Titolo: It's in the water, baby
Autore:
kuroi_nezuTipo di fanwork: fanfiction
Fandom: Lord of War
Personaggi: Yuri Orlov, Vitaly Orlov, Jack Valentine
Pairing: Yuri/Vitaly
Rating: R
Warning: Yuri's POV, temi forti, incest
Numero di parole: 2695
Riassunto: La relazione tra Vitaly e Yuri, raccontata da quest'ultimo, dal primo all'ultimo istante.
Disclaimer: nessuno dei personaggi di Lord of War mi appartiene, ma sono tutti di mister Niccol e compagnia bella e io ovviamente non ci ho guadagnato una lira (strumento, ovviamente).
Note: La storia segue parecchio la trama del film, per cui sarebbe consigliabile averlo visto prima di leggere. Nel caso contrario credo che basti dare una scorsa a wikipedia, ma consiglio comunque di vederlo, ne vale davvero la pena. Le parole che Yuri rivolge a Valentine nel finale sono prese pari pari dal film.
Note: carte utilizzate: Il matto per Vitaly, Il mago per Yuri, L'imperatore per André Baptiste, Il papa per il signor Orlov, La giustizia per Jack Valentine. Il carro e Il sole per il successo e gli affari di Yuri, Il diavolo per la relazione tra i fratelli Orlov, specie dal punto di vista di Vitaly. L'impiccato per il finale di Vit, La torre e La morte per quello di Yuri.
00. Il Matto.
Rappresenta l'innocenza e la follia, l'entusiasmo e la fede. Viene raffigurato come un giovane vestito di stracci che, con gli occhi al cielo e un fagotto fra le mani, cammina a braccia spalancate incontro a un precipizio.
01. Il Mago.
Rappresenta l'abilità e l'inganno, la volontà e la forza della mente. È un giovane mago vestito di bianco e rosso. La destra, levata al cielo, stringe la bacchetta, mentre la sinistra punta risolutamente alla terra. Innanzi a lui i simboli del potere magico: la spada, il bastone, il pentacolo e la coppa.
04. L'Imperatore.
Rappresenta il potere che può sfociare in tirannide, la stabilità e il comando. Questo re vegliardo indossa un'armatura sormontata da una lunga cappa rossa. Nella destra ha un lungo scettro, nella sinistra un globo. La corona sul suo capo è ornata da cerchi rossi e bianchi. Teste di ariete decorano il suo trono, alle cui spalle svetta un paesaggio arido e brullo.
05. Il Papa.
Rappresenta la saggezza e la tradizione che vengono trasmesse. Il Pontefice è un insegnate e una guida. Con indosso gli abiti da cerimonia e la tiara, egli dispensa benedizioni. Ai suoi piedi vi sono due discepoli. Il primo, a capo chino, simboleggia la fede che obbedisce senza discutere; il secondo, che guarda il Papa dritto in viso, vuole invece comprendere e imparare.
08. La Giustizia.
Rappresenta l'onore e l'equilibrio, il bene e il male. Una donna incappucciata, dallo sguardo severo e fisso, siede su di un trono di pietra. Grave e impassibile, è completamente assorbita dal proprio compito. Con la destra tiene una spada levata, nella sinistra regge i piatti di una bilancia. Proprio per questo motivo, la Giustizia viene spesso avvicinata all'Arcangelo Michele.
07. Il Carro.
Rappresenta la vittoria e la gloria, l'autodisciplina e il viaggio. Un guerriero in armatura si trova a bordo di un carro di pietra, trainato da due sfingi, una bianca e l'altra nera. Lo sguardo del giovane è fiero e distaccato, il suo capo cinto da una corona d'alloro, nella destra tiene uno scettro d'oro. Dietro di lui si scorge una cittadella fortificata.
