[Ariyama] Ienu kizuato ni ame ga furisosogeba mezameteku sono memory

Oct 06, 2012 12:51

Titolo: Ienu kizuato ni ame ga furisosogeba mezameteku sono memory (Se la pioggia cade su ferite ancora aperte si risvegliano i ricordi) [Face Down - Arashi]
Fandom: RPF - Hey! Say! JUMP
Personaggio: Yamada Ryosuke, Arioka Daiki
Pairing: Ariyama
Rating: nc-17
Genere: angst
Warning: slash, death!fic
Wordcount: 7.096 fiumidiparole
Disclaimer: I protagonisti di questa storia non mi appartengono, non li conoscono personalmente e i fatti di seguito descritti non hanno fondamento di verità. La storia non è scritta a scopo di lucro.
Note: la storia è scritta per la think_angst per il set AU e usando il prompt Criminali!AU e per la diecielode per il set Misc Warning usando il prompt AU (la storia si svolge in un universo diverso da quello originale) e per la 500themes_ita con il prompt “Il momento”.
Tabella: AU
Tabella: Misc Warning
Tabella: 500themes


La ragazza gemeva, cercando di attutire la voce contro il cuscino, mordendo la federa e stringendo nel pugno le lenzuola. Le unghie lunghe oltrepassavano la stoffa sottile graffiandole i palmi, mentre continuava ad ansimare e godere.
Il ragazzo spingeva in quel corpo gracile, leccava la schiena che di tanto in tanto si arcuava, premendole una mano sul fianco, posandosi sulla pancia piatta e scivolando giù tra le sue gambe, per darle maggior piacere anche con le dita, sentendola bagnata. L’altra mano, dalla spalla era giunta fino al collo, sulla gola, che aveva attirato verso di sé, costringendo la ragazza a sollevarsi sulle ginocchia, mentre lui continuava a spingere dietro di lei. Le afferrò un seno a palmo aperto, stringendo quella morbida rotondità, pizzicando un capezzolo con la punta delle dita, continuando a spingere le dita sempre più affondo mentre usciva ed entrava con una violenta ferocia dentro di lei.
La sentì venire, l’umore caldo scivolare lungo le dita e, senza curarsi dei bisogni della compagna, le portò indietro il capo, afferrandole i lunghi capelli, mordendole il collo, spingendo con maggiore violenza in quell’esile corpo, raggiungendo a sua volta l’orgasmo.
Con voce arrochita, dalla quale traspariva quel tono dolce e familiare, lei gemette il suo nome.
“Ryosuke”.
Yamada si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi sul soffitto; la stanza era illuminata quasi a giorno dalla luce che proveniva dalla finestra. Si portò un braccio sul viso, coprendosi gli occhi, mugolando di fastidio, allungando una mano verso il comodino, leggendo che ore fossero.
Erano solo le otto del mattino. Odiava quell’orario. Quando arrivava la bella stagione e le giornate diventavano più lunghe il suo corpo ne risentiva incredibilmente. Il clima così caldo, fin troppo mite, gli metteva addosso una stanchezza innaturale, facendolo sbuffare infastidito non appena sveglio.
Si portò entrambe le mani al viso, cercando di svegliarsi e di trovare un buon motivo che lo costringesse a uscire dal letto e attivarsi per salutare al meglio il nuovo giorno, quando un movimento al suo fianco lo distrasse.
Voltò il viso sul cuscino e si ritrovò a sorridere alla persona che dormiva accanto a lui e che si stava pian piano destando: Daiki era uno dei buoni motivi per iniziare la giornata, ma non lo era altrettanto per incentivarlo ad alzarsi come invece avrebbe dovuto fare.
“Buongiorno” mormorò, accarezzandogli i capelli con una mano, sentendo l’altro stiracchiarsi e sorridere ancora prima di aprire completamente gli occhi. Arioka si avvicinò a lui, abbracciandolo e scostandosi poi velocemente, guardandolo sconvolto.
“Che c’è?” domandò Yamada, dubbioso.
Daiki si limitò a sorridere maliziosamente e si sollevò con il busto, sdraiandosi in parte su di lui, baciandolo sulle labbra, esortandolo con le proprie a schiuderle per concedergli l’accesso. Yamada non si lamentò, fu ben lieto di accontentarlo, spingendo in fuori la lingua, partecipando attivamente al bacio, sospirando sulla bocca del più grande quando sentì le sue mani infilarsi sotto la maglia del pigiama, spostandosi poi verso i pantaloni, lasciandoli scendere lungo le cosce. Gli scappò un gemito quando le dita di Daiki si chiusero sulla sua erezione già sveglia, risultato sicuramente del sogno che l’aveva tanto sconvolto non solo mentalmente ma anche fisicamente.
Sorrise in modo lascivo e malizioso al ragazzo che aveva iniziato ad accarezzarlo e lo guardava un po’ con sfida, un po’ per gioco, leccandosi sensualmente le labbra, sollevandogli la maglia fino al collo e percorrendo con le labbra e con la punta della lingua ogni centimetro di pelle scoperta.
Yamada arcuò la schiena, abbassando le braccia, spingendole sulle spalle di Daiki suggerendogli di abbassarsi ulteriormente su di lui, cosa che il più grande stava già facendo. Con la bocca continuò a baciarlo in modo dolce, un ossimoro di sensi mentre stringeva con forza il suo sesso e con la mano libera era già dentro di lui, preparandolo con due dita. Ryosuke sospirò pesantemente, afferrando i capelli scuri del più grande quando questi lo prese completamente in bocca, iniziando a succhiare con avidità. Con un gioco di lingua e labbra lo stuzzicava, portandolo verso la follia; le dita erano aumentate di numero dentro di lui e Yamada sentiva il proprio corpo scottare, percorso da intensi brividi di piacere quando Daiki si scostò da lui, sollevandosi in ginocchio e afferrandogli una gamba, portandosene una sulla spalla e l’altra a cingergli il fianco, prima di penetrarlo con decisione, facendolo gridare.
Yamada urlò con quanto fiato aveva in gola, godendo di quelle intense sensazioni, del modo rude e violento con cui Daiki lo stava possedendo, senza l’accortezza e la gentilezza della notte precedente, ma non gli importava, era bello anche così, lasciarsi andare ogni tanto agli istinti più naturali e selvaggi.
Arioka si chinò su di lui, mentre spingeva nel corpo del più piccolo: riprese a stringere la sua erezione, usando il palmo e le dita per procurargli maggior piacere; il braccio libero risalì dalla schiena alla nuca, facendo forza per attirarlo verso di sé, protendendosi a baciarlo in modo irruento. Yamada schiuse le labbra, insinuò la lingua nella bocca di Arioka che l’accolse vogliosa, lottando con essa, mordendo e suggendo, seguendo l’istinto, lasciando da parte ogni pensiero razionale, facendosi guidare dai bisogni del corpo, fino a che entrambi raggiunsero l’orgasmo, in modo violento, ricadendo esausti sul materasso.
Non appena ripresero fiato, Daiki si risollevò a sedere, posandole spalle contro il muro, allungando un braccio verso il comodino per accendersi una sigaretta. Diede una prima boccata, trattenendo in gola il fumo, prima di rilasciarlo con un sospiro appagato, sentendo Yamada muoversi accanto a lui: il più piccolo gli posò una mano sulla coscia nuda, tirandosi a sedere accanto a lui, baciandolo sulla bocca, assaporando il gusto della nicotina, prendendogli dalle dita la sigaretta, portandosela poi alle labbra, lasciandosi osservare dal compagno.
“Ti odio quando fai così, Ryosuke” mormorò Daiki con voce impastata e il respiro nuovamente accelerato. Non era giusto che lo provocasse in quel modo sapendo che non avevano tempo.
“Perché?” gli chiese Yamada con un’espressione innocente, soffiando via il fumo sulle sue labbra, ridacchiando subito dopo, allontanandosi e voltandosi poggiando la schiena al suo petto. Poggiò la testa sulla spalla del più grande, tendendogli di nuovo il filtro che Daiki riprese a fumare in silenzio.
Il più grande circondò le spalle del ragazzo con un braccio, baciandogli la tempia; Yamada lo accarezzò con le mani, sollevando il capo.
“A che ora devi essere in centrale?” domando Ryosuke, voltando leggermente la testa.
Daiki chiuse per un istante gli occhi, spegnendo il mozzicone nel posacenere, sollevando una spalla facendo in modo che Yamada si scostasse per permettergli di alzarsi.
“Tra mezz’ora” considerò Daiki, guardando la sveglia, uscendo dal letto.
Yamada si lasciò andare di nuovo steso sul letto, pancia in giù, affondando la testa sul cuscino, voltando poi il viso da un lato, quando sentì un paio di labbra gentili posarsi sulla spalla nuda e la voce di Daiki divertita.
“Faresti bene a prepararti anche tu. Posso darti un passaggio a lavoro se fai presto” lo spronò, scompigliandogli i capelli e dirigendosi verso il bagno.
Yamada annuì con il capo, anche se l’altro ormai gli dava la schiena e non lo poteva vedere; sospirò assumendo un’espressione pensierosa, sentendo l’acqua della doccia iniziare a scorrere.

