Fandom: Sherlock Holmes.
Pairing: Holmes/Watson.
Rating: NC17.
Beta:
koorime_yu (ancora lei, povera martire XD).
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo, Romantico.
Warning: Movieverse, Slash, Sesso descrittivo.
Words: 2429 (
fiumidiparole ).
Summary: Una notte di neve, una partita a carte e un bicchiere di troppo.
Note: Scritta sul prompt Strip - poker d’azzardo del
P0rn Fest #4 di
fanfic_italia , per la
Sfida aperta lanciatami da
queenseptienna ; sul prompt 07 - Forza del
Set8 di
10disneyfic e sul prompt 07. Vestaglia della
221B Baker Street Table di
holmes_ita (la mia tabella
QUI).
DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.
Febbraio 1888
I cuori non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno di infrangibili.¹
La neve tingeva di bianco il grigiore di Londra. Imperturbabile, cadeva con assiduità da un giorno intero e aveva ormai ricoperto le strade, al punto che era impossibile uscire di casa.
In quei giorni, mia moglie Mary si trovava in campagna, presso una sua cugina malata, per assisterla. Io, invece, ero tornato in Baker Street, per approfittare della compagnia del mio amico e collega Sherlock Holmes.
La mia stanza all’ultimo piano del 221B era esattamente come l’avevo lasciata e, riportando lì alcuni miei effetti, accolto dal sorriso gentile di Mrs. Hudson, provai più nostalgia di quanto avessi mai immaginato. Non credevo che, dopo soli tre mesi, quella dimora ed i suoi inquilini mi sarebbero mancati tanto.
Dato che il tempo impietoso non permetteva altrimenti, Holmes ed io stavamo trascorrendo la serata in casa. Dopo una cena luculliana ed un bicchiere di brandy, ci accomodammo nelle poltrone di fronte al camino.
Quel giorno il mio amico era più silenzioso del solito, sembrava avere la testa da tutt’altra parte e poca voglia di condividere i suoi pensieri con me, quindi - non essendo mia abitudine forzarlo - a quel bicchiere di liquore ne seguirono alcuni altri.
«Sembra che oggi la mia compagnia non sia di suo gradimento» osservai, riscuotendo Holmes dal suo insistente studio delle fiamme nel camino.
Lui si tolse la pipa di bocca per espirare il fumo e borbottò: «Le assicuro che non è così, vecchio mio», tuttavia non mi rivolse lo sguardo.
«Forse è meglio che mi ritiri e la lasci alle sue riflessioni» asserii, facendo per alzarmi.
A quel punto, finalmente egli si voltò e alzò una mano per trattenermi. «La prego di rimanere. Non faccia caso al mio umore, non credo che oggi riuscirei ad essere un buon conversatore, ma forse potremmo impiegare il tempo diversamente» suggerì.
«D’accordo. Cosa vorrebbe fare?» domandai interessato.
«Magari una partita a carte. Il poker è ancora il suo preferito, vero?» propose, alzandosi per frugare in uno dei mobili e recuperare un mazzo di carte da quei cumuli di caos organizzato.
Fu così che, in una piacevole atmosfera familiare, ci accomodammo sulla pelle di tigre di fronte al camino, incuranti delle formalità grazie alla generosa dose d’alcool ingerita da entrambi. Assumendo il ruolo di mazziere, Holmes distribuì le carte ed attesa la mia mossa. Stavo giusto per cercare nelle tasche della mia giacca abbandonata sul divano qualche moneta da puntare, quando lui mi fermò.
«Niente da fare, mio caro ragazzo, non ho alcuna intenzione di fomentare la sua passione per le scommesse e svuotarle le tasche. Mrs. Watson potrebbe prendersela con me per la perdita della sua dote».
«Allora cosa mettiamo in tavola?» chiesi perplesso. Se non intendeva scommettere denaro, sarebbe stato meglio scegliere un altro gioco.
«Che ne dice del suo panciotto? Mi sembra di ricordare che me ne debba ancora uno» insinuò furbescamente.
«Io non le devo proprio nulla» ribattei, perché ricordavo bene l’episodio a cui si riferiva.
«Lei ha gettato il mio panciotto fuori dalla carrozza» mi fece presente, come mi aspettavo.
«No, ho gettato via il mio panciotto» replicai.
«Avevamo stabilito che le stava piccolo» ribatté con quello che era a tutti gli effetti un broncio infantile e che non mi azzardavo a fargli notare o mi avrebbe, con tutta probabilità, rotto il naso.
«Può darsi, ma io non gliel’ho mai regalato, lei se n’è appropriato senza il mio consenso» precisai dunque.
