Titolo: Il Crackhead
Beta:
dylan_mx e
faechanFandom: RocknRolla
Rating: 16+
Avvertimenti: slash, language, underage & one-sided (accenno), drugs, maltrattamento minori (accenno)
Riassunto: ambientato prima del film, durante l'adolescenza di Johnny, alle prese con le prime droghe, con il rapporto conflittuale con Lenny e soprattutto con la sua cotta apparentemente non ricambiata per Archy. E sarà proprio Archy a fare di tutto per scoprire che fine ha fatto il ragazzo negli anni successivi alla sua fuga da casa.
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Parte 2 Il crackhead
Le vacanze invernali erano il periodo peggiore di tutto l’anno per Johnny: la chiusura delle scuole, anche se solo per pochi giorni, lo costringeva ad una periodica convivenza forzata con Lenny. Era difficile capire chi dei due fosse più dispiaciuto per la situazione, di certo l’uomo manifestava il suo disappunto in maniera più plateale, con scenate in pubblico, urla, imprecazioni, insulti e, più spesso di quanto in realtà non fosse necessario, sferzate di cinghia e manrovesci.
D’altro canto non si poteva certo dire che il piccolo Johnny si dimostrasse disposto a guadagnarsi la fiducia del patrigno e tenere una buona condotta. Le fughe notturne furono il primo passo verso la ribellione, un modo anche per tenere una certa distanza di sicurezza tra lui e l’uomo che lo odiava così tanto; poi vennero i furti, qualche oggetto di poco valore rubato al supermercato o a negozietti di chincaglierie: la refurtiva veniva accumulata durante tutto il periodo delle vacanze per essere poi rivenduta ai suoi compagni quando rientrava a scuola.
In quel modo, pian pianino ma con costanza, il ragazzino si era creato il suo gruzzolo, tenuto gelosamente nascosto tra le assi del suo letto, non perché ci tenesse più di tanto a quel denaro, ma perché sapeva che se Lenny l’avesse scoperto gliel’avrebbe confiscato subito; la sua mente non voleva neanche pensare a cosa poteva fare quel mostriciattolo con dei dollari in tasca.
Ed effettivamente quello che Johnny fece all’età di quattordici anni con quei soldi non gli piacque affatto.
Fu proprio durante le odiate vacanze invernali, con il vento carico di neve che sferzava impietoso la finestra della camera del ragazzo: questo non gli impedì di attuare il suo piano.
Era più che consapevole che uscire dalla porta principale sarebbe stato impossibile (era stato il suo primo tentativo, anni prima, ed era finito prima ancora che cominciasse, con uno dei gorilla di suo padre che lo trascinava con un certo riguardo per le scale, il suo braccio in una morsa d’acciaio), dunque l’unica opzione era la finestra stessa.
Indossò la felpa più pesante che trovò nel suo armadio, per fortuna suo padre non s’interessava troppo dei suoi abiti e gli era permesso di comprarsi quello che gli piaceva, tirò fuori i soldi dal nascondiglio e li infilò con cura nella tasca dei jeans; facendo ben attenzione a non fare troppo rumore vista l’ora tarda si avvicinò alla finestra e la spalancò.
Una folata di vento lo investì in pieno, facendolo rabbrividire e riempiendogli i capelli di fiocchi di neve; tirò fuori la lingua per catturarne un paio e si sporse dal davanzale: era al secondo piano, una decina o poco meno di metri lo separavano dal giardino.
Fortunatamente suo padre non aveva mai amato gli animali, ad eccezion fatta dei suoi gamberi killer, ma quelli non contavano, e non c’erano cani da guardia pronti ad abbaiare o tentare di dilaniare il suo corpicino tutto ossa e muscoli. Rifletté se fosse il caso di riprovare con il trucco delle lenzuola annodate per calarsi fin giù, ma dopo l’ultima volta Lenny aveva preso precauzioni, facendo in modo che non ci fossero ricambi di lenzuola alla sua portata.
Peccato che non avesse calcolato che la grata che sosteneva una pianta rampicante passava proprio accanto alla finestra del ragazzo e pareva abbastanza robusta da riuscire a reggere il suo peso; senza pensarci più di tanto Johnny si sporse in avanti e si aggrappò con una mano al sostegno. Tirò un poco per verificare che andasse bene e poi si appoggiò completamente alla grata, allungando una mano per accostare un po’ le ante della finestra, perché la sua fuga non fosse così evidente.
