[RocknRolla] Il Crackhead // Parte 2

Nov 29, 2011 13:34

Titolo: Il Crackhead
Beta:
dylan_mx e
faechan
Fandom: RocknRolla
Rating: 16+
Avvertimenti: slash, language, underage & one-sided (accenno), drugs, maltrattamento minori (accenno)
Gifter:
faechan
Link al gift: Coverart <3

Nonostante avesse cercato in ogni modo di rimuovere dalla mente le parole di Johnny, quelle non facevano che tornare e ritornare a tormentarlo: “perché non provi a scoprirlo da solo?”.
E ci aveva provato davvero.
Aveva cercato quel combinaguai ovunque, in lungo e in largo, aveva sguinzagliato gli uomini di Lenny per tutta la città, chiesto allo Strizza, chiesto a tutti coloro che potevano sapere qualcosa su di lui, spacciatori, tossici, gentaglia dei bassi fondi, ma nulla: il ragazzo pareva sparito nel nulla.
Eppure, dopo due anni dalla sua partenza, Archy teneva ancora gli occhi bene aperti, pronti a cogliere la minima traccia che avrebbe potuto ricondurlo a Johnny.
Le sue speranze però, dopo tutto quel tempo, cominciavano ad affievolirsi; e come spesso succede, quando non ci speri più ciò che desideri ti si para davanti agli occhi.
Proprio lì, ad uno sporco tavolino dello Speeler, il luogo più ovvio, più banale dove andarsi a cacciare ed anche il meno sicuro visto che era frequentato da gente che aveva le mani in pasta negli affari di Lenny. E Archy in quel luogo ci andava di tanto in tanto a fare una partitina.
Così quando lo vide lì seduto, da solo, a bersi un orribile cocktail con più merda che altro dentro, quasi non credette ai suoi occhi: certo, i capelli erano più corti di due anni prima e i vestiti che indossava… bé, di certo Lenny Cole non gli avrebbe mai permesso di portarli sotto il suo tetto, questo era certo.
Lo stesso discorso valeva per quei terribili occhiali da sole con cui si stava atteggiando in quel momento.
Prima che potesse fare una sola mossa, un minimo tentativo di fuga, Archy gli fu accanto, una mano sulla spalla per tenerlo ancorato lì, bloccato fino a quando non l’avesse deciso lui.
< Johnny-boy.>
Gli bastò un’occhiata per capire che quell’incontro non era un caso: lo stava aspettando, era lì per quello.
L’uomo si sedette e lo fissò dritto negli occhi, ma tutto ciò che la sua espressione interrogativa ottenne in risposta fu un sorriso sornione.
< Ti vedo bene, zio Archy. Papino non ti schiavizza più come ai vecchi tempi?>
In un istante il più vecchio si ricordò quanto irritante e sfacciato potesse essere quel dannato ragazzino, ma a dispetto di ciò sorrise; non l’avrebbe mai ammesso, ma gli era mancata quella faccia tosta.
< Che ci fai qui, Johnny-boy?> domandò mentre con un cenno ordinava a Fred il solito.
L’altro si puntellò sui gomiti e piegò leggermente la testa.
< E’ da un pezzo che non ci vediamo. Ero preoccupato, temevo che tu ti stessi trascurando. Non sei più un giovincello, zietto.>
< Non solo due anni a fare la differenza.>
< Oh, ti assicuro che possono farla. E tanto anche.>
Continuarono a parlare senza dire nulla di particolare, Johnny era un maestro nel tenere conversazioni prive di capo e coda; a cose serie Archy non si arrischiava ad accennare, c’erano troppe orecchie indiscrete in quel posto.
Peccato che forse non avrebbe avuto altre occasione di chiacchierare liberamente col ragazzo.
< Non sono riuscito a trovarti. - ammise tutto d’un tratto - Da nessuna parte.>
Il classico ghigno più che soddisfatto apparve subito su quel volto scavato.
< Sono bravo a nascondermi, vero? Bé, credo che dovrai sforzarti ancora un po’, zietto. Non ho intenzione di aiutarti troppo.>
Fino a due anni prima l’avrebbe colpito con una delle sue famigerate sberle, ma per quella volta non lo fece; odiava se stesso per essersi lasciato coinvolgere in quel perverso nascondino, ma in fondo in fondo gli piaceva, era divertente.