“Dai-chan!” la voce gentile di Inoo Kei lo risvegliò dai propri pensieri e Daiki si voltò verso di lui con sguardo spaesato.
“Scusa, non ti stavo ascoltando” ammise il più piccolo, prendendo i fogli che il collega più grande di tendeva, osservandoli con aria stranita.
Kei scosse il capo, guardando l’amico preoccupato, prendendo la poltroncina girevole da una scrivania vicina, sedendosi accanto a lui, fermandogli le mani.
“Dai-chan” lo riprese con tono educato ma serio. “Forse dovresti andare a casa a riposare. Continuo io qui” si offrì.
“No” Arioka scosse il capo. “Non devi preoccuparti! Oggi è anche il tuo giorno libero e io ti ho chiesto di venire a portarmi questi fascicoli. Torna pure a casa, hai fatto già abbastanza, davvero!” lo rassicurò con un sorriso.
“Hai una faccia sfatta” commentò l’altro, poggiando un gomito sulla scrivania, reggendosi la testa con la mano, osservando con fare critico il collega. “Perché non lasci che facciamo anche noi qualcosa, non devi sobbarcarti tutto tu” gli disse.
Daiki sorrise.
“Grazie, Kei-chan, ma non è necessario. Non sono stanco. O, meglio, sì, lo sono ma preferisco stare qui, a casa non riuscirei comunque a rilassarmi. Troppi pensieri.”
“Perché credi che stando qui a controllare e ricontrollare queste carte i tuoi pensieri scompaiano? Non fai che peggiorare le cose” rimarcò, la sua non era un’accusa, ma una semplice e lineare constatazione.
“Non lo faccio perché voglio fare lo spaccone” mormorò Daiki.
Kei si sollevò di nuovo dritto, dandogli un leggero scappellotto sulla nuca.
“Non l’ho mai pensato, né l’ho detto! Non farmi arrabbiare, Dai-chan!” lo rimproverò, mettendo su un piccolo broncio che fece immediatamente sorridere il più giovane.
“Lo so, lo so, scusa, sono semplicemente nervoso” si scusò. “Senti, davvero, non stare in pena per me, ti prometto che non appena avrò finito di controllare questi me ne andrò a casa e non ci penserò più fino a domani” promise.
“Sicuro?”
Daiki annuì: “Sì e, poi, se non torni subito a casa, Yabu si arrabbierà con me” scherzò.
Kei scosse il capo: “Ko lo sa che siamo amici” esordì, pronunciando con tono dolce il nome del compagno. “E, poi, il lavoro è lavoro. E questa era un’emergenza” gli ricordò, rimettendo a posto la sedia e prendendo la giacca dalla scrivania del collega. “Io vado, allora. Ci vediamo domani” lo salutò. Daiki annuì ricambiandolo con un sorriso, ringraziandolo per l’ultima volta, lasciandosi andare esausto contro la spalliera della poltroncina, scivolando indietro con le ruote, posando la testa sul bordo e chiudendo gli occhi.
Era stanco, davvero stanco, Kei aveva ragione. Ma quello che gli aveva detto era vero, se non si fosse concentrato sul lavoro, avrebbe finito con il pensare e non voleva farlo più, l’aveva fatto fin troppo, aveva sofferto abbastanza. Che fosse poi proprio per quel lavoro che stava in quelle condizioni, ormai era diventata una questione secondaria; tornò davanti alla scrivania, prendendo in mano i fogli che l’amico gli aveva consegnato, riordinandoli e pinzandoli. Li scorse velocemente, controllando che fosse tutto apposto, rileggendo per l’ennesima volta quelle righe che sapeva ormai a memoria: date ricorrenti, giorno mese anno, sempre gli stessi, tempi passati, lontani nel tempo, troppo vicini e vividi nella memoria. E ancora numeri, indirizzi di luoghi, nomi di importanti avvocati, esimi giudici. Un elenco di firme e timbri che si mescolavano sulla carta e nella sua mente insieme a ricordi e pensieri, fino a che non si decise a seguire il consiglio dell’amico e tornare a casa. Lo faceva di mala voglia, come ogni sera, quando si tratteneva il più possibile nel proprio ufficio, ma sapeva che non aveva senso scappare, non avrebbe mai potuto farlo e presto o tardi avrebbe dovuto fare ritorno.