Scese in fretta, considerando che, se doveva cadere, tanto valeva essere più vicino possibile al terreno, ma il suo piano funzionò e toccò terra pochi secondi dopo, incolume.
Con un ghigno stampato in faccia sgattaiolò nell’ombra e scavalcò il cancello della residenza, mettendosi a correre a più non posso appena fu sul marciapiede; il suo buonumore aumentava ad ogni passo, consapevole di essere sempre più distante da quella casa da incubo e dal suo aguzzino personale.
Fece in modo di disperdere le proprie orme sulla neve mischiandole a quelle degli altri passanti e si diresse verso i bassifondi, le mani in tasca e il viso rosso per il freddo.
Aveva avuto modo di conoscere la zona nelle sue precedenti “escursioni” e quindi non gli ci volle molto per individuare il suo obbiettivo, un uomo magro all’angolo di una stradina, il volto scavato e gli occhi infossati come se la pelle tirasse sulle orbite e gli zigomi.
Lavorava per Cookie, gliel’aveva detto un barbone qualche mese prima, e questo poteva voler dire soltanto una cosa: quel tipo aveva ciò che Johnny cercava.
Gli si avvicinò senza guardarsi attorno, con passo deciso; quando se ne accorse l’uomo alzò lo sguardo su di lui e sbuffò scocciato.
< Gira al largo, ragazzino. Qui sto lavorando.> borbottò nascondendosi meglio nell’ombra.
< Lo so. - replicò il piccoletto - Sono qui per questo.>
Gli occhi dello spacciatore, fino a quel momento vacui e spenti, scintillarono di curiosità e di qualcos’altro che Johnny riconobbe come incredulità.
< Non dire idiozie, moccioso. Sai ancora di latte, ti conviene smammare.> cominciò, ma alla vista dei soldi che il ragazzo gli porgeva si interruppe.
< Posso pagare, come vedi.>
Se aveva altre obiezioni di coscienza da fare le ricacciò in fondo alla gola, perché gli vendette senza esitare qualche grammo di roba, poca cosa, ma tutto aveva un suo prezzo e lui non faceva sconti per i minorenni.
Ad ogni modo cinque minuti dopo Johnny vagava per le strade alla ricerca di un posto riparato dove potersi godere il proprio acquisto.
Il primo pensiero che attraversò la mente di Archy quando venne svegliato dal suo cellulare che squillava fu che Lenny era furioso e questo voleva dire semplicemente guai. Guai per Archy stesso, che avrebbe dovuto sbrogliarli.
Afferrò il telefonino e gettò un’occhiata alla sveglia, reprimendo un’imprecazione: erano le tre di notte.
< Archy.> borbottò con voce arrochita senza alzarsi dal letto.
< Archy! - la voce che gli urlò nelle orecchie lo rintronò, un principio di emicrania imminente - Quel bastardello è scappato! C’è una mina vagante che gira in città e quando esploderà sarà merda per me!>
Il braccio destro di Lenny represse uno sbadiglio e si mise seduto, strofinandosi gli occhi con la mano libera.
< Come ha fatto a scappare?>
< Dalla finestra! Quella piccola serpe si è calata lungo la pianta rampicante! Cristo, quel moccioso mi farà impazzire di questo passo!>
“Farà diventar matto anche me, se continua con questo andazzo” pensò l’uomo alzandosi e cercando a tentoni i propri vestiti.
< Esco per cercarlo.> disse con voce ferma, finalmente sveglio, ma Lenny continuava a gridare come un fiume in piena.
< Sì, bravo, esci! Riportami quel piccolo ingrato, gliela faccio passare io la voglia di calarsi dalla finestra! Dalla finestra, ti rendi conto, Archy? Porca puttana, era la volta che volava giù dal secondo piano e si sfracellava al suolo!>
Senza aggiungere altro il gangster chiuse la chiamata e si rivestì in fretta, consapevole che ogni secondo che passava aumentavano le possibilità che quel disastro ambulante avesse dato fuoco a qualcosa.
Quando uscì si strinse di più nel cappotto, il freddo che gli gelava le ossa: si chiese dove potesse essere finito Johnny con quel clima polare. Era notte fonda ed era poco raccomandabile passare al setaccio tutta la città, non avrebbe finito prima di ventiquattr’ore e lui aveva tutte le intenzioni di riportare a casa il ragazzino e tornarsene a letto per la sua sacrosanta dormita.