Archy non ricordava quand’era stata l’ultima volta che si era divertito, forse da ragazzo durante una bravata tra amici; ma ora Johnny lo stava facendo davvero divertire.
Per questo non lo fermò quando finì il suo orribile cocktail e si alzò con un ghigno.
< Allora ti aspetto presto, zio Archy.>
Quella era una sfida che non poteva rifiutare.

Effettivamente aveva dovuto spremersi le meningi, impiegare ogni attimo libero dagli impegni di Lenny per rintracciare quel moccioso e sfruttare tutte le sue conoscenze: non si era certo risparmiato, aveva metaforicamente messo a ferro e fuoco tutta la città.
Ancora una volta per riuscire in quell’impresa lo Strizza era stato fondamentale, perché la tana di quel ratto era fuori da ogni giurisdizione, da ogni ambiente umanamente abitabile. Il nascondiglio perfetto, senza ombra di dubbio.
La dea Fortuna li aveva aiutati parecchio per ritrovare il ragazzo, anche se Archy non era così pronto ad escludere che certe tracce fossero state lasciate volontariamente dal giovane scapestrato; come quell’annuncio, quel volantino che per vie traverse era arrivato tra le mani dell’informatore.
Un concerto clandestino in un locale abbandonato.
Grande star della serata: Johnny Quid.
Lo Strizza si era precipitato ad avvertire il suo amico e cliente fisso, il piccolo problema era che sul volantino non c’era scritto quale cazzo fosse il locale in disuso. Ma Archy non si era lasciato abbattere da quei dettagli secondari: lo spettacolo era rivolto a quell’ammasso disordinato di drogati, tossici e gentaglia impasticcata che frequentava gli stessi ambienti di Johnny.
Se non era stato messo il luogo esatto voleva dire che tutti sapevano quale fosse oppure che tutti sapevano a chi chiedere. E c’era un solo punto di riferimento fisso per i crackhead.
Cookie era seduto al solito tavolo allo Speeler quando l’uomo più fidato di Lenny Cole gli si avvicinò posandogli possessivamente una mano sulla spalla; lo spacciatore per poco non si soffocò con il suo stesso drink.
< Archy… A cosa devo la visita?>
Il volantino incriminato venne sbattuto violentemente sulla superficie del tavolino.
< Il posto. Ho bisogno di sapere qual è.>
L’occhiataccia sospetta che gli rivolse Cookie diceva chiaramente che avrebbe preferito fare compagnia ai gamberi killer nel letto del Tamigi piuttosto che rivelarglielo, ma lo sguardo di Archy era di gran lunga più temibile di un paio di gamberi americani.
E così il gangster si era ritrovato in quel luogo dimenticato da Dio - anzi, probabilmente Dio non l’aveva mai visto in vita sua - a cercare di infiltrarsi tra la folla di giovani dagli occhi vitrei; in cuor suo pregò perché Johnny non fosse già arrivato a quello stadio.
Per non destare troppo sospetto si era vestito in maniera assolutamente informale, maglietta e jeans come tutti, ma probabilmente l’anello al dito e il portamento da uomo realizzato lo tradivano più di qualsiasi completo giacca e cravatta; ragazzini che dovevano essere di gran lunga più giovani di Johnny lo guardavano male e bisbigliavano tra loro indicandolo, altri, troppo sfatti per badarlo, gli passavano accanto senza degnarlo di uno sguardo.
Il locale era gremito di gente che fumava, rideva sguaiata, si dondolava sul posto; qualcuno vomitava agli angoli della strada, la musica usciva già dalla porta, il concerto era iniziato. Archy si fece largo a spintoni fino a trovare un posto che gli permettesse di vedere perfettamente il palco rimanendo sufficientemente nascosto dal mare di teste perché la rockstar non potesse individuarlo.
Quando Johnny salì sul palco ci fu un boato, a quanto pareva nei bassifondi aveva acquisito una buona fama. Il più vecchio non aveva mai apprezzato particolarmente i generi che ascoltava il ragazzo, ma era in grado di giudicare oggettivamente se un artista era bravo o meno.
E doveva ammettere che il moccioso se la cavava fin troppo bene.
Sul palco poi sembrava fosse a casa sua, si muoveva in una maniera così naturale che era evidente come fosse perfettamente a proprio agio; la folla non lo intimoriva, le urla lo eccitavano ancora di più.