“Dai-chan!”
La voce pimpante e allegra precedette la figura che poi si lanciò verso il ragazzo che allargò le braccia per tenersi in equilibrio.
“Buon compleanno, tesoro!” esclamò, scompigliando i capelli scuri della ragazza che gli regalò un bellissimo sorriso.
“Grazie!” rispose lei, prendendolo sottobraccio e indicando un bar in fondo alla strada.
“Aspettavi da molto?” chiese Daiki, lasciandosi scortare. “Purtroppo sono rimasto ingarbugliato nel traffico” si scusò.
“Non da tantissimo e poi avevo letto la tua mail. Ho approfittato per fare le ultime spese per stasera!” gli disse entusiasta, mostrandogli una busta di carta.
Daiki sorrise, scostandole galantemente la sedia, facendola accomodare, andando a ordinare da bere.
“Non pagare, oggi è il mio compleanno, offro io!” gli ricordò lei, ma Daiki ebbe subito da ribattere.
“È il tuo compleanno e oggi devi lasciare che siano gli altri a coccolarti.”
“Tu mi vizi ogni giorno, Dai-chan!”
Il ragazzo sorrise, ringraziando il barista che gli porse il vassoio con le loro bibite e qualche stuzzichino che Daiki poi portò al loro tavolo.
Si abbassò per posare un bacio tra i capelli della ragazza, prendendo posto davanti a lei.
“Buon compleanno!” brindarono insieme, facendo scontrare i bicchieri smuovendo il ghiaccio dentro le bevande.
“Grazie, fratellino!” mormorò lei, prendendo un primo sorso.
“Sei emozionata?” chiese Daiki, osservando l’espressione sul volto della sorella minore. Non la vedeva così radiosa e serena da diverso tempo e ne fu felice.
“Un po’ sì. A dire il vero sono anche un pochino in ansia per questo incontro” ammise.
Daiki rise.
“Andiamo, di cosa hai paura?” la prese bonariamente in giro. “Non sono di certo uno di quei fratelli che incutono timore, anzi, sono io quello a partire svantaggiato. Non so assolutamente niente di questo ragazzo, mentre lui scommetto che sa tutto di me!”
“Ovvio che ti conosce. Io parlo sempre del mio bellissimo e bravissimo fratellone” rise.
“Messa in questo modo non suona molto bene lo sai?” scherzò il più grande.
La ragazza rise.
“Mmm, forse un po’, ma non mi interessa. Tu sei tutta la mia famiglia, Dai-chan, il tuo parere per me conta tantissimo e anche le persone attorno a me ti dovranno adorare, anzi, sono certa che gli piacerai subito.”
“Tu sei troppo di parte, ma a ogni modo voglio sapere che gli hai detto. Anzi, dammi qualche indizio su di lui, non so neanche come si chiama e sono ormai sette mesi che vi frequentate!” le ricordò.
La sorella mosse l’indice per aria, divertita.
“Appunto per questo oggi voglio presentartelo. Sai… mi piace veramente tanto e” attese, fermandosi un istante prima di arrossire. “Mi piacerebbe che ci dessi la tua benedizione, sai, per un futuro. Lo so” si affrettò a spiegare prima che l’altro potesse interromperla. “Lo so che c’è ancora tempo per pensare a queste cose, che sono giovane e devo ancora finire l’università. Non ho intenzione di abbandonare gli studi, ma ho iniziato a pensare al mio futuro seriamente e, insomma, penso davvero di aver trovato la persona giusta per me.”