«Di solito non si sarebbe mai curato di una simile inezia. Quel giorno l’ha gettato deliberatamente, per farmi un dispetto» sbuffò Holmes ed io non pensai nemmeno per un momento di contraddirlo, giacché era la pura verità; quella volta ero arrabbiato con lui per aver insinuato che la mia fidanzata fosse un approfittatrice.
«E sia allora, metterò in gioco il mio panciotto nuovo. Ma solo se lei farà altrettanto con la sua vestaglia preferita» patteggiai.
«Non le è mai piaciuta la mia vestaglia» osservò con sospetto.
«È vero, infatti intendo vincerla per il solo piacere di darla alle fiamme» ammisi con un sorriso soddisfatto.
Il mio amico parve quietamente scandalizzato - o più probabilmente inscenò una delle sue solite tragicommedie. «Sotto quell’apparenza gentile, lei nasconde un cuore di pietra,Watson. Molto bene, ciò vuol dire che dovrò impegnarmi doppiamente per ottenere il mio nuovo panciotto».
«Il mio nuovo panciotto, intende» lo corressi.
«Non lo sarà ancora per molto» mi assicurò.
Fu così che la partita ebbe effettivo inizio, accompagnata da un’altra generosa dose di brandy. Modestia a parte, mi reputo un giocatore esperto e piuttosto fortunato, ma Sherlock Holmes era - ahimè! - un uomo dotato di un cervello di gran lunga superiore alla media. Se non lo avessi conosciuto tanto bene, avrei sospettato che contasse le carte - cosa di cui era senz’altro capace - invece, sapendo che non era un baro, ero certo che piuttosto stesse registrando ogni minimo cambiamento della mia postura e della mia espressione, deducendone con facilità se avessi in mano delle carte buone o meno. E per onor del vero, devo aggiungere che, nonostante per la grande esperienza al tavolo, non sono mai stato in grado d’inscenare un bluff convincente; o, perlomeno, non uno in grado d’ingannare Holmes.
Quindi, dopo circa un’ora mi ritrovai privo non solo del mio nuovo gilet, ma anche del fazzoletto da collo, della camicia e delle scarpe. Con un certo orgoglio, però, posso affermare che a quel punto il mio collega aveva quantomeno perso la sua, di camicia, e la canottiera.
Ma, nonostante il gioco proseguisse spedito e agguerrito, il silenzio di Holmes mi disturbava. Non era mai stato un uomo silenzioso, almeno non in mia presenza. Gli unici momenti in cui sceglieva la quiete erano quelli in cui rifletteva e spesso durante essi preferiva esternare con me i suoi pensieri; aveva sempre sostenuto che lo aiutasse a riordinarli, benché io non gli fossi di alcun aiuto pratico.
E ancora più del vederlo tanto taciturno, a turbarmi erano le fasciature ormai evidenti sul suo corpo.
Avevo sospettato che fosse ferito, poiché avevo notato i suoi movimenti più lenti e cauti del solito, in alcuni momenti perfino rigidi, che contrastavano sin troppo con la consueta fluidità e rapidità del suo agire. Ora, senza stoffa a frapporsi, potevo chiaramente vedere le bende che gli fasciavano la spalla destra ed il polso sinistro.
Se quelle evidenti testimonianze della sua degenza mi preoccupavano, la consapevolezza che non me ne avesse parlato e non avesse chiamato me per medicarlo mi feriva.
«Ha intenzione di perdere anche i pantaloni, Dottore?» mi riscosse da quelle elucubrazioni sorridendo beffardamente.
«Cosa le è successo?» domandai, non riuscendo più a trattenermi.
Holmes osservò la fasciatura sul suo braccio come se si fosse ricordato solo in quel momento della sua presenza. «Un inconveniente durante l’ultima indagine, niente di speciale» rispose annoiato.
«Quanti erano?» replicai, perché sapevo che per sopraffarlo non bastava un solo uomo - non uno di taglia normale, almeno - e solo un considerevole numero poteva metterlo tanto in difficoltà.
«Cinque, armati di bastoni. Riprendiamo?» rispose sbrigativo.
«Perché non mi ha chiamato?» continuai imperterrito.
Stavolta il suo sguardo s’incupì e nulla, nemmeno le sue grandi doti recitative, riuscirono a dissimularlo. Le sue labbra si stirarono in una piega amara e sottile, poi si voltò e riprese ad osservare torvo le fiamme nel camino. «Lei se n’è andato. Ha detto che quello di Blackwood sarebbe stato il nostro ultimo caso, ricorda?» mi fece presente, con voce pericolosamente bassa.