Archy fu costretto a muoversi, accennare un po’ di ballo, dimenarsi come gli altri per non venire sballottato qua e là e soprattutto per non dare ancor di più nell’occhio, Johnny infilava un pezzo dopo l’altro senza scomporsi, fresco come se avesse appena cominciato.
Il suo amato zietto non poteva che restare a bocca aperta mentre quelle luci psichedeliche metteva in evidenza il suo profilo, i muscoli del torace che risaltavano mentre a petto nudo continuava a cantare, Poi avvicinò la bocca al microfono e ad Archy quasi venne un infarto.
Era la maniera in cui lo sfiorava, muoveva le labbra attorno alla testa senza però toccarlo, cantando come se niente fosse, la sua faccia di bronzo in bella mostra; solo un lampo nei suoi occhi poteva far capire l’ambiguità e la malizia nei suoi movimenti, ma probabilmente quel branco di fattoni che assistevano alla scena non si accorgeva minimamente dello spettacolo mozzafiato che aveva davanti.
Il sottile velo di sudore rifletteva le luci su quel corpo scarno, ma ben delineato che veniva esibito dalla cintura in su come un trofeo.
Archy cercò di riprendere il controllo di sé e gli ci volle tutta la sua determinazione per non farsi largo tra la folla e salire sul palco per fare non sapeva neanche lui cosa, forse picchiarlo, trascinarlo per un orecchio fuori da quel posto e riportarlo a casa o forse buttarlo a terra e fotterlo come se non avesse aspettato altro da quella sera che il moccioso, ancora quattordicenne, si era messo a strusciarsi contro di lui.
Ma come tutte le torture, per quanto piacevoli, finì anche quella.
Johnny svanì dal palco, dietro le quinte e i tossici cominciarono a farsi largo verso l’uscita, più rintronati di prima; Archy si rese conto che quella era la sua sola occasione: sgusciò tra i giovani e raggiunse in fretta e furia l’uscita posteriore, quella che, ne era certo, avrebbe usato il signor Quid.
Aveva avuto modo di studiare la struttura dell’edificio e sapeva che quella era la via più discreta e più pratica per far perdere le proprie tracce. Non gli restava che appoggiarsi al muro, un poco riparato rispetto all’uscita, e attendere che il moccioso uscisse.
Non dovette attendere molto perché Johnny uscisse con una birra in mano, quel fottuto ghigno trionfante sulle labbra; c’erano altri due ragazzi con lui e Archy preferì non farsi vedere fino a che quelli là non fossero spariti.
La priorità era sempre quella di non dare troppo nell’occhio, non osava nemmeno pensare a quale sarebbe stata la reazione di Lenny Cole se avesse saputo che il suo uomo migliore si era mischiato con quella feccia dei tossici per cercare di recuperare i contatti con quella disgrazia ambulante che era il suo figliastro.
No, davvero, Archy non ci teneva a far scoppiare il putiferio.
I pedinamenti non erano mai stati nel suo stile, ma se la cavava a sufficienza per stare dietro a tre ragazzotti ubriachi e fatti fino al midollo; mentre li osservava non poté fare a meno di irrigidirsi nel vedere come i due sconosciuti davano pacche sulle spalle a Johnny, gli sfioravano la schiena, cercavano di toccarlo il più possibile.
Si appuntò mentalmente di scoprire i loro nomi e tranciare personalmente quelle loro manacce schifose, oppure lasciarli in pasto ai famigerati gamberi killer, ma non appena si rese conto dell’idiozia dei suoi pensieri si riscosse, tentando invano di attribuire il suo assurdo rimuginare a quel paio di bicchieri che aveva bevuto prima di andare al concerto.
Scusa misera dato che riusciva a reggere perfettamente l’alcol, ma in quel momento gli bastava per tenere la coscienza a posto.
Arrivati ad un alto fabbricato dall’aria assolutamente inabitabile i due ragazzi si incamminarono per un’altra strada e Johnny barcollò verso l’ingresso, sfondando con un calcio la porta che pareva essersi bloccata: nessun portiere, nessun controllo e neanche un paio d’occhi indiscreti a guardarli. Di più Archy non poteva chiedere.
Entrò anche lui facendo ben attenzione a non fare rumore; il locale in cui viveva il giovane, anche se definire locale quell’infimo buco era più che un eufemismo, era una piccola topaia ricoperta di polvere e ragnatele, lattine vuote e sigarette sparse per il pavimento.
Aspettò qualche minuto in silenzio, il suo naso si stava abituando a quella puzza disgustosa.