19. Il Sole.
Rappresenta la vittoria e il carisma, il successo e l'armonia. Lo spazio è dominato da un caldo sole antropomorfizzato, i cui raggi si spandono in ogni dove. In primo piano, un bambino nudo in sella a un cavallo bianco. Il capo cinto da una coroncina e da una piuma rossa, fra le dita uno stendardo arancione. Dietro di lui, un muro di pietra e girasoli variopinti.
15. Il Diavolo.
Rappresenta la lussuria e l'oscurità; un amore deleterio, che conduce alla distruzione; l'illusione e la schiavitù; un nemico. Dallo sfondo completamente nero emergono tre figure: il Diavolo, con le sue grandi ali di pipistrello, le corna caprine e una fiaccola accesa rivolta verso il basso nella sinistra; e un uomo e una donna, nudi e incatenati. Il loro cappio è lento, potrebbero fuggire, eppure non lo fanno. Lei ha una coda alla cui estremità fiorisce un grappolo d'uva, quella di lui è in fiamme. A campeggiare su tutti loro, un pentacolo rovesciato.
12. L'impiccato.
Rappresenta l'accettazione e l'estasi, il sacrificio e l'attesa. Un giovane pende a testa in giù da un albero a forma di T. Ha le mani giunte dietro il corpo, la sinistra incrociata sotto la testa. Un alone di luce risplende intorno al suo capo, irradiandosi su uno sfondo altrimenti grigio. I sacchi di monete che stringe fra le mani nei mazzi più antichi richiamano il prezzo del suo tradimento.
16. La Torre.
Rappresenta la superbia e il castigo, la rottura e la liberazione. In cima a un picco inaccessibile, vi è un'antica torre di pietra, la cui sommità viene scoperchiata da un fulmine. Le sue tre finestre sono divorate dalle fiamme, che illuminano un cielo nero insieme a minuscole e splendenti scintille. Due figure precipitano nel vuoto, una di esse indossa una corona d'oro.
13. La Morte.
Rappresenta il rinnovamento e la fine, la distruzione e la malattia. Uno scheletro in armatura marcia su un cavallo bianco, nella mano stringe un vessillo con un fiore dai cinque petali. Davanti al suo animale, due fanciulli in agonia e un vescovo in procinto di cadere; alle sue spalle, il corpo riverso di un re. A fare da sfondo, una barchetta che veleggia su un fiume e il sole che sorge fra due antiche torri.
It's in the water, baby
Non so dirvi quando tutto è cominciato, o meglio, non so dirvi quando tutto è diventato palese, ma posso dirvi che tra noi c’è sempre stata una traccia, un piccolo indizio che lasciava intendere che la situazione poteva degenerare da un momento all’altro.
Io e Vitaly siamo sempre stati completamente diversi, fin da bambini. Quando nostra madre ci raccontava una storia, lui la guardava con occhi sgranati, la bocca aperta, pendendo dalle sue labbra… si beveva qualsiasi panzana ci dicesse. Io invece no e non certo per quella manciata di anni in più che avevo.
E’ sempre stato difficile fregarmi. Vedete, io ho un talento, che a quanto pare è più raro di quanto immaginassi: so fiutare le fregature. Le riconosco, le studio e poi le controllo, le volgo a mio favore. D’altronde, per chi ha fatto del segreto e dell’inganno la propria professione dev’essere naturale manipolare facilmente la situazione, o non si va poi molto lontano.
Paradossalmente, ogni vendita è un inganno. Devi far sempre credere al compratore che quello che gli stai offrendo ha un valore di gran lunga superiore a quello che richiedi. Solo così il compratore se ne esce felice, soddisfatto e probabilmente pensa già a quando tornare per riprendere gli affari con te. La gente va un po’ viziata, di certo non tornerà a contrattare con chi li ha presi a scarpe in faccia.