**

“Kei-chan?”
Yabu si chinò leggermente, baciando la spalla scoperta, soffiando via il fumo della sigaretta. Inoo si voltò appena con il capo, sentendo la mano del più grande passare sulla sua schiena in una carezza.
“Mh?” chiese con un sorriso, stiracchiandosi e spostandosi sul letto, usando la gamba di Yabu come cuscino.
“Che hai?” chiese il più grande, accarezzandogli i capelli con fare dolce.
“Eh? Niente, Kota” negò abbozzando un sorriso, tirando fuori la mano da sotto il lenzuolo, passandola in modo circolare sul ginocchio del fidanzato, come se volesse in quel modo tranquillizzarlo.
Il più grande diede un’altra aspirata alla sigaretta, prima di spegnerla sul piattino argentato posto sul comodino.
“Kei” lo riprese, stavolta senza usare nessun suffisso, guardandolo negli occhi.
L’altro sospirò, fuggendo il suo sguardo, abbracciandolo in vita, nascondendo il volto contro il fianco, inspirando a pieni polmoni l’odore tipico della sua pelle mischiato a quello penetrante del tabacco, prima di allontanarsi nuovamente. Si mise lentamente in piedi, baciandogli la clavicola e sistemandosi con le spalle contro il muro, portandosi le ginocchia al petto.
“Non posso nasconderti niente, vero?” scherzò, incurvando appena le labbra, guardandolo da sotto in su. Yabu lo attirò contro di sé, lasciando un bacio tra i capelli scuri, riprendendo ad accarezzarlo sulla nuca con le dita.
“Ti conosco da troppi anni, ormai. Non sarei credibile come fidanzato se non mi accorgessi quando qualcosa ti turba anche se tu ti ostini a volerti tenere tutto dentro” lo rimproverò.
Kei sorrise, scuotendo il capo.
“Scusa, Ko.”
“Di cosa?”
“Perché ti faccio preoccupare” gli spiegò l’altro e Yabu gli tirò leggermente i capelli.
“Finiscila, sai che non è questo il punto. Io, semplicemente, non voglio che tu stia male. Voglio che mi parli, sai che mi puoi parlare di qualsiasi cosa, no?” gli ricordò.
Il più piccolo annuì, distendendo nuovamente le labbra, muovendo i piedi e guardando l’effetto di onde che producevano sulle lenzuola.
“Si tratta di Dai-chan” ammise Inoo e Yabu capii immediatamente la situazione.
“Ti ha detto qualcosa questo pomeriggio?” si informò.
“No. Come al solito non dice niente, non ne vuole parlare e fa finta che la cosa non lo riguardi o, meglio, che sia un caso come un altro, quando non è così” disse accorato e Yabu lo sentì irrigidirsi nel suo abbraccio. “Non vuole lasciar stare, Ko. E io non posso fare niente per impedirgli di soffrire” ammise la propria frustrazione. “Vorrei poter fare di più per lui, vorrei che si lasciasse aiutare e che capisse che non è solo, che con me può parlare.”
“Ma lui lo sa che ci sei” lo rassicurò Yabu.
Kei sollevò di scatto il capo per guardarlo.
“E allora perché non si lascia aiutare?” gli chiese, poggiandogli una mano sul petto e Yabu comprese quanto il fidanzato si sentisse impotente in quel momento.
Scosse il capo, storcendo appena la bocca, poggiandogli una mano sulla spalla per farlo calmare.
“È difficile da dire, Kei-chan. Noi non possiamo capire il dolore che Daiki sta provando adesso” cercò di spiegargli.
“Perché doveva succedere tutto questo a lui? Non ha già provato abbastanza dolore?” domandò, ma non si stava rivolgendo a Yabu, sapeva che lui non aveva le risposte alle sue domande.
Si calmò, tornando a sedersi, afferrando il lenzuolo con entrambe le mani, stringendo il bordo. Yabu, in silenzio, attese che raccogliesse i pensieri, non poteva fare nulla per lui, se non stare ad ascoltarlo, lasciare che si sfogasse in qualche modo. Sapeva che, in una situazione differente, Kei sarebbe andato da Daiki a dirgli quello che pensava realmente, ma non poteva farlo in quella circostanza, perché rispettava l’amico, le sue scelte e il suo dolore.
Prese un’altra sigaretta dal pacchetto, accendendola e lasciando andare la prima boccata di fumo; per quanto Kei non fumasse non gli dava noia che lui lo facesse, anzi, una volta gli aveva anche confessato che stare accanto a lui mentre fumava lo rilassava; era davvero una persona strana il suo Kei-chan, ma Yabu lo amava anche per quelle particolarità.
“Non è vero che non posso capire” lo sentì mormorare.
“Mh?” Yabu lo guardò e Kei sollevò a sua volta gli occhi su di lui.
“Hai detto che non posso capire il dolore di Daiki” ripeté.
“Kei…”
“No, aspetta… lo so. So che non ho mai perso qualcuno di importante nella mia vita e non lo vorrei mai, però io posso comprendere il suo dolore, Ko. Io ero con lui quella sera. Io l’ho visto, ho visto, ho sentito il suo dolore. Ho pianto con lui” ricordò, sentendo improvvisamente gli occhi diventare lucidi e il cuore pesante, come quella volta. “È a me che ha chiesto aiuto. È a me che ha stretto la mano, è contro la mia maglia che ha pianto e ha urlato tutto il suo dolore, quindi io lo posso capire. Credimi, Kota, io ho sentito sulla mia pelle e nella mia anima quel dolore, quel cuore che andava in pezzi e sanguinava” spiegò.
Yabu tacque, continuò a fumare lentamente, fino a che non arrivò alla fine del mozzicone e lo spense nuovamente.
“Non mi hai mai parlato di quella sera” gli disse poi con calma e Kei lo guardò stranito.
Yabu sorrise, accarezzandoli il viso con una mano.
“Se ti fa stare meglio dividere con me parte di questo fardello, io sono qui per te” gli ricordò.
Kei annuì, prendendo il braccio del fidanzato, usandolo per avvolgerselo attorno alle spalle, per sentirlo più vicino.
“Due anni fa, io e Daiki stavamo rientrando dalla centrale: avevamo finito tardi, anche se avevamo chiesto un permesso quella sera, non abbiamo potuto fare altrimenti. Era il compleanno della sorella di Daiki. Sarebbe dovuta essere una serata importante, Daiki avrebbe finalmente conosciuto il ragazzo con cui la sorella stava uscendo da sette mesi” iniziò a spiegare, facendo di tanto in tanto delle pause.
“Dato il ritardo, Daiki ha più volte cercato di contattare la sorella, ma il telefono risultava spento. Lì per lì non ci siamo preoccupati più di tanto pensando che fosse impegnata a sistemare, ma quando siamo arrivati a casa, le luci erano completamente spente; Daiki stava già pensando che non avrebbe voluto vedere la sorella in atteggiamenti compromettenti con il suo fidanzato, ma non avremmo mai immaginato…” si interruppe, stringendo le dita delle mani di Yabu.
“Kei?”
Il ragazzo lo attirò contro di sé, baciandogli la tempia: se era così doloroso per lui parlarne, non voleva che continuasse, ma Kei scosse il capo, proseguendo.
“E lei era lì… la sala addobbata a festa e l’abbiamo trovata sul pavimento, riversa in un mare di sangue. Daiki si è gettato su di lei, ha cercato di rianimarla, la scuoteva, la strattonava chiamandola, ma lei era morta e…” iniziò a piangere, allontanandosi da Yabu che lo guardò apprensivo, cercando di farlo calmare.
“Ho fatto il giro della casa, mentre chiamavo l’ambulanza e in centrale, ma non c’era nessuno. Nessuna effrazione, non era stato rubato niente e… c’era solo lei lì, l’abito bianco sporco di sangue, priva di vita” continuò ancora, portandosi le mani sulla testa, sollevando le ginocchia al petto.
“Quel bastardo! Come ha potuto fare questo, come… perché?” domandò
“Kei… calmati” Yabu gli mise una mano sulla spalla e Kei lo allontanò di scatto.
“No, Ko, no! Non mi voglio calmare! Io sono stanco di essere sempre quello controllato. Io… se fosse per me lo ucciderei con le mie stesse mani quel figlio di-”
Uno schiaffo sulla guancia impedì a Kei di continuare la frase, permettendogli di riacquistare lucidità.
“Ko” chiamò il ragazzo, portandosi una mano alla parte colpita. “Mi… mi dispiace. Io non so cosa mi sia successo, io…”
Yabu si avvicinò a lui, stringendolo e Kei si abbandonò contro il suo petto.
“Sssh, calmati Kei, tranquillo è passato, mi dispiace di averti chiesto di parlare, non volevo.”
Kei scosse il capo, fregando la guancia sulla sua spalla.
“Lo odio, lo odio così tanto. Io so che non dovrei, perché Daiki sta soffrendo, ma sono contento che venga giustiziato. Io… è la sua giusta punizione. Come… come abbiamo fatto a non accorgercene in tutto questo tempo? Come abbiamo fatto a non cogliere subito gli indizi? Era così palese” si indignò con se stesso e Yabu non sapeva come fare per tranquillizzarlo, per aiutarlo a superare tutta quella sua rabbia.
Lo cullò allora, limitandosi a coccolarlo, fino a che Kei non si calmò e socchiudendo gli occhi, si appisolò.