Deciso a chiudere quell’affare il prima possibile, appena entrato in macchina tirò fuori il cellulare e chiamò l’unico uomo che sapeva in tempo reale qualsiasi cosa fosse successa a Londra, dalla foglia caduta sul marciapiede all’omicidio dietro l’angolo: lo Strizza per sua fortuna non lo fece attendere molto.
< Pronto?>
< Strizza, sono Archy.>
< Archy! Cosa posso fare per te?>
Esitò per un istante, indeciso se rivelare tutto al segugio o mantenere un po’ di discrezione, ma alla fine si rese conto che, con ogni probabilità, non c’era niente da rivelare che lo Strizza non sapesse già.
< Sto cercando Johnny, il figliastro di Lenny Cole. Sai dove si trova?>
Sentì mugugnare qualcosa dall’altra parte e attese, impaziente di ottenere una risposta.
< Da quanto ne so… - disse lentamente il pozzo d’informazioni - meno di un quarto d’ora fa si aggirava nel pressi dello Speeler. Se fossi in te guarderei lì.>
< Perfetto. Ti farò avere i soldi domani mattina.>
< Non c’è fretta, Archy, non c’è fretta.>
“Vicino allo Speeler” rifletté lui mentre chiudeva la chiamata e metteva in moto l’auto. Uno dei posti peggiori dove il ragazzino poteva cacciarsi, i bassifondi più bassi di tutta Londra.
Arrivò lì guidando come un pazzo, temeva di perdere l’unica pista che aveva; una volta davanti al locale smontò, affondando nella neve fino alle caviglie.
Borbottando imprecazioni contro Johnny, e un po’ anche contro Lenny e la sua dannata mania di svegliarlo nel pieno della notte, cominciò a cercare in ogni angolo, ogni fottuto vicoletto secondario, ogni anfratto, ogni riparo, ma del moccioso neanche l’ombra.
Se non l’avesse conosciuto da quando era alto meno di un metro avrebbe iniziato a preoccuparsi per la sua vita, la città era un covo di violenza, bastava un attimo per far sparire uno spudorato quattordicenne dalla vista e non farne più trovare il corpo; peccato che conoscesse Johnny da una vita, come avrebbe detto Lenny quella piccola vipera non poteva morire, doveva restare in vita per il solo gusto di torturare onesti uomini d’affari come lui.
Finalmente, quando ormai Archy poteva sentire le proprie dita staccarsi per il freddo, lo vide in lontananza, addossato ad una scala d’emergenza di un locale, abbastanza riparato da non essere coperto di neve, ma comunque esposto alle intemperie.
Si preparò ad un inseguimento all’ultimo respiro come già ne erano capitati in precedenza, ma con sua grande sorpresa il ragazzo non voltò neanche la testa per guardarlo quando gli si avvicinò piano.
< Johnny-boy?>
Ancora nessuna risposta, né movimento né altro. Ora si che cominciava a preoccuparsi, eppure era di certo sveglio, aveva gli occhi aperti e, Cristo, respirava, era cosciente, non stava male.
Si chinò davanti a lui per portarsi al suo stesso livello e lo fissò negli occhi: erano vacui e trasognati, lo fissavano senza vederlo realmente. Non ci volle molto per fare due più due.
< Cristo… Che cazzo hai fatto, ragazzino?!>
Un sorriso ebete apparve sulle labbra del mocciosetto.
< Ah, sei tu, zio Archy? Sei così strano…>
Se non avesse saputo che se ne sarebbe occupato molto volentieri Lenny più tardi, l’avrebbe picchiato; lo sollevò di peso per un braccio cercando di farlo stare in piedi, ma quello barcollò fino a riaccasciarsi per terra.
< Che cazzo hai preso, Johnny?> chiese nuovamente, ma ciò che ottenne fu solo una risatina spenta.
Ingoiando altre imprecazioni e parole poco piacevoli si guardò attorno con circospezione, poi si concentrò nuovamente sul ragazzino ai suoi piedi, sospirando: non aveva scelta.
Lo afferrò con entrambe le mani e lo prese di peso, trasportandolo fino alla macchina; il ragazzino non sprecò l’occasione di strofinare la guancia sul petto di Archy e avrebbe cercato di nascondersi anche nell’incavo del suo collo se l’uomo non l’avesse scaricato malamente sul sedile anteriore, allacciandogli in fretta la cintura e sbattendo la porta con rabbia.