«Sa bene che se avessi saputo che le occorreva il mio aiuto…» cominciai, ma lui m’interruppe bruscamente.
«Non è mia abitudine mettere in pericolo un marito ed un futuro padre di famiglia» sbottò.
«Non si è mai posto simili problemi, prima» obbiettai.
«Prima non era sposato» replicò secco, chiudendo il discorso.
«È per questo che non mi ha chiamato per medicarla e che stasera non mi parla?» domandai, cercando di mantenere la calma.
«Sì» rispose secco, «No» si contraddisse un attimo dopo, gettando via le carte. «Insomma, Watson, che diamine si aspettava? Non abbiamo più nulla a che spartire. Ciò che ci legava erano questa casa e le nostre indagini, e lei ha gettato via tutto. Cosa ci rimane?» mi domandò ragionevolmente - o piuttosto con quella che lui reputava ragionevolezza - lasciandomi agghiacciato.
«Era solo questo?» domandai a mia volta «Questo è tutto ciò che abbiamo condiviso? Un contratto d’affitto ed un lavoro?» Il tono mi uscì più sommesso e rauco di quanto avessi desiderato e Holmes non rispose.
Ritirò le carte sparse sulla pelle di tigre e riprese a mischiarle, solo per tenere le mani occupate, suppongo.
«Un’ultima mano, vecchio mio?» propose evasivo.
«Vuole davvero togliermi anche i pantaloni?» replicai frastornato. Lo sguardo rapido ed intenso che mi rivolse, per qualche motivo, mi inquietò. C’era qualcosa che non avevo mai visto, nei suoi occhi grigi: rimpianto.
«Cambiamo posta allora» concesse.
«Cosa posso offrirle?» domandai, allargando le braccia, rendendomi conto che non voleva denaro e che quello di portarmi via i vestiti era stato solo un passatempo dispettoso.
Mi studiò per qualche attimo in maniera valutativa, poi distribuì le carte. «Lei giochi, Dottore. Quando sarà il momento mi prenderò ciò che voglio» rispose enigmaticamente.
Così facemmo.
«Full» dichiarai, al momento di scoprire le carte.
«Poker d’assi» rivelò Holmes, mettendo in tavola le proprie.
Sorrisi, perché in fondo me l’aspettavo. Avevo l’impressione che stesse macchinando quella mossa da tutta la sera, forse addirittura da giorni. «Ebbene?» chiesi, attendendo che svelasse il suo intento.
«Chiuda gli occhi» mi ordinò.
«Perché?» domandai sospettoso. Non ero ancora abbastanza ubriaco per non temere che mi giocasse uno spiacevole scherzo.
«Mia la vittoria, mie le regole» asserì ed io fui costretto ad eseguire il suo volere.
Udii il fruscio dei suoi pantaloni sul tappeto, quando si avvicinò ginocchioni a me. Poi percepii il suo respiro vicinissimo ad una tempia ed un tocco sorprendentemente delicato sul profilo del mio viso. Subito dopo, una pressione morbida incontrò le mie labbra e, quando socchiusi gli occhi, troppo allibito per fare qualunque altra cosa, incontrai quelli chiarissimi di Holmes ad un soffio dai miei.
Fu una secchiata d’acqua gelida. Se mi avesse schiaffeggiato, lo avrei trovato meno sconvolgente. Ma non ebbi il tempo di riflettere.
Holmes schiacciò la bocca con più decisione sulla mia e, complice il brandy, lo stupore e la semplice forza bruta, riuscì a sopraffarmi e farmi distendere sotto di lui. La mia nuca impattò sulla pelle di tigre con un tonfo smorzato e Holmes intrappolò i miei polsi con una presa ferrea.
Se dicessi che non mi sarei mai aspettato che accadesse nulla di simile, mentirei. Perché era quello che avevo temuto per tanti anni, quello che mia aveva spinto a fuggire e rifugiarmi tra le braccia della mia dolce Mary. Perché quello che mi legava a Sherlock Holmes - di qualunque nature fosse - era troppo intenso, distorto, assuefacente e malato, per lasciarci entrambi illesi.
E se avessi detto che non lo desideravo, avrei mentito anche di più, perché lo avevo sognato ogni singolo istante dal momento in cui quell’uomo era entrato nella mia vita e l’aveva sconvolta, rendendomi irrimediabilmente dipendente da lui.
«Tre mesi. Sono passati tre mesi e lei non si è fatto vivo una sola volta. Perché dovrei credere che si preoccupa per me?»² mi domandò in un sibilo, così vicino che riuscii a sentire sulla lingua il sapore di tabacco del suo fiato.