Ecco, io l’ho sempre avuta nel sangue questa abilità di viziare, manipolare, ottenere ciò che voglio. La finzione è un’arma assai potente e io in vita mia ne ho fatto largamente uso. Vitaly invece no. Oh, lui è sempre stato l’ingenuo, il piccolo sempre protetto da tutti, prima dai nostri genitori, poi da me. Si vedeva che era fatto di un’altra pasta: lui non sapeva dove andava, cosa stava facendo, che obiettivi aveva, lui vagava senza meta, perdendosi, incespicando, cadendo in ogni singola trappola.
Nostro padre l’aveva capito, che eravamo agli antipodi. L’aveva capito ed era palese che preferisse Vitaly a me. D’altronde, considerando che il nostro vecchio aveva quelle sue manie di grandezza, che si sentiva una sorta di autorità, una guida spirituale per tutti noi, era inevitabile che preferisse il discepolo che lo seguiva ciecamente, senza mettere nulla in discussione. Una piccola bambola che gli desse sempre ragione.
Vitaly era stato la sua bambola per tanti, lunghissimi anni, fino a quando non ho deciso che il mio fratellino meritava una vita migliore, una vita più dinamica, più interessante. Una vita rischiosa, come quella che avevo scelto per me. Non c’era niente che io amassi di più del pericolo: sapere che il più piccolo passo falso avrebbe significato la fine, che chi ti trovavi davanti poteva toglierti di mezzo da un momento all’altro, quella scarica d’adrenalina non me la dava nient’altro. Ma con mio fratello in squadra, il tutto era molto più divertente.
Tutto andava fottutamente bene: gli affari, le emozioni forti, mio fratello. Mi piaceva notare che Vitaly mi fissava con i suoi occhi sgranati da bambino, entusiasta di me e del mio lavoro, matto come solo lui poteva esserlo. Credevo di averlo salvato da nostro padre, ma la verità era che volevo essere io il suo nuovo punto di riferimento, io ad essere idolatrato come non mai.
Lo realizzai con chiarezza quella volta in macchina, quando costrinsi mio fratello ad entrare in una clinica per disintossicarsi dalla cocaina. Quando lo vidi lì, accucciato sul sedile a sniffare, mi resi conto che ero stato io a ridurlo a quel modo e che, ora, lui non poteva stare senza di me. Era alla mia più completa disposizione e la cosa mi piaceva come non mai. Mi ricordai del cartello “attenti al cane” che aveva appeso nella sua cucina. Quasi mi veniva da ridere: se una volta era stato un cane rabbioso, ora non era nient’altro che il mio cucciolo.
Fu una sofferenza dovermi allontanare da lui, una sofferenza che tentai di lenire in tutti i modi, come fare la corte ad Ava. Ah, quello fu uno dei miei più grandi successi, ma se vi dicessi che funzionò nell’intento di farmi dimenticare Vitaly, bé, mentirei più del solito.
Ma anche il mio fratellino non si era dimenticato di me. Ogni volta si presentava a casa mia con una ragazza nuova e ogni volta, dopo una decina di minuti, la dimenticava sul divano per tornare da me, per riabbracciare il suo fratellone, per ricordare i vecchi tempi. Non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di me, ma certe verità non si possono nascondere semplicemente col silenzio.
C’erano notti in cui mi chiamava, completamente ubriaco o peggio, mi implorava di raggiungerlo, di aiutarlo. Fu una di quelle sere che andai a casa sua e lo trovai steso sul divano, lo sguardo vacuo che fissava il vuoto, della cocaina ancora sparsa sul tavolo. Non dissi nulla, pensando che nello stato in cui versava non avrebbe capito neanche una parola.
Ma non appena mi sedetti sul bracciolo, accanto a lui, ridacchiò, fissandomi con quegli occhi incredibilmente spenti. < Sei tu, allora… sapevo che saresti venuto. Tu vieni sempre. >
Gli passai una mano tra i capelli, guardandolo senza sapere che fare. Avrei tanto voluto insultarlo, ma una parte di me si rifiutava di parlare, come se la mia voce potesse spezzare l’atmosfera surreale che aleggiava nella stanza.