*

Daiki entrò nel locale, venendo immediatamente assordato dalla musica alta e investito dalla folla di ragazzi che ballavano al centro della pista, ridendo e tenendo alti i bicchieri con le loro ordinazioni. Si spostò verso il bancone, individuando un posto libero e sedendosi, richiamando l’attenzione del barista con un cenno della mano.
Il ragazzo, un giovane di circa venticinque anni si accostò a lui, chinandosi leggermente.
“È pronto per ordinare?” sorrise, mentre sistemava il sottobicchiere e la tazza di vetro, lasciando cadere dentro alcuni cubetti di ghiaccio.
“Il solito, grazie” sorrise a sua volta Daiki e il barista preparò velocemente un Batiste.
“Prego.”
Il ragazzo sporse verso di lui il bicchiere, sfiorando con le dita quelle del cliente, sorridendogli. Daiki mosse le proprie, ma il ragazzo si scostò velocemente richiamato da qualcuno. Arioka lo seguì con lo sguardo, vedendolo annuire e sorridere, prima di spostarsi al centro della sala, facendosi spazio tra la folla, salendo sul cubo centrale.
Daiki si voltò completamente sulla seggiola, poggiando i gomiti al bancone, sorseggiando piano il suo cocktail: era arrivato giusto in tempo per lo spettacolo settimanale di Yamada.
Era da un po’ di tempo che Daiki frequentava assiduamente quel pub la sera, dopo il lavoro, quando era troppo stanco per tornare a casa e richiudersi nella propria solitudine di pensieri. Non credeva che sarebbe mai riuscito a riprendere in mano la propria vita in quel modo, ma pian piano si stava risollevando e questo lo doveva anche e soprattutto a quel ragazzo conosciuto per caso in quel locale e che lavorava lì per pagarsi le tasse universitarie.
Sorrise, mentre lo osservava ballare e catalizzare totalmente su di sé l’attenzione dei presenti, prima che anche gli altri ragazzi iniziassero a ballare, seguendo il ritmo della musica, spesso imitando la coreografia del ragazzo.
A fine spettacolo, Yamada saltò giù dal cubo, sollevandosi il cappuccio della felpa, stringendo mani e salutando affabile alcuni dei clienti che conosceva, fermandosi a scambiare quattro parole con ognuno di loro, prima di tornare alla propria postazione.
Passò davanti a Daiki e gli lanciò uno sguardo eloquente, sfiorandogli il ginocchio e venendo intercettato dal più grande che lo attirò a sé, imprigionandolo tra le proprie gambe.
“Ah, ehi!” lo ammonì Yamada divertito, posando le mani sulle sue cosce.
“Bello spettacolo!” si complimentò Daiki, prendendo un sorso del proprio cocktail, tendendo il bicchiere al giovane che però scosse il capo.
“Non posso durante il lavoro” declinò gentilmente.
“A che ora stacchi?” mormorò Arioka, aprendo le gambe, per lasciarlo scivolare via se avesse voluto, ma Yamada rimase fermo, passandogli una mano sulla coscia.
“Fino alle due siamo aperti, poi devo pulire” disse.
“Ti aspetto” sorrise Arioka e Yamada lo guardò sorpreso, ridacchiando.
“Ma mancano ancora due ore! E non so quanto ci metto.”
Arioka si strinse nelle spalle.
“Se non vuoi…”
“Non ho detto questo” lo precedette l’altro, fermandolo, portandogli una mano sul fianco, allontanandola subito.
“Allora sto qui, mi trovi fuori ala chiusura” spiegò, lasciandolo tornare al proprio lavoro.
E come promesso, due ore dopo, Yamada, che aveva fatto di tutto per finire il prima possibile di lavorare, trovò Daiki ad aspettarlo fuori dal pub, accovacciato sulle gambe sul marciapiede di fronte; stava fumando una sigaretta e osservava stranito il cielo.
“Pensi che verrà a piovere?” gli chiese, per attirare la sua attenzione e Arioka si voltò in direzione della voce.
“Spero di no, anche perché sono a piedi.”
“Anche io” affermò Yamada, sistemandosi meglio la borsa sulla spalla, avvicinandosi a lui.
Arioka si sollevò, spegnendo la sigaretta sotto la suola della scarpa, allungando un braccio e prendendo il polso di Yamada, attirandolo a sé.
“Mi hai aspettato sul serio. Ti sarai annoiato a morte.”
Arioka scosse il capo.
“Non avevo altri impegni” spiegò.
“Devo piacerti tanto allora o sei una persona poco occupata.”
“Sono un poliziotto, lo sai, la mia vita è un continuo imprevisto. Oggi ci sono, domani chi lo sa. Potrei non riuscire a tenere fede alle promesse che faccio, ma non dipenderebbe da me. E tu? Esci con tutti i clienti che te lo domandano? O io sono speciale?”
Yamada sorrise, avvicinandosi a lui di un passo, passandogli una mano sul braccio, accarezzandolo pigramente.
“No, sono una persona molto esigente e tu dovresti saperlo, Dai-chan” mormorò con voce bassa, facendo sorridere l’altro che allungò l’altro braccio, facendoglielo passare dietro la schiena, attirandolo a sé.
“È la prima volta che mi chiami così” sussurrò a sua volta, avvicinandosi a lui, piegando il capo con l’intento di baciarlo.
Yamada si tese verso di lui, schiudendo le labbra e abbassando le palpebre, ma riaprendoli immediatamente quando sentì una pioggia fitta e improvvisa cadere dal cielo, interrompendoli.
“Tempismo perfetto” commentò divertito Daiki, con voce appena arrochita, leccandosi le labbra.
“Andiamo” suggerì Yamada prendendolo per mano e correndo sotto la pioggia insieme.
Si chiusero la porta alle spalle e Yamada fece accomodare il proprio ospite.
