene senza aver finito.
«Ovviamente ho portato via i bambini da sotto i suoi occhi, non potevo lasciare che assistessero ad uno spettacolo del genere. Una volta finito di sfogare la sua rabbia, ha preso la macchina ed è scomparso per tre giorni interi. Non ho idea né di dove sia andato né di cos’abbia fatto. È tornato stanco ed ha dormito tanto, dei giorni interi. Si alzava solo per ingurgitare cose dal frigo mentre noi eravamo via - quando me ne sono accorta ho iniziato a lasciargli dei piatti pronti. Ho provato a parlargli, ma era in uno stato tale che non ero nemmeno sicura che mi sentisse.
Le poche volte che sono riuscita a vederlo in faccia era pallido, scheletrico, con delle occhiaie spaventose. Il nostre Jude, il mio Jude». Dondola sul posto e piange ancora un po’. Il mio Jude.
«Cosa dovevo fare? Anche io avevo bisogno di riprendermi e c’era da stare dietro ai ragazzi e un mucchio di altre cose. Oh, ora so che avrei dovuto obbligarlo ad ascoltarmi, quel maledetto biondino, ma che potevo fare? Che dovevo fare?». Tira su col naso ed ha la voce rotta.
Tento di accarezzarla, ma probabilmente sente solo freddo.
«Io ho questo, almeno. Venire qui, parlarti. Lo so che mi ascolti, percepisco che ci sei. Jude era così concentrato sul suo dolore da non sentire nient’altro».
Batte i denti, Susan, e io voglio che me lo dica. Non dirmelo.
«Robert, ieri Jude se n’è andato».