Quando uscì dal suo nascondiglio Johnny era steso sul divano, un braccio sopra gli occhi e l’altro che ciondolava su un cuscino; pareva profondamente addormentato.
L’uomo non riuscì a trattenere un sorriso nel vedere quell’espressione così beata, così simile a quella che aveva da bambino; gli diede le spalle, preferendo esplorare un poco quel buco piuttosto che fissare imbambolato quel moccioso.

Lo svegliò il rumore della teiera che bolliva e dei passi poco distanti da lui; aprì un occhio e il profilo di Archy entrò nella sua visuale, la linea rigida delle spalle e le mani che preparavano con cura due tazze e i cucchiaini.
Un click e l’uomo si trovò puntata contro la propria schiena la canna di una pistola.
< Ben svegliato, Johnny-boy.>
L’alito che sentì sul collo non era esattamente tranquillizzante, ma stranamente Archy non si sentiva in pericolo. Si voltò per esaminare meglio l’arma premuta contro di sé ed incontrò quegli occhi infossati circondati da profonde occhiaie; a vederlo così da vicino era più magro, molto più magro di quanto non fosse prima della sua fuga e non che fosse mai stato grasso.
Almeno il ghigno era quello di sempre, constatò quando il ragazzo alzò la canna della pistola dal petto verso il suo mento.
< Ce l’hai fatta alla fine, zio Archy.>
< Non è stato poi così complicato… Mister Rockstar Johnny Quid. Dovresti trovarti un palco un po’ più appropriato per una star del tuo calibro.>
Quel ghigno era più malato di quanto ricordava ad essere sincero e non poté non seguire con gli occhi la canna della pistola che si allontanava un poco dal suo mento di qualche centimetro.
Non riuscì a reprimere uno scatto quando Johnny premette il grilletto: una piccola fiammella si sprigionò dall’arma, così vicina alla sua pelle da sentirne il calore.
< Originale.>
< Vero? Ci ho messo un pezzo per recuperarla.>
L’uomo si voltò senza riuscire a trattenere un sorriso.
< Ti va un the?>
Il ragazzo ciondolò verso una sedia e si lasciò crollare su di essa.
< Visto che l’hai già preparato.>

Non se lo sarebbe mai immaginato fino a qualche minuto prima, ma stava davvero prendendo un fottutissimo the all’inglese con il vecchio zio Archy; non era normale, assolutamente no. Insomma, per quanto non fosse esattamente un estraneo, a parte sberle, scappellotti e qualche pacca sulla spalla non è che avesse passato veramente tanto tempo da solo con il fedele cane di suo padre.
Si era dovuto limitare a guardarlo da lontano, con la coda dell’occhio, e ogni contatto fisico era un sollievo, una memoria in più da conservare, fosse anche la pelle ruvida delle sue mani, delle nocche che sbattevano impietose contro la sua guancia e i suoi zigomi.
Se c’era una cosa che Lenny Cole era riuscito perfettamente a fare era impedire al figliastro di avere qualsivoglia contatto umano: lo aveva costretto a passare la sua intera infanzia isolato nella propria stanza e così era cresciuto, non un amico, non un compagno, niente se non quelle quattro mura e la sua musica.
La scuola era stata in qualche maniera astrusa e complicata la sua unica salvezza, quell’appiglio che gli aveva permesso di non crollare, di non impazzire.
Era riuscito a trovare altri ragazzini, così simili a lui eppure totalmente diversi sotto ogni aspetto, e grazie a tutto questo era cresciuto senza troppi problemi - anche se a sentire chi lo conosceva di problemi ne aveva fin troppi.
In realtà durante quelle terribili vacanze, estive ed invernali, non c’erano compagni di giochi o altri ragazzini con cui condividere il proprio tempo e Lenny non lo lasciava neanche chiacchierare con i suoi uomini.
Non che quei gorilla avessero molta intenzione di passare il loro tempo a scambiare opinioni col figlioccio del loro capo, tranne Archy ovviamente: lui era l’unico che aveva un po’ più di classe, un po’ più di cervello, di umanità.
Era l’unico che quando lo guardava sembrava che non vedesse solo il figlio del proprio capo, ma un ragazzo; rimaneva sempre e comunque professionale, in ogni suo movimento, ma semplicemente perfetto e umano.