Montò in macchina e si affrettò a bloccare le porte prima che al moccioso potesse venire l’insana idea di gettarsi fuori dall’auto in corsa; voleva sapere come si era procurato la roba, chi gliel’avesse venduta, ma si rendeva conto che sottoporre Johnny ad un interrogatorio non avrebbe portato alcun frutto, men che meno nelle condizioni in cui versava.
Mentre era impegnato a guidare gli gettò un’occhiata di sfuggita, il piccolo stava ancora ridacchiando tra sé e sé.
< Cosa c’è di tanto divertente?> chiese giusto per tenerlo occupato, in modo che non potesse architettare un nuovo, distruttivo piano.
L’altro continuò a ridacchiare, ma un movimento improvviso della mano ed un eloquente “click” gli fecero capire che si era slacciato la cintura.
< Rimettiti la cintura, Johnny.> ordinò senza staccare gli occhi dalla strada.
< Uhm, non ne ho voglia.>
Prima che potesse minacciarlo di dargli una sberla, una di quelle che non avrebbe dimenticato facilmente, il ragazzino non era più sul suo sedile, ma stava cercando di salirgli sulle ginocchia superando con qualche difficoltà la leva del cambio e il freno a mano.
Preso in contropiede Archy tentò d’inchiodare, ma la macchina slittò di qualche metro su un lastrone di ghiaccio costringendolo a tenere il piede sull’acceleratore e guidare mentre il moccioso, chiaramente incapace di intendere e di volere, si sistemava meglio sulle sue gambe, strusciando la guancia sulla sua camicia.
< Johnny…>
Il ringhio che uscì dalla sua gola non era da lui, ma era convinto che chiunque altro non sarebbe stato pronto ad una situazione del genere; allungò una mano per afferrare il ragazzo per la collottola e sbatterlo al suo posto, ma quello si avvinghiò con le unghie, dimenandosi per evitare la presa.
“Dannazione” si disse riuscendo per un pelo a non andare fuori strada con quel diavolo che gli si agitava addosso.
< Cristo, Johnny, sta fermo!>
Il ragazzo incredibilmente ubbidì, ma Archy non era sicuro se fosse stato per il suo ordine o perché aveva smesso di cercare di afferrarlo. Per grazia divina erano finalmente arrivati davanti alla casa di Lenny, alla cui vista però il quattordicenne non reagì affatto bene.
Artigliando la giacca dell’uomo sotto di lui ficcò il viso nell’incavo del collo e si rifiutò di collaborare quando il gangster gli intimò di uscire dalla macchina; l’uomo poteva sentire il fiato caldo sulla pelle che articolava parole apparentemente senza senso, ma quando tese l’orecchio si accorse che suonava più o meno tutte come “non portarmi là, ti prego, non portarmi là”.
Se non fosse stato veramente fedele a Lenny Cole in quell’esatto istante avrebbe rimesso in moto la macchina e cercato un alloggio alternativo per quella povera anima in pena, ma la sua lealtà andava a quell’uomo e a nessun’altro. Però un po’ di pietà per quello che era poco più di un bambino ai suoi occhi la provò: sapeva - sarebbe stato da stupidi negarlo - che Lenny come padre era decisamente un disastro, bé, forse non solo come padre… in poche parole non era un asso nei rapporti umani, al di là di quelli di lavoro in cui si dimostrava un adulatore lecchino come pochi.
Ma per il resto del tempo era effettivamente un uomo complicato, difficile, e di certo non era in grado di trattare con i bambini senza ricorrere alla sua cintura.
Aveva appena deciso di attendere che Johnny-boy si calmasse prima di portarlo dentro in casa quando ecco che il piccoletto ricominciò a muoversi, ma non come pochi minuti prima.
Il corpo di Archy si fece di ghiaccio quando si rese conto che il ragazzino si stava strusciando contro di lui.
< Archy…>
A quel mugolio qualcosa nella testa dell’uomo scatto e con un gesto improvviso afferrò il più giovane per i capelli scostandolo da sé con forza, mandandolo a sbattere contro il volante. Un colpo breve di clacson risuonò nell’aria.
Johnny avrebbe voluto dire qualcosa, magari una frase intelligente che gli permettesse di non essere scaraventato fuori dalla macchina: voleva restare ancora un po’ vicino al cane di suo padre, come lo chiamava per scherno ogni tanto, ma dal volto furente di quest’ultimo capì che le sue speranze erano vane.
< Non farlo mai più.> scandì l’uomo, la voce come un sibilo che sferzava l’aria.