“Scusa il disordine, Dai-chan, stamani sono uscito di fretta” gli disse, cercando di riassettare i vestiti che aveva lasciato sparsi per la camera.
“Non ti preoccupare. Anzi, mi dispiace disturbarti.”
“Che dici? Eravamo qui a due passi. Siamo stati fortunati. Non ci voleva proprio questa pioggia. Solo che… è un po’ piccola” disse, chiudendo i propri panni in una cesta e guardandosi attorno alla ricerca si altre cose da mettere a posto.
Daiki scosse il capo, osservando il bilocale dove viveva Yamada, composto da una grande stanza che faceva da ingresso e camera da letto e altre due porte a scomparsa dove individuò il bagno, nel quale Yamada era entrato, e la cucina.
“Tieni.”
Il padrone di casa tese al più grande un asciugamano e Daiki se lo passò sul collo e sulla testa, frizionando i capelli.
“Vuoi farti una doccia?” domandò gentilmente e Arioka scosse il capo.
“No, grazie, non sono tanto bagnato. Tu, però se ti vuoi sistemare, fai pure” gli disse, non volendo intralciarlo, in fondo aveva appena smontato da lavoro, una doccia l’aveva meritata.
“Faccio in un attimo” annuì il più piccolo, sparendo momentaneamente nel bagno.
Daiki si sedette sul letto, osservando l’arredamento intorno; era semplice, come ricordava fosse Ryosuke, un po’ disordinato, forse, ma facilmente comprensibile.
Yamada tornò pochi istanti dopo, asciugandosi il viso e le spalle scoperte dalla canotta.
“Hai fatto presto” lo accolse Daiki, sorridendo.
“Beh, mi aspettavi…” sorrise Yamada, prendendo posto accanto a lui, sul bordo del letto, allungando una mano, spostandogli l’asciugamano che l’altro ancora teneva sulla testa, prendendogli poi una ciocca di capelli tra le dita, osservandola incantato.
“Stavi bene con i capelli scuri… li hai tinti” commentò, passandovi le dita, intrecciandoli.
Daiki chiuse gli occhi, sentendo dei sottili brividi nascere sottopelle e sorrise.
“Volevo cambiare un po’… ma mi hai riconosciuto lo stesso.”
“È passato tanto tempo, non mi aspettavo di rincontrarti, Dai-chan, ma quando sei venuto nel locale la prima volta ho subito capito che eri tu.”
Daiki posò la fronte contro quella di Yamada, accarezzandogli una spalla, scendendo sul muscolo del braccio, chinandosi appena a posare le labbra su quella pelle fresca.
“Devo confessarti una cosa” bisbigliò, risalendo sul collo, sentendo Yamada chinare il capo per assecondare i suoi movimenti, spostandosi su una guancia e verso la bocca.
Yamada schiuse le labbra, cercando quelle di Daiki il quale si concesse per un istante, allontanandosi subito, dispettoso.
“Sono sempre stato innamorato di te, ma non sono mai riuscito a dirtelo” ammise.
Yamada spalancò gli occhi, posandogli una mano sulla guancia, risalendo verso l’orecchio.
“Siamo due idioti allora o forse eravamo troppo piccoli e inesperti per dare il giusto peso alle cose” rise, sospirando poi, sentendo il respiro di Daiki sul proprio viso. “Anche io ero innamorato di te quando ero un moccioso” scherzò, rivelandosi.
“Perché non riprendiamo da dove siamo rimasti, allora?” propose Arioka, lasciando risalire una mano sotto la canotta e sfilandogliela completamente.
“Direi che abbiamo tergiversato anche abbastanza” decise Ryosuke, stringendo le braccia attorno al collo del più grande e riuscendo finalmente a baciarlo.
Con le spalle poggiate contro il muro,Daiki aveva sollevato il volto, rincorrendo quello di Yamada e scendendo sul collo, mentre con una mano lo preparava, sentendo i suoi gemiti invadere la stanza. Il più piccolo gli stringeva le braccia al collo, scivolando con le mani sulla schiena, aggrappandosi alle sue scapole quando lo sentì entrare in lui con lentezza.
Avrebbe voluto che lo prendesse subito, senza attenzione, ma era così appagante e piacevole sentirlo scivolare dentro di lui centimetro dopo centimetro, mentre con le mani lo accarezzava ovunque, con la bocca lo distraeva, mordendo e leccandogli la pelle, stringendo il suo sesso con forza, muovendosi su di lui con rude dolcezza, fino a che non lo penetrò completamente e Yamada si ritrovò seduto su di lui.
Solo allora emise un lungo ansimo, cercando la bocca di Daiki, il quale attese prima di iniziare a spingersi dentro di lui, lasciando che si sollevasse e si lasciasse ricadere, seguendo l’istinto. Yamada strinse la mano di Daiki posata sul proprio fianco, accarezzandogli il polso e fino al gomito, mentre continuava a muoversi su di lui. E gemeva, sentendo l’altro rispondere con mugolii di piacere sempre più soddisfatti, prima di sciogliersi nella sua presa e sentire poco dopo Daiki raggiungere l’orgasmo dentro di lui.
Chinò la testa sulla sua spalla, riprendendo fiato, sollevandosi e permettendo a Daiki di sfilarsi dal suo corpo, tornando a sedersi tra le sue gambe, lasciandosi stringere e abbracciare.
“Non sai quante volte l’ho sognato” ammise Ryosuke, baciandogli il collo, sollevando poi il viso per guardarlo.
“Io di più” lo corresse il più grande.
“Aaah, ma dai” lo pungolò Yamada. “Sono serio.”
“Anche io, cosa credi” gli disse, prendendogli il mento con una mano, baciandolo piano.
Si stesero insieme nel letto di Ryosuke, restando abbracciati, finendo per addormentarsi.