< Che cazzo hai combinato, Vit? > mormorai scuotendo la testa e lui, invece di rispondermi seriamente, scoppiò a ridere.
< Sai, Yuri, la colpa è solo tua… sempre in giro per il mondo, sempre lontano… non ti basta niente, vero? Il giorno prima era il Libano, quello dopo l’Unione Sovietica… ti sei abituato a vincere e non vuoi più smettere. Ti vedo, sai: sei lì, sul carro del conquistatore, e vai di paese in paese a dispensare i tuoi piccoli amici assassini. Hai tutto il potere che vuoi, Yuri. Hai potere, gloria, soldi, fama, tutto. Hai vinto, c’è poco da fare. >
Vaneggiava, era evidente. Avevo una gran voglia di picchiarlo, ma mi limitai a sorridere appena, le dita ancora impigliate tra i suoi capelli. Lui colse il mio sorriso e non lo approvò per niente: sbuffò come faceva quand’era piccolo, contrariato perché nessuno gli credeva, e si passò una mano sull’angolo della bocca.
< Perché? Perché sorridi? Non lo vedi? E’ il carro, Yuri, il carro… >
Mi chinai su di lui e cercai di rimetterlo seduto in qualche maniera, ma si divincolò come una vipera, afferrandomi il viso con entrambe le mani; da quella distanza così ravvicinata percepivo perfettamente la puzza di alcol che aveva addosso. Sbatté le ciglia un paio di volte, nel tentativo di rimettere a fuoco la scena.
< Mi accechi, Yuri. Sei sempre lì, sempre lontano, lontano… Io ti odio. Perché cazzo non potevi restare con me? Perché mi hai lasciato da solo? Ti sei trovato un’altra, eh? Ava qui, Ava lì… fanculo. Noi dovevamo restare assieme. Soci, ricordi? Fratelli in armi… Dovevamo stare in due. Due soli ad accecare il mondo. >
Non l’avevo mai sentito lamentarsi di Ava, prima di allora, ma in quel momento il pensiero scivolò nelle retrovie. Non era di lei che m’interessava parlare. Era di noi. Non so se fossi veramente consapevole di quel che stavo facendo, so solo che lo feci e non ci pensai due volte. Il mio pollice scivolò sul suo mento, piano, la corta barba che strisciava contro il polpastrello.
< Ci può essere un unico sole, Vit. >
“E non sei tu.”
Baciare Vitaly non era come baciare Ava o tutte le altre donne con cui ero stato in precedenza. Era più una specie di guerra, una guerra senza proiettili e vendite, ma andava comunque vinta; il cane che mio fratello si teneva dentro non aspettava occasione migliore per uscire, digrignare i denti e azzannare la mia giugulare, se gliel’avessi lasciato fare. Ma non ero abituato a perdere e se ne accorse ben presto.
I ringhi si trasformarono in uggiolii nel giro di pochi minuti, con mia grande soddisfazione. L’unica pecca fu il divano, ma nel giro di tre giorni gliene feci recapitare a casa uno molto più comodo. Non credo di aver pensato a cosa avrebbero potuto dire i miei genitori o Ava o uno dei miei clienti se mi avessero visto in quel momento, ma di certo fottere Vitaly sul suo dannatissimo divano non è stata la cosa più illegale che io abbia fatto, anche se probabilmente la più piacevole.
Nei giorni seguenti il mio caro fratellino si rifiutò di lasciare il mio fianco anche solo per un istante. Mi aveva eletto a suo astro personale e non aveva alcuna intenzione di tornare nel buio, il che non mi dispiacque affatto: riuscii a tenerlo lontano dall’alcol e dalla droga per qualche tempo, mentre lui aumentava in maniera smisurata la mia autostima.