Avrebbe davvero voluto picchiarlo, specie per quel dannato ghigno saputello che gli era apparso sulle labbra e, Cristo, non voleva continuare a fissarlo, voleva solo ignorare il fatto che era ancora sulle sue ginocchia, le gambe aperte in una posizione oscena e quel fottuto scintillio negli occhi…
Prima che la situazione potesse degenerare, perché con Johnny lì accanto non poteva che accadere, smontò dalla macchina trascinando con sé il ragazzo, ben attento a non allentare la stretta sul suo braccio.
Mai il giardino della villetta di Lenny gli era sembrato così grande, mai il sentiero da percorrere così lungo; nessuno dei due disse una parola, ma c’era ancora tensione tra di loro, molta più di quanto Archy era disposto a sopportare.
Fu un sollievo poter scaricare il ragazzino nelle mani di un Danny molto assonnato, con l’ordine di portare quel flagello di Dio dritto dritto da suo padre. Una vocina nella sua testa gli disse che Lenny avrebbe preferito che glielo portasse Archy di persona, ma l’idea di sopportare padre e figlio contemporaneamente (e soprattutto dover ascoltare nuovamente gli insulti e le grida di Cole) gli era insostenibile.
Girò sui tacchi e fece per andarsene, gettando un’ultima occhiata verso la porta d’ingresso.
L’ultima cosa che vide prima che questa si chiudesse fu lo sguardo di Johnny, ancora annebbiato per la droga, terrorizzato all’idea della punizione che lo attendeva, esultante ed eccitato per la scarica di adrenalina.
Ad Archy non restò che imprecare sottovoce e tornarsene finalmente a letto.
Quella fu la punizione più lunga che il piccolo Johnny avesse mai ricevuto: confinato nella sua stanza fino alla fine delle vacanze. Probabilmente il signor Cole avrebbe voluto tenerlo rinchiuso anche per più tempo, ma poi aveva riflettuto sul fatto che era meglio che quella peste se ne stesse a scuola piuttosto che in casa sua, dove avrebbe potuto architettare, riflettere e tentare di mettere in atto i suoi piani distruttivi.
Così il ragazzo passò le successive giornate tra le quattro pareti di camera sua, la finestra sigillata e con le sbarre all’esterno, l’unica sua distrazione era lo stereo che teneva a tutto volume, guadagnandosi spesso diverso frustate di cinghia.
Il giorno dopo la sua ultima bravata udì la voce di Archy fuori dalla sua porta e si mise ad origliare: stava parlando con Lenny e, da quanto poté capire, pareva che l’uomo che gli aveva venduto la roba, lo spacciatore dagli occhi infossati, ora giacesse sul fondo del Tamigi con delle belle scarpe di cemento a tenergli compagnia.
Non si sentì in colpa per quell’uomo né lo sfiorò l’ipotesi che fosse stato lui la causa della sua morte: ognuno faceva il suo lavoro a proprio rischio e pericolo, questo era chiaro a tutti.
Sperò invece che il cagnolino di papà entrasse in camera sua, magari per picchiarlo per la volta scorsa, o sgridarlo o semplicemente parlargli; aveva una voglia matta di rivederlo, di sentire il suo odore, anche di beccarsi la sua famigerata sberla se questo significava avere un qualsivoglia contatto con lui.
Ma Archy parve tenersi ben distante da lui, quasi avesse intuito il problema.
Si rividero solo mesi dopo, per la pausa estiva, e dallo sguardo che gli lanciò Johnny capì che non aveva dimenticato il loro ultimo incontro, anzi, probabilmente era un pensiero che l’aveva tormentato per lunghe notti insonni e questo riempì di soddisfazione il ragazzino.
Essere sempre nella mente di quell’uomo era più di quanto avesse sperato inizialmente e non poteva che essere felice; anche quando, col tempo, gli sguardi di Archy si andarono addolcendo, se guardava bene in fondo a quegl’occhi poteva leggere la consapevolezza che stava ancora pensando a quella notte in macchina.
Il giorno del diciottesimo compleanno di Johnny tutti si aspettavano una spettacolare fuga dalla casa del patrigno, magari accompagnata da qualche furto o danno collaterale, giusto per rivendicare la propria libertà e il controllo sulla sua vita ora che aveva finalmente raggiunto la maggiore età.
Ma stranamente in quell’afosa giornata di agosto non si mosse una foglia nei pressi di casa Cole; i gorilla del gangster si guardavano stupiti l’un l’altro, appostati com’erano dietro ogni porta e ogni colonna.