**

Aveva seguito il consiglio di Kei ed era rientrato a casa, ma anche lì il pensiero del proprio lavoro, di quello che sarebbe successo il giorno dopo non lo lasciava libero.
E si chiese per l’ennesima volta come avrebbe fatto, una volta che tutto quello avesse avuto fine, a portare avanti la propria vita in modo sereno.
Aprì il frigo, prese una bottiglietta d’acqua e si spostò sul divano, dove da diverse sere ormai dormiva: non era più riuscito a farlo nel proprio letto, neanche per quel poco di ore che riusciva ad appisolarsi. Non aveva fame e si stava trascurando non poco; Kei si preoccupava per lui, ma Daiki non riusciva a uscire da quel circolo vizioso nel quale era caduto. Continuava a rivivere quei momenti, i suoi superiori gli mettevano pressione e avevano tentato di allontanarlo dal caso perché troppo coinvolto: ed era vero, era consapevole che in altre circostanze sarebbe stato immediatamente rimosso, ma lui non aveva voluto sapere di farlo, lui doveva continuare a lavorare a quel caso, a maggior ragione adesso che sapeva finalmente la verità.
Aveva lavorato tanto, aveva sofferto il doppio e anche se mai avrebbe immaginato quell’epilogo, non poteva mollare, sarebbe andato fino in fondo, fino alla fine.
Prese le carte dal tavolino e si sedette sul divano, raccogliendo le gambe al petto, osservando per l’ennesima volta le fotografie di quelle ragazze brutalmente uccise da quell’assassino senza cuore.
E in ognuna di loro, rivedeva la stessa sorte della propria sorella, strappata al mondo a soli vent’anni. Rivedeva il suo sorriso mentre, entusiasta, gli raccontava le sue giornate, di come fosse attaccata alla vita e dei suoi progetti futuri; aveva sempre desiderato avere una famiglia, una famiglia vera, aveva tanto amore da dare la sua sorellina, quell’amore che non aveva potuto ricevere dai genitori che li avevano lasciati soli troppo presto a causa di un terribile incidente.
Daiki credeva che, da quella perdita, non si sarebbe mai ripreso, che il suo cuore sarebbe stato troppo incline all’odio e alla vendetta e, invece, aveva trovato qualcuno che aveva pian piano aperto di nuovo le porte del proprio cuore e quella stessa persona, adesso, era stata la causa della sua ricaduta.
Lanciò i fogli per terra, con stizza, chinando il capo tra le ginocchia; aveva voglia di piangere, sentiva il cuore stretto in una dolorosa morsa, schiacciato dal peso del tradimento e della menzogna.
Si era illuso, si era fatto raggirare e prendere in giro, aveva offeso doppiamente la memoria della sorella; e non riusciva a perdonarsi, perché, nonostante tutto il dolore che aveva provato e che stava provando, continuava ad amarlo e si sentiva colpevole perché quel sentimento era sempre più forte, più forte anche dell’odio che aveva sempre provato per l’assassino di sua sorella.

“Cosa significa?”
Daiki osservava le foto sparse in terra che accidentalmente gli erano cadute dallo scatolone.
Nonostante Yamada si fosse trasferito a casa di Daiki da quindici giorni ormai, vi erano ancora delle scatole che non avevano sistemato, perché erano stati troppo occupati, troppo presi l’uno dall’altro e da quella nuova avventura che avevano deciso di intraprendere insieme.
“Daiki” lo aveva chiamato Yamada, cadendo in ginocchio per terra, accanto a lui, vedendo che raccoglieva una dopo l’altra gli scatti delle polaroid che immortalavano un viso sorridente che Daiki conosceva fin troppo bene, perché i tratti erano simili ai suoi, troppo uguali per essere scambiati per ciò che non erano.
“Questa… cosa ci fai con le foto di mia sorella?” gli chiese prendendole in mano passandole in visione, una dopo l’altra: raffiguravano dei primi piani, delle foto in posa davanti a dei monumenti, città del Giappone nelle quali la sorella gli aveva raccontato di essere stata. Rivisse in un istante tutti quei resoconti, risentì la sua voce dolce e allegra parlare e renderlo partecipe di quei giorni fantastici, come era solita definirli.
Spostò la mano sul pavimento, trovandone altre che raffiguravano la ragazza insieme a qualcuno, a un ragazzo, quel ragazzo che per lui era sempre stato un mistero e che adesso, invece aveva un volto aveva un nome e un cognome ed era sempre stato là, a contatto con lui.
“Tu… tu stavi con mia sorella!” affermò con tono atono, senza guardarlo, lasciando andare quelle immagini patinate, prendendo una busta gialla rimasta nella scatola e rimanendo inorridito nel vedere un altro tipo di scatti, un altro tipo di immagini catturate.
“No…” mormorò. “No…” ripeté.
Non voleva crederci: quei volti, quei visi che parevano addormentati, quei corpi avvolti nel sangue che a lungo avevano tormentato con incubi la sua mente erano di nuovo davanti ai suoi occhi, prova della follia e di un amore malsano.
“Sei stato tu…” esalò.
“Dai-chan, lasciami spiegare” Yamada aveva cercato di parlare, ma l’altro l’aveva fermato, saltandogli al collo, mandandolo disteso per terra, sedendosi su di lui, iniziando a colpirlo.
“Cosa mi vorresti spiegare?” gli urlò. “Per tutto questo tempo tu… tu mi hai ingannato e” rise, isterico. “Hai detto di amarmi, hai ascoltato la mia storia, hai… ho pianto davanti a te, vomitandoti il mio rancore per quel mostro che mi aveva privato della mia unica famiglia, del mio tesoro più prezioso e hai taciuto. Sei uno sporco malato assassino. Hai tenuto queste prove e io… maledizione! Io non mi sono mai accorto di niente! Come ho potuto?” continuò a sfogarsi, colpendo forte il viso di Yamada, stringendogli le mani al collo, prima di colpirlo con forza, facendogli sbattere la testa al pavimento.