D’altronde, nel periodo che seguì, gli affari andarono bene. L’uccisione di zio Dimitri mi aveva sconvolto, ma ero pronto a ripartire al massimo. Quando decisi di fare affari con André Baptiste, ero ormai convinto di aver raggiunto l’apice del successo, la vittoria che sognavo da tempo.
Mi dovetti ricredere, l’incontro con il dittatore della Liberia mi diede più grattacapi che introiti e, soprattutto, colpì in maniera irrimediabile la mia autostima. Il mio carisma mi aveva portato ovunque, la mia innata abilità a trattare con la gente mi aveva aperto porte insperate, ma tutto questo con lui non funzionava.
La grande differenza tra lui e gli altri dittatori con cui avevo intrattenuto rapporti era che lui era assolutamente imprevedibile. Con gli altri era facile, superato il rischio iniziale sapevi che avevano bisogno di te, che ti avrebbero tenuto da conto, protetto, curato per bene, perché non c’era nessuno che gli offriva un servizio come il mio.
André Baptiste non ci avrebbe pensato due volte a farmi fuori, se ne avesse avuto voglia. Bastava un passo falso, anche quando tutto sembrava già consolidato, e il castello crollava, col mio corpo sotto le macerie. Non avevo mai avuto così tanta paura a trattare con un cliente: certi pazzi sarebbe meglio evitarli come la peste, specie quando sono potenti. E il potere di André poteva facilmente distruggere il mio.
Ma quel folle non era l’unico a occupare i miei pensieri; continuavo a ricevere chiamate da Vitaly. Smaniava di rivedervi e il mio timore era che ricadesse a consumare coca mentre io ero lontano da lui, cosa che non era così distante dalla realtà. Non potevo abbandonare l’affare, avevo come il presentimento che André non l’avrebbe gradito. Non potevo portare il mio fratellino con me, sarebbe finito con un proiettile in testa in men che non si dica. Non era tipo da affari di questo calibro, non sapeva mantenere il sangue freddo.
Cercai di concludere le trattative il più in fretta possibile e rientrai a casa appena potei. Ad aspettarmi all’aeroporto c’era Jack Valentine, tutto impettito e fiero di portare la giustizia nel mondo. Era una di quelle persone che trovavo assai difficili da tollerare, ma sopportai con un sorriso sarcastico e un paio di battute. Non era la prima volta che sperava di trovare indizi, prove contro di me, anzi, era l’ennesima volta che falliva miseramente.
A casa, però, Vit era come impazzito: camminava senza sosta per la stanza, una sigaretta spenta in bocca, le mani in tasca, gli occhi stralunati. Quando mi vide sobbalzò, corse verso di me e mi abbracciò come se volesse spezzarmi la spina dorsale; dovetti tenerlo per i polsi, perché le sue dita stavano già scivolando a sbottonarmi la camicia.
< E’ venuto quel tipo… quel tipo… ha fatto domande, non gli ho detto niente, ma avevo paura che tu… che tu… >
Non sapevo se era la droga a mangiarlo da dentro o il terrore che quel che avevamo cominciato venisse distrutto improvvisamente. L’unica cosa che sapevo era che Valentine mi era più insopportabile ogni istante che passava e che se avesse osato infastidire ancora Vitaly se ne sarebbe pentito amaramente.
< Stiamo cadendo, Yuri… merda, se ritorna… se ritorna. >
< Non ritornerà, Vit. Stai calmo, stai calmo… >
Eravamo sconvolti entrambi, ma non gli permisi di venire con me neanche la volta dopo; era meglio che stesse lontano da tutta quella merda in cui mi stavo cacciando. Fu una scelta saggia, me ne resi conto quando mi ritrovai davanti a Valentine, per la seconda volta in troppo poco tempo, almeno per i miei gusti. Ma ne ebbi ancor più conferma quando vidi ancora André Baptiste e Weisz, due persone che non avrei mai più voluto rivedere.