Avevano ricevuto ordini precisi e scrupolosi dal loro capo - ad essere sinceri, li aveva istruiti Archy, ma tutti sapevano che l’organizzatore vero e proprio era il signor Cole - eppure sembrava che si fosse trattato di un falso allarme, perché il disastro ambulante di nome Johnny non pareva intenzionato a lasciare la propria camera, né dalla porta né per vie traverse.
Non che Lenny intendesse impedirgli la fuga, per carità!, era una benedizione potersi finalmente liberare di quel moccioso così problematico, ma avrebbe preferito lasciarlo andare senza immolare alla causa i suoi preziosi vasi di porcellana o gli antichi dipinti e arazzi che ricoprivano le pareti della sua maestosa dimora.
Dopo ore di surreale silenzio Danny e gli altri uomini cominciavano davvero a preoccuparsi; proprio quando stavano confabulando tra loro se continuare o meno la guardia Archy entrò dal portone principale, intento a chiudere l’ennesima chiamata di quella giornata terribilmente intensa.
< Archy…>
< Che succede qui?>
Lo sguardo smarrito dei suoi sottoposti non lo confortava più di tanto e neanche quell’innaturale silenzio che avvolgeva tutta la casa.
< Ecco… il signorino Johnny non si è visto…>
< Non è mai uscito dalla sua stanza… non un segno di vita, neanche un po’ di musica… e la finestra è ancora sigillata.>
Questo era davvero preoccupante; l’uomo si bloccò per un istante, non osava neanche pensare cosa potesse passare per quella mente malata in quei terribili secondi di silenzio. Probabilmente la fine del mondo era vicina.
< Che… che facciamo, Archy?>
Gli ci volle solo un momento per immaginare cosa avrebbe voluto Lenny - che ormai conosceva talmente bene da poter anticipare i suoi desideri - e metterlo in pratica.
< Restate di guardia fino a nuovo ordine. Io andrò a riferire a Lenny.>
Non che si aspettasse di ottenere un qualche tipo di indicazione da un patrigno che meno sapeva del proprio figliastro più era contento, ma era più una questione di formalità.
< Sarà la volta buona che quel piccolo ingrato si è ammazzato. Già ce lo vedo, impiccato con un cazzo di lenzuolo, le gambe per aria a ciondolare avanti e indietro, uno dei suoi fottutissimi strumenti ancora in mano. Scommetto che vuole farmi un dispetto, quel bastardo, lasciarmi un morto in casa per dover pulire tutta la merda che ci ha lasciato. E magari il suo dannatissimo fantasma ha anche intenzione di perseguitarmi, ricordarmi che non mi libererò mai di lui!>
Archy dovette trattenersi per non alzare gli occhi al cielo, quell’uomo era un melodramma vivente.
< In definitiva che dobbiamo fare?>
< Ma lasciate che si ammazzi, quel moccioso irritante! Solo, continuate a sorvegliare la mia roba anche questa notte, non vorrei che quell’odioso terremoto approfittasse del buio per distruggermi la casa.>
Gli ordini era ordini e gli uomini rimasero appostati tutta la notte, ma non un solo rumore uscì dalla stanza di Johnny; Archy, nonostante preferisse spararsi piuttosto che ammetterlo, stava davvero cominciando a preoccuparsi.
Dopo che anche la mattina seguente non si udì alcun rumore dalla camera, l’uomo decise che era ora di vedere che diamine stava combinando quel ragazzino.
Bussare era una prassi che Archy non riusciva a mettere da parte, ma al discreto suono delle sue nocche su quella porta non seguì alcuna risposta. Deciso ad entrare provò la maniglia, anche se si aspettava di dover buttare giù la porta a calci.
Invece, con sua grande sorpresa, la maniglia si abbassò con uno scatto secco e gli permise di entrare.
< Johnny-boy.>
Appena messo un piede dentro la stanza Archy si chiuse la porta alle spalle, più per impedire ad altri di vedere cosa succedeva lì dentro che per bloccare quella comoda via di fuga; gli ci volle una manciata di secondi prima di individuare il ragazzo, intento a gettare oggetti vari in un borsone stracolmo.
< Ah, zio Archy.>
Era incredibile come quel giovane potesse apparire così calmo dopo aver svuotato la sua stanza di tutti i suoi oggetti personali e vestiti ed essere riuscito a ficcare il tutto in una borsa da sport per fuggire dalla casa infestata di incubi e brutti ricordi da dimenticare. Ed era riuscito a fare tutto questo senza emettere un solo suono.