*

“Ha solo dieci minuti” lo avvisò la guardia facendolo passare.
“Come sempre, lo so” rispose Chinen, passando oltre, avanzando nel lungo corridoio, individuando la cella dell’amico.
“Ryo…” chiamò, avvicinandosi alle sbarre, vedendo l’altro muoversi sul piccolo lettino e voltarsi, prima di sedersi e sorridergli.
Yamada si alzò, avvicinandosi e salutando l’amico.
“Chii, sei venuto anche oggi” si sorprese. “Ti ho detto di non preoccuparti per me, non è necessario” si interruppe, vedendo l’espressione che comparve sul volto del più piccolo. “Cosa è successo?”
“Io… ho fatto del mio meglio, Ryo, ma…”
Yamada sorrise.
“È stato deciso?” chiese, sebbene fosse già consapevole di quale sarebbe stata la risposta.
Chinen annuì, il momento era arrivato.
“Quando?”
“Sono qui per aiutarti a preparare… tra un’ora” gli comunicò, come voleva la prassi.
Yamada sentì il proprio cuore mancare un battito.
Un’ora.
Sessanta minuti.
Quando potevano passare veloci quegli interminabili secondi?
Quando potevano passare lentamente?
Annuì, senza trovare la forza di dire nulla a parte mormorare un laconico ringraziamento.
“Yuri, ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me. Anche se non me lo meritavo.”
E Chinen lo guardò a sua volta con occhi lucidi, vedendo che Ryosuke sfuggiva il suo sguardo.
“Non ho fatto niente, non sono riuscito a salvarti” gli disse, cercando di far tremare la propria voce il meno possibile.
Doveva essere forte.
“Non avresti potuto fare nulla. Nessuno può fare nulla per me. Anzi, mi dispiace per il tempo che hai perso” gli disse.
Chinen scosse il capo, vedendolo allontanarsi, sinonimo del fatto che non avevano più nulla da dire.
“L’hai visto?” gli chiese solo. “Non… non vuoi vederlo per l’ultima volta?”
Yamada scosse il capo.
“No… non lo merito, non sono mai stato degno di rapportarmi con lui. Io l’ho ferito e ingannato. E quel che è peggio è che l’ho amato davvero e anche ora continuo ad amarlo con tutto me stesso” confessò, andando al lavello per sciacquarsi il viso.

*

La porta della cella si aprì e Yamada, con ai polsi le manette, uscì piano scortato da quattro guardie, due lo precedevano e due camminavano dietro di lui.
Percorse per l’ultima volta quel lungo corridoio, attraversando l’intero edificio, scendendo a piedi quei tre piani che conducevano al cortile interno dove trovò ad attenderlo poche persone: Il giudice che l’aveva condannato a quella sorte, alcune guardie, Chinen che gli era stato affianco in tutti quei mesi, sostenendolo quando non c’era nulla per cui valesse la pena lottare; che aveva ascoltato i suoi sfoghi e aveva visto le sue lacrime, le uniche che aveva versato per se stesso, perché aveva perso la cosa più preziosa che avesse al mondo.
E lì tra loro c’era anche lui, Daiki che lo osservava avanzare in silenzio, tra le quattro guardie: stava lì, in prima fila, accanto al capo della polizia che aveva firmato le carte per la propria condanna.
Lo guardava e paradossalmente il suo viso non gli era sembrato più bello come in quel momento, i suoi occhi intensi, quegli stessi occhi che fino a pochi mesi prima lo guardavano con amore.
Si dice che quando si sta per morire, si ripercorrano in un istante i momenti più belli della propria vita e le ultime immagini che Ryosuke vedeva erano quegli istanti passati con Daiki; il loro primo incontro al pub dove lui lavorava, un incontro casuale, voluto dal Destino.
Quei loro primi appuntamenti, nati quando Daiki si tratteneva con lui dopo il lavoro e bevevano qualcosa insieme, prima che chiudesse.
Poi quel giorno di pioggia in cui si erano ritrovati a casa sua e avevano fatto l’amore, dopo essersi confessati che, per anni, avevano taciuto i rispettivi sentimenti.
Ricordava ogni cosa, Yamada, ogni sensazione e anche l’emozione che aveva provato quando Daiki gli aveva detto di amarlo e gli aveva proposto di andare a vivere insieme.
“Ryosuke, tu mi hai salvato. Ti amo” aveva mormorato al suo orecchio, mentre lo stringeva, mentre il profumo della sua pelle e il calore del suo corpo erano ancora vivi sulla propria.
Troppe volte Yamada aveva pensato di andare a costituirsi, ogni volta che Daiki gli diceva di amarlo, ogni volta che gli diceva che persona splendida fosse, Yamada si sentiva inadeguato, ma non poteva farlo, non poteva confessare i propri crimini, perché in quel modo l’avrebbe perso per sempre.
Sollevò lo sguardo quando si fermarono e osservò la pedana che l’attendeva, il cappio che penzolava al centro della palco. Salì da solo, consapevole della sorte che l’attendeva, avvicinandosi al boia.
Chinò appena la testa, permettendo che gli infilasse la corda e la stringesse; teneva le mani legate dietro la schiena e guardava fisso davanti a sé.
“Non lo vuoi vedere?” gli aveva chiesto Chinen prima di andarsene e lui non aveva voluto. Non gli parlava da quel giorno, dal giorno in cui Daiki aveva scoperto tutto e l’aveva picchiato, sfogando su di lui tutta la sua rabbia.
Non voleva che fosse lì, non voleva che lo vedesse, ma forse era quello che si meritava, era così che dovevano andare le cose.
Fece un profondo respiro, il cuore che gli rimbombava nelle orecchie e tenne gli occhi fissi su Daiki; sapeva di non meritarlo, sapeva che non aveva alcun diritto di guardarlo, ma non voleva privarsene, era sua l’immagine che voleva avere davanti agli occhi prima di morire.
Sentì la corda tendersi un istante, un cappuccio bianco calato sulla testa e sorrise, mentre il buio attorno a lui l’avvolgeva e il proprio corpo e il proprio cuore, precipitavano nel vuoto.

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