Non mi mossi, non cercai di ribellarmi - in tutta onestà non credevo di averne la forza - mi limitai a chiudere gli occhi, perché guardarlo faceva troppo male. «Sono stato uno sciocco» ammisi «Credevo di poterla dimenticare. Pensavo che se mi fossi allontanato a sufficienza da lei, se mi fossi rifatto una vita, alla fine sarei riuscito a vederla solo per quello che dovrebbe essere: un amico».
«Ma..?» m’incitò, intuendo che non avevo finito.
«Ma mi sbagliavo» conclusi, riaprendo gli occhi. «Qualunque cosa faccia e per quanto lontano scappi, non posso fare a meno di tornare qui. Da lei».
«Ha ragione» convenne «Lei è un totale idiota» asserì, prima di chinarsi e baciarmi ancora.
La sua bocca sapeva di brandy e trinciato forte, un sapore così estraneo a quella di una qualsiasi donna che mi fece girare la testa; era amaro, proprio come lui, ma assuefacente. Imperiose, le sue labbra scesero più in basso, sul mio collo e poi sul petto, catturando un capezzolo attraverso il cotone sottile della canottiera.
Il fisico di Holmes era ingannevolmente fragile, la sua eccessiva magrezza nascondeva una forza insospettabile e, per quanto mi divincolai nel tentativo di liberare le braccia, lui riuscì a tenermi fermo. Mi rivolse un’occhiata così dura e carica di ammonimenti da far cessare ogni mia protesta, sembrava minacciare serie ripercussioni se avessi osato muovermi ancora. Solo allora liberò i miei polsi e portò le mani a sfilarmi la canottiera e slacciarmi i pantaloni. Trattenni il fiato quando iniziò a sfilarli dalle mie gambe, portando via anche l’intimo e lasciandomi completamente nudo sulla morbida pelle di tigre.
«Sembra che alla fine sia riuscito comunque a prendersi i miei pantaloni» sussurrai perché il silenzio e la tensione mi stavano dilaniando, e le labbra di Holmes si arcuarono appena, in un sorriso dispettoso.
Poi, semplicemente smisi di pensare, perché quelle stesse labbra diaboliche s’impressero s’una sporgenza delle mie anche e scesero più giù, nell’interno coscia, evitando con precisione il mio inguine e non concedendomi più dell’ombra di un respiro, finché non mi trovai sull’orlo della pazzia. Solo allora la sua bocca si chiuse sul mio membro ed io fui costretto ad appigliarmi alla prima cosa che trovai sottomano per non scivolare nel totale deliquio.
Scoprii in quell’occasione che, nonostante il suo proclamato disinteresse per le relazioni amorose, Sherlock Holmes sapeva essere il più appassionato degli amanti, e la sua maestria in quelle pratiche non era in nulla inferiore a quella nel suonare il violino.
Rumori più secchi si unirono a quelli umidi prodotti dalla sua attività ed io seppi che si stava toccando allo stesso ritmo con cui mi dava piacere. La sola idea bastò a portarmi ad un passo dall’orgasmo e fu sufficiente un certo giochino della sua lingua - che non descriverò in queste pagine - per portarmi a spegnermi nella sua gola.
Quando ripresi fiato, Holmes era steso al mio fianco, un braccio gettato sugli occhi ed i pantaloni ancora indecentemente slacciati. Era una visione così discinta e splendida che feci tutto il possibile per imprimermene ogni dettaglio nella memoria: dal modo ritmico in cui il suo petto nudo si alzava ed abbassava, a quello con cui la luce aranciata del camino delineava ogni curva e ogni avvallamento del suo corpo, per morire tra i suoi capelli scuri ed arruffati.
Gli afferrai il polso - con delicatezza, perché era quello fasciato - e lo scostai dal suo viso. Sentivo l’impellente bisogno d’incontrare il suo sguardo, ma i suoi occhi sviarono i miei e puntarono i vetri della finestra, oltre i quali la neve continuava a cadere.
In quel momento, pregai che il brutto tempo non cessasse mai e ci impedisse - mi impedisse - di uscire da quella casa, per sempre.
FINE.
¹. La citazione che fa da introduzione alla storia è tratta dal musical “Il Mago di Oz”.
². Il titolo della fic è per l’appunto il periodo in cui è ambientata la storia: tre mesi dopo il matrimonio di Watson, avvenuto nel Novembre del 1887.
Potete trovarla anche su:
EFP;
Fire&Blade;