Aveva dell’incredibile.
Archy non era certo se avanzare nella sua direzione fosse la mossa più saggia, perciò si limitò a fissarlo da quei quattro metri di distanza; il ragazzo buttò nella sacca un vecchio cubo di Rubik a cui in passato aveva staccato tutte le facce reincollandole una ad una, poi si voltò completamente, pronto per fronteggiare il suo vecchio zio.
< Credevo saresti scappato ieri.> mormorò quest’ultimo guardando quella camera ormai spoglia.
< Avrei voluto, zio Archy, davvero! Ma vedi, è così difficile trovare un alloggio al giorno d’oggi per noi giovani… ho dovuto contattare più gente del previsto e ho perso tempo… ma come puoi notare, ora sono pronto per levare le tende.>
Quasi intendesse quell’espressione in maniera letterale, lo sguardo di Archy corse alle tende temendo di vederle strappate dal loro sostegno, ma per fortuna erano ancora lì, intatte. Probabilmente una mossa strategica, Johnny era al corrente del gorilla appostato sotto la sua finestra e non voleva che quello potesse vedere cosa stava succedendo nel suo vecchio rifugio.
< Allora, zio, sei venuto a fermarmi?>
Più che preoccupata o in apprensione la voce del ragazzo pareva eccitata dal dover affrontare l’amato cagnolino di papà per ottenere la libertà, un pensiero che irritava il più vecchio nel profondo.
< Ero venuto a controllare che tu fossi ancora vivo. Il fatto che tu sia stato così silenzioso era… allarmante.>
Il ghigno compiaciuto del giovane era disarmante.
< Preoccupato per me?>
< Più per la tappezzeria, il sangue è difficile da levare.>
Con una risatina soddisfatta Johnny si chinò a chiudere la zip della borsa e ad appoggiare il pesante carico sul letto.
< Bene, direi che allora è arrivato il momento di dire addio…>
Archy non sapeva se doveva sentirsi sollevato per la notizia o ancor più preoccupato: quel ragazzo poteva anche essere un terremoto ambulante, la causa scatenante della prossima guerra mondiale o quel che gli pareva, ma alla fine era solo un ragazzo.
Lo conosceva da quando non gli arrivava neanche a mezza coscia e aveva assistito alla sua vita, a quel lento processo che l’aveva reso pericoloso, incosciente, una mina vagante; un processo inarrestabile che Archy avrebbe davvero voluto fermare. E forse quella era la sua ultima occasione per farlo.
< Sei sicuro di quello che fai, Johnny? Dove pensi di andare una volta fuori di qua? Cosa credi di poter fare?>
Johnny scoppiò nuovamente in una breve risata mentre con passi lenti e un po’ barcollanti colmava lo spazio tra di loro.
< Allora sei preoccupato per me!>
< Sto solo cercando di farti riflettere, dato che non sembri in grado di farlo di tua spontanea volontà.> replicò seccato l’uomo, colto in fallo. Ma in verità avrebbe davvero preferito morire piuttosto che ammettere che ci teneva a quel grattacapo vivente e che voleva aiutarlo.
< Ho i miei progetti, zio Archy. Non puoi pensare sinceramente che io voglia restare a marcire in questa casa per il resto della mia vita! Il paparino non sembra molto contento di me e credo sia meglio per tutti e due che io tagli la corda.>
Il più vecchio non se la sentiva di dargli torto, non una parola che aveva pronunciato era oggettivamente sbagliata, ma il ricordo di quella notte d’inverno, di come si era gettato sulle droghe nonostante la sua giovane età, lo faceva tremare.
Un tossico è un tossico, quasi impossibile da recuperare: quella merda ti cala in un buco nero da cui non si può più uscire.
Archy si irrigidì quando si rese conto di quanto vicino si era fatto Johnny, che stava invadendo il suo spazio personale in maniera plateale, con una sfacciataggine incredibile e il solito ghignetto soddisfatto sulle labbra.
< Sai, zio, sono felice che tu sia venuto da me. Avevo voglia di vederti almeno un’ultima volta prima di andarmene.>
Se Archy non l’avesse considerato troppo avventato addirittura per lui, avrebbe giurato che il ragazzo gli aveva strizzato l’occhio come i giovani facevano per adescare qualche bella ragazza. Ma doveva essere stata un’illusione ottica, forse il troppo stress, perché era davvero troppo anche per Johnny.