Fu una fortuna che Vitaly fosse rimasto fuori dalla questione, perché fu già un casino per me uscirne. Per il resto, quando ritornai a casa, stremato e sconvolto, fui più che felice di mettere da parte i miei affari. Per sempre sarebbe stato l’ideale, ma suppongo non si possa avere tutto dalla vita. Anche il mio fratellino stava meglio: si era rimesso in carreggiata, era tornato a fare un lavoro pulito, aveva una ragazza, nonostante le mie visite notturne fossero ugualmente benvenute.
Non so perché lo richiamai con me, quando partii per la Sierra Leone. Forse non volevo essere l’unico a sporcarsi di nuovo le mani, forse perché credevo che averlo al mio fianco mi avrebbe fatto sentire più sicuro. Forse volevo solo che non si allontanasse mai più da me.
Ma quando perse la testa, avrei dovuto capirlo cosa stava per succedere, avrei dovuto intuire che no, non era affatto a posto la questione. Vitaly era sempre stato un libro aperto, per me, e sapevo che era una persona buona, come io non sarei mai riuscito ad essere.
Lo guardai mentre mi sorrideva, gli occhi limpidi, la faccia rilassata dopo quel lungo momento di panico. Era così che volevo vederlo accanto a me, felice. Ed ero talmente preso dalla mia convinzione, da non rendermi conto che c’era qualcosa che non andava. Me ne accorsi solo tardi, quando mio fratello lanciò quella fottuta bomba a mano e distrusse metà del carico.
So che urlai, ma non ricordo più cosa. Ricordo lo sguardo di mio fratello, steso a terra. Il resto è il vuoto. Non voglio descrivere come ci si sente, non mi è possibile farlo. So solo che tutto ciò che rimaneva del mio Vit era un corpo freddo e un enorme senso di colpa.
Ripensai alle sue parole, durante il viaggio in aereo. “Stiamo cadendo”. Ora capivo, troppo tardi ovviamente, ma capivo. Era proprio un bel volo, quello che mi spettava. Immagino sia la punizione per chi cerca di toccare il sole, per chi ci riesce. Quella per me era la fine, una lunga caduta libera, da solo, perché Vitaly aveva fatto la sua scelta, Vitaly aveva già toccato terra.
Non fui sorpreso di trovarmi di fronte alla giustizia incarnata da Jack Valentine; era così smanioso di infliggermi il castigo, così pronto a buttarmi in faccia tutti gli errori della mia vita… eppure non aveva ancora capito che io avevo già cominciato a scontare la mia pena.
< Presto qualcuno busserà a quella porta e Lei verrà chiamato; in corridoio ci sarà un suo superiore: come prima cosa si complimenterà per il bel lavoro svolto, Le dirà che Lei farà del mondo un posto più sicuro, riceverà un elogio ed una promozione, e poi Le comunicherà che mi rilasceranno. >
Provavo una certa soddisfazione a smantellare così le certezze di quell’uomo così sopra le parti, così fastidioso, così diverso da me. Una soddisfazione che però non riusciva a lenire minimamente il dolore che porto dentro.
< Così Lei definisce me un male ma, sfortunatamente per Lei, io sono un male necessario. >
Valentine mi lasciò andare, in silenzio. Io me ne andai, in silenzio. Non c’era più nessuno ad attendermi, ormai. Ava, Nikolaj, i miei genitori, Vitaly… credo che Jack Valentine, dall’alto del suo scranno di giustiziere, l’avesse capito: restare in vita e soffrire era l’unico modo per espiare le mie colpe.
Arrivato davanti al portone di casa, mi chiesi cosa mi avesse trattenuto dal prendere una seconda bomba a mano e completare il lavoro che mio fratello aveva iniziato. Morire accanto a lui non sarebbe stato un finale così terribile, anzi.
Scossi la testa e aprii la porta: tanto sapevo che non c’era nessuno ad aspettarmi.