Si era sentito sempre un po’ legato a lui, nonostante le distanze che lo separavano, e c’era voluto poco per passare dall’ammirazione a qualcos’altro. Ed ora, per la prima volta, si trovava in una situazione del tutto pacifica con accanto il suo zio Archy.
< Per quanto tempo hai intenzione di restare in questo buco?>
Sorseggiò il suo the, il migliore che avesse mai bevuto.
< Fino a che non troverò qualcosa di meglio.>
Si guardarono per un istante e Johnny ne approfittò per osservare attentamente com’era conciato l’altro, in quella tenuta così casual.
< Stai bene in maglietta. Credevo che quel completino in giacca e cravatta fosse attaccato alla tua pelle.>
Il più vecchio scosse la testa, ignorando deliberatamente il commento insulso.
< Cosa fai per guadagnarti da vivere, Johnny? Show? Spettacolini di terzo tipo per racimolare qualche centesimo?>
< Suvvia, zio Archy, non essere così pignolo. In fin dei conti non devo far fronte a troppe spese… sigarette… qualche bicchiere…>
< La droga.>
Gli occhi del gangster erano duri, cattivi: non poteva sopportarlo, vedere quel moccioso così giovane buttare via la propria vita in questa maniera.
Il ragazzo ingollò quel che restava del the e si sporse all’indietro, in equilibrio sulle gambe posteriori della sedia; era tutto meno che impressionato.
< Che ci vuoi fare, zietto? Sono fatto così, amo viaggiare. Non faccio del male a nessuno, sono innocente come un agnellino, no? Credi che potrei fare del male a qualcuno, zio Archy?>
Detto da uno che solo pochi minuti prima gli aveva puntato contro una pistola, anche se finta, tutto il discorso aveva un tono decisamente ironico, ma il più vecchio non si stava affatto divertendo.
Era sempre stato uno dei tanti problemi di Johnny, quello di non prendere mai nulla seriamente: tutto era un gioco, se sparavi a qualcuno quello si sarebbe rialzato, se gettava dalla finestra i milioni di suo padre in cinque minuti si sarebbe recuperato tutto il malloppo. Se ti puntavano una pistola alla testa e sparavano bastava inserire un’altra monetina per ricominciare il livello dall’ultimo salvataggio.
< Potresti trovarti un’alternativa a tutto questo, Johnny.>
< Ah, davvero? Mi stai chiedendo di tornare a casa di papino? O mi offri un letto a casa tua? In quest’ultimo caso accetterei volentieri l’offerta, posso assicurartelo.>
Non che quell’opzione non gli fosse balenata nell’anticamera del cervello, anzi, Dio solo sapeva quante volte Archy ci aveva rimuginato sopra, un continuo filmino mentale che si ripeteva sempre uguale e sempre con la realistica, tragica fine: Lenny che scopriva che il suo uomo più fidato dava riparo al suo incubo vivente, cercava di proteggerlo, nasconderlo alla sua vista, ed il capo non la prendeva affatto bene.
Due pallottole in testa, una in gola per Johnny, questo era scontato.
Forse due in gola, per essere più sicuri.
Stessa sorte per se stesso, forse un po’ più dolorosa per rimarcare il suo tradimento.
Diciamo che fare una fine di quel tipo, e soprattutto farla fare a Johnny, non era esattamente al primo posto nella lista delle priorità.
< Sai che non è possibile, Johnny-boy. Non porterebbe a nulla di buono.>
< Bé, però almeno saremmo insieme. Non ti piacerebbe se vivessimo assieme, zio Archy?>
Approfittare di quelle parole ad effetto per alzarsi dal proprio posto e avvicinarsi pericolosamente all’altro era molto da Johnny, che infatti non si fece sfuggire affatto l’occasione per sfiorare la mano del gangster, un gesto quasi innocente che strideva da morire con il ghigno tutt’altro che casto che gli si dipinse sulle labbra.
< Johnny.>
Doveva suonare come un avvertimento, ma la voce gli uscì troppo roca, troppo bassa, e c’era una nota in sottofondo che sembrava quasi soddisfatta della piega che stavano prendendo le cose; doveva essere l’effetto ritardato dell’alcol prima del concerto, magari unito a qualcosa di poco sano nel the che aveva preparato (chissà cosa contenevano quelle bustine, non avrebbe dovuto fidarsi affatto di qualcosa proveniente dalla “casa” di una persona inaffidabile quale era il ragazzo).