< Dove andrai?> chiese con un tono leggermente scontroso, più che altro per l’assurdo corso dei suoi pensieri.
< Bé - ora Johnny aveva oltrepassato ogni limite andandogli quasi addosso, meno di cinque centimetri tra i due - perché non provi a scoprirlo da solo? Certe cose bisogna guadagnarsele…>
Un suono seccò risuonò nell’aria, seguito da un debole gemito.
Archy abbassò la mano, sconvolto per aver reagito senza neanche darsi il tempo di immagazzinare le parole udite e pensare di conseguenza: ma non per questo il suo gesto era stato meno voluto e decisamente spontaneo.
Johnny si teneva la guancia offesa con una certa teatralità, anche se il dolore nei suoi occhi era evidente ed autentico: se la sberla di Archy era famosa in tutti gli ambienti malavitosi di Londra un motivo c’era.
< Vedi di non montarti la testa, ragazzino. E renditi conto con chi stai parlando.> ringhiò in un soffio a pochi centimetri dall’orecchio del giovane.
Nonostante la sberla era ancora terribilmente vicini l’un l’altro.
In tutta risposta Johnny fece quello che nessuno si sarebbe aspettato, a meno che non lo avesse conosciuto da parecchio tempo: scoppiò a ridere, gli occhi che gli lacrimavano per il dolore e la guancia gonfia e arrossata.
Archy conosceva Johnny da parecchio tempo, perciò non si scompose più di tanto: era un comportamento molto “da Johnny”, in un certo senso prevedibile.
Il più giovane continuò a ridere per un paio di minuti, asciugandosi le lacrime con una mano e chinandosi sempre di più verso l’uomo.
< Sai, zio… - bofonchiò con il volto praticamente appoggiato alla sua spalla e il gangster si irrigidì - credo che mi mancherà anche questo. La mia vita senza le tue famose sberle perderà un bel po’ di senso.>
< Sei un caso disperato, Johnny-boy.>
Sembrava impossibile levare quel ghigno idiota dalla sua faccia mentre inspirava a fondo l’odore del suo improvvisato sostegno.
< Credo sia arrivato il momento di dirci addio.> mormorò strofinando la guancia offesa contro il colletto inamidato della camicia. L’uomo lo guardò dubbioso, un sopracciglio inarcato denunciava il suo scetticismo.
Il ragazzo sbuffò quando l’altro non fece alcun movimento.
< Non sono sicuro di essere io il caso disperato.> gli soffiò nell’orecchio prima di sporgersi ancora un po’.
Archy successivamente tentò di giustificarsi tenendo presente il fatto che era stato preso in contropiede, era troppo vicino per poter reagire in maniera consona e che Johnny era decisamente incontrollabile.
Ma nonostante tutte le sue inutili scuse, quando Johnny appoggiò le sue fredde labbra sulle sue non si tirò indietro, non lo spintonò, non cercò di ristabilire un’adeguata distanza tra i loro corpi.
A suo favore poteva però affermare di non aver neanche risposto a quel contatto, anche quando il ragazzo aveva premuto con più forza su di lui, la lingua che gli leccava il labbro inferiore prima che questo venisse mordicchiato.
Per tutto il tempo l’uomo restò immobile, fino a che finalmente Johnny non si staccò.
< Bé, non è malaccio come regalo d’addio.> mormorò e senza aggiungere altro gli diede la schiena, si caricò la borsa sulle spalle ed uscì in silenzio.
Archy rimase lì in piedi per un paio di minuti, la mente ancora bloccata da quanto era successo. Non che essere baciato fosse così sconvolgente, ma l’essere baciato da Johnny sì. Forse non era più il ragazzino minorenne che gli si strusciava addosso rischiando di farlo finire in galera per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minore, specie perché con ogni probabilità Lenny non avrebbe gradito l’idea della suo uomo più fidato che si faceva il suo odiato figliastro.
Forse Johnny era cambiato, di certo era cresciuto, ma agli occhi del più vecchio rimaneva sempre il suo solito Johnny-boy.
Scosse la testa, incredulo, e l’occhio gli cadde sulla sua spalla sinistra: si vedeva perfettamente il tessuto stropicciato dove la mano di Johnny si era aggrappata per restare in equilibrio in punta di piedi.
Un sorriso amaro salì alle labbra di Archy e senza pensare ad altro uscì dalla stanza ormai vuota.