Non bastarono le labbra di Johnny a sfiorare le proprie per fargli capire cosa stava succedendo e cosa sarebbe capitato di lì a poco: prima che la sua razionalità tornasse a bloccare il suo istinto e lo costringesse con dolore a colpire quel viso sfatto, quella guancia dura, con gli zigomi sporgenti, prima di ferire quegli occhi incassati, brillanti, profondi, prima di commettere il più grande sbaglio della sua vita Archy ricambiò quello strofinarsi di labbra.
Cercò Johnny, la sua pelle, la sua lingua, anche i denti andavano bene: approfondì quel dannato bacio e per un attimo tutto ciò che sentì fu il sapore di tabacco, di alcol, cibo precotto e the alla menta.
Un sapore imprevedibile, assurdo e contradditorio proprio come quel moccioso che spezzò la tensione scoppiando a ridere, passando le braccia attorno al collo di Archy, tornando a baciarlo, strofinando la guancia su quella dell’altro.
< Lo sapevo che non ero l’unico a volerlo.> mormorò con la bocca premuta sull’incavo del collo, intento a respirare a pieni polmoni un odore finalmente sano, buono, non come il puzzo di sigarette, di vomito e inquinamento.
Sapeva di dopobarba, uno di quelli buoni, e Johnny non poté che approvare la scelta. Ricordava di aver sentito quell’odore anni prima, quando in preda agli effetti della sua prima volta con la droga si era trovato, senza sapere bene come, pigiato contro il corpo solido dell’uomo. In seguito si era pentito di non essere stato completamente in sé per poter gustare ogni sfumatura di quella situazione, i suoi ricordi erano alquanto sconnessi e poco attendibili, logorati dalla droga e dal tempo.
Ma questa volta comunque non si sarebbe lasciato sfuggire nulla, non uno sguardo, un battito di ciglia, un sorriso appena accennato, un respiro più profondo: non poteva garantire di essere al momento completamente sobrio e in sé, ma di certo lo era a sufficienza per non dimenticare, al contrario di quel loro momento di intimità di anni prima.
Non sarebbe finita con lui trascinato fuori da una macchina e gettato tra le grinfie di suo padre (non ce l’aveva con Archy per questo, era il suo lavoro e se ne rendeva perfettamente conto); aveva ancora sulla schiena qualche cicatrice lasciata dalla fibbia della cintura del signor Lenny Cole, un monito silenzioso, ma che poteva tastare quando voleva, allungando semplicemente la mano verso la scapola destra.
Oh, non l’aveva mai visto così arrabbiato come quella volta, neanche quando gli aveva bruciato circa un milione di sterline nel forno per vendicarsi del suo piccolo sassofono che era stato spaccato in due per una nota musicale troppo alta nel momento sbagliato.
La mente di Lenny ragionava in maniera strana, sopportava con un atteggiamento più stoico l’essere derubato o il perdere denaro che un qualcosa che macchiasse la sua reputazione. Meglio perdere un milione che scoprire che il proprio figliastro è un fottutissimo crackhead, un tossico, uno di quegli stronzi fumati che sboccano agli angoli delle strade e rubano tutto quello che gli capita sotto mano, l’ultimo gradino della scala sociale di qualsiasi paese, dal più ricco al paesino sperduto del terzo mondo.
Il vecchio era convinto che suo figlio non avrebbe avuto successo neanche come dannato sciamano di un villaggio dell’Africa.
Ma questo non importava più di tanto, non ora che Johnny era fuori da quella casa, lontano anni luce dal marito di sua madre, ben nascosto, protetto e con Archy che non pareva intenzionato a lasciar andare le sue labbra.
< Ti conviene non chiacchierare troppo, Johnny-boy, o potrei cambiare idea nel frattempo.>
Non che il ragazzo avesse bisogno di un incoraggiamento a quel punto, anche perché quando la mano dell’uomo afferrò con forza i suoi capelli, stando ben attento a non esagerare, i pochi freni che il giovane poteva ancora vantare andarono senza alcuno sforzo a puttane.

Il primo pensiero che passò per la mente di Archy quando si svegliò la mattina dopo fu che Johnny avrebbe davvero dovuto cambiare divano o la sua schiena non avrebbe potuto sostenere una replica di quanto avevano fatto quella notte. Una vocina nella sua testa insinuò in lui il dubbio che il ragazzo preferisse quei luoghi assolutamente scomodi per lasciarsi andare, il che era assolutamente verosimile; in quel caso il caro e vecchio zio Archy avrebbe potuto anche adattarsi.
Doveva essere a causa dei ricordi della sera prima e della sensazione di spossato benessere (Cristo, non voleva neanche ricordare a quanto tempo prima risaliva l’ultima volta che l’aveva fatto... tutta colpa di Lenny e degli orari di lavoro massacranti che gli toccava fare per lui), ma ci mise un po’ troppo per i suoi standard ad accorgersi che qualcosa o qualcuno mancava in quel momento.
Non c’era quel peso fin troppo leggero al suo fianco, nessun corpo dalle ossa sporgenti a premerlo contro lo schienale del divano, non un ombra di quell’odore di tabacco che Johnny portava sempre con sé.
Archy spalancò gli occhi e si tirò in fretta a sedere: il ragazzo non era lì accanto a lui, dove avrebbe dovuto essere.
Bastò un’occhiata veloce a quel bugigattolo di cucina e al bagno per rendersi conto che il moccioso non era neanche lì; era uscito, come un fil di fumo esce in silenzio da una finestra socchiusa. L’uomo cercò di non farsi prendere prematuramente dal panico e aspettò, ispezionando nel frattempo quel luogo polveroso: tutto era esattamente al suo posto, tutto meno che la finta pistola e il pacchetto di sigarette con l’accendino.
E probabilmente quelle poche banconote di cui Johnny disponeva.
Apparentemente il ragazzo poteva essere uscito e basta, un giretto per il quartiere, magari a comprarsi della roba o scroccare bicchieri ad un malfamato bar nelle vicinanze, ma Archy se lo sentiva, lo sapeva che non era così.
Johnny era quello che, se lasciato a se stesso, non si schiodava dal letto prima delle tre di pomeriggio, era quello che passava ore ed ore chiuso in casa, che in compagnia del suo amato zietto gli si attaccava ai pantaloni e non voleva sentir ragioni di scrostarsi da lui. Quello era Johnny e non si sarebbe di certo allontanato da lui dopo aver finalmente ottenuto quello che desiderava da tanto tempo.
Il gangster imprecò sottovoce e si rivestì in fretta, controllò che la sua pistola (quella vera, funzionante e perfettamente carica) fosse al suo posto, e per grazia divina lo era. Appoggiò una mano sul divano, sul lato dove aveva dormito il ragazzo: era freddo.
Uscì per strada con la consapevolezza che non sarebbe riuscito a incontrare il moccioso, non se lui non voleva farsi trovare. Si chiese se quello era stato solo un gioco, perché suonava tutto troppo da Johnny e aveva paura di aver colpito nel segno, ma qualcosa dentro di lui lo rassicurò, certo che non era stata una presa in giro.
A conferma di quello nella sua mente fluttuarono espressioni, risate, ricordi della notte appena passata.
No, non poteva essere stato un gioco.
Era certo che il giovane non sarebbe tornato nel suo vecchio rifugio, ma diede comunque l’ordine ad un paio di uomini di controllarne l’entrata giorno e notte per le settimane a seguire: nulla, non un ombra, non un nome, niente.
Johnny pareva sparito, evaporato, eclissato, come se non fosse mai esistito; il fedele cane di Lenny Cole si mise a cercare, ma né il suo fiuto infallibile né l’aiuto dello Strizza né Cookie né qualche altro conoscente poterono aiutarlo a trovare quel ragazzino.
Era semplicemente svanito nel nulla, inghiottito dalla città e dalle strade grigio fumo.
Inghiottito dalla droga, dai suoi viaggi, da quel mondo fantastico che lo salvava dalla realtà.
Archy non poteva sopportarlo, non poteva pensare a quel ragazzo intento a sfondarsi l’anima con il crack, l’eroina, l’alcol, tutto quello su cui poteva mettere le mani.
Avrebbe voluto salvarlo, davvero, avrebbe dato qualsiasi cosa per aiutarlo, ma il moccioso era scomparso e man mano che il tempo passava e le settimane diventavano mesi e poi anni la rabbia prendeva il sopravvento.
Se se lo fosse trovato davanti con ogni probabilità l’avrebbe picchiato, una bella sberla come si doveva e poi dritto a casa di Archy, dove li attendevano infinite notti da recuperare.
E, nonostante il gangster odiasse ammetterlo, non vedeva l’ora di trovarsi di fronte il ghigno sfrontato del suo Johnny-boy.

fan fiction, rocknrolla, bigbang italia, slash

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