Beta:
eowieTitolo: Like dust in the sunlight
Fandom: Animorphs
Personaggi: Marco, Jake
Rating: PG-13
Conteggio parole: 3730 (W)
Riassunto: A ormai quattro mesi dal processo contro Visser I, Jake è perseguitato dai ricordi e dal senso di colpa; Marco decide che il suo migliore amico ha bisogno di un'altra seduta di metamorfoterapia.
Disclaimer: Jake, Marco, Andaliti e cubo della metamorfosi non m'appartengono - altrimenti sarei sia una Ruka felicissima che un'ottima ladra - e questo scritto non mi frutterà nulla in senso pecuniario: lasciatemi perlomeno il divertimento.
Note: in realtà non c'è molto da precisare, salvo il fatto che dopo tutte le ore passate su Goog'Maps a capire come e dove diamine stessi ambientando la fic, ora nello Utah ci voglio davvero andare u_ù. E grazie anche a Wiki, ché riesce ad essere utile perfino quando vai a chiederle cose assurde come la velocità media in volo di un falco pellegrino ♥. By the way, il titolo è una leggera modifica della triste Dust in the Sunlight degli Editors.
Ops, dimenticavo: direi che siamo a fine estate perché sì. Ti amo,
eowie!
Dal quel giorno sulla spiaggia, la mattina dopo il grande processo contro Visser I, erano passati più di quattro mesi. Il fatto che contassi morbosamente i giorni trascorsi dalla sentenza - e dalla dichiarazione di vittoria, e dal funerale di Rachel - non era un segno che portasse a pensare che la mia “metamorfoterapia” (così si ostinava a chiamarla Marco) avesse funzionato davvero.
O forse sì, dato che in quel preciso momento stavo mostrando agli agenti speciali scelti per ricevere la tecnologia della metamorfosi come dominare gli istinti di uno squalo martello di fronte a qualche goccia di sangue nella grande piscina di un centro governativo super-segreto.
Era il mio lavoro, addestrare soldati sul campo. Pareva me la cavassi bene: di certo non mi mancava l'esperienza, anche se non riuscivo a non pensare, a volte e con relativa amarezza, che questo incarico mi fosse stato assegnato per pura compassione. D'altro canto gli Andaliti ci avevano concesso l'uso del Cubo, ma senza lasciare particolari istruzioni (né il governo avrebbe probabilmente gradito un'intrusione aliena a livelli così alti nei suoi affari), dunque ciò faceva di noi, a tutti gli effetti, i maggiori esperti in materia. Con Tobias ormai di fatto disperso, Cassie impegnata nella politica di difesa delle specie e dell'ambiente e Marco felicemente arruolato dai riflettori, rimanevo disponibile per l'incarico solo io. Non avevo trovato motivi per rifiutare.
«Focalizzatevi sulla parte umana del cervello» raccomandai ancora una volta. «La mente dello squalo è concentrata sull'istinto di uccidere e reagisce all'odore del sangue. Dovete controllare l'animale e sfruttare le qualità del predatore: la sicurezza, la calma, il dominio del proprio corpo.»
I miei allievi erano quattro e avevano già assorbito il DNA dello squalo. Il più giovane aveva venticinque anni e mi chiamava “professore”: una presa in giro, dato che non avevo nemmeno finito il liceo se non con un'attestazione al valore. Erano tutti soldati di prima categoria, agenti specializzati in varie discipline e con un brillante futuro nella lotta mirata al terrorismo.
Si tuffarono in sincrono ognuno in una vasca differente. Non era il caso di rischiare che si ferissero a vicenda alla prima prova della metamorfosi da predatore; non c'era fretta: potevano imparare gradualmente, loro.
Scossi la testa per scacciare il ricordo dei denti affilati di Rachel contro il mio fianco. Mi trasformai rapidamente in falco - era la forma ideale: ottima vista e sistema emotivo praticamente assente - e attesi che prendessero possesso del cervello dello squalo. In meno di un minuto tutti e quattro risposero alla mia chiamata telepatica, quindi ordinai con un messaggio privato al mio aiutante di versare poche gocce di sangue nelle vasche.
Vederli cambiare forma non era così insopportabile come avevo temuto, anche se ogni metamorfosi, ogni avvertimento, era una porta aperta su ricordi che ancora bruciavano.
Erano soldati esperti ed erano stati ben istruiti a nascondere le proprie emozioni, ma dopo certe metamorfosi nemmeno loro riuscivano del tutto a soffocare l'eccitazione. La conoscevo e la ricercavo nei loro occhi mio malgrado. Faceva male.
Io mi trasformavo il minimo necessario a svolgere al meglio il mio lavoro. Fuori, mai: non potevo, e non ci provavo nemmeno.
Quel giorno Marco mi attendeva fuori casa sulla sua Maserati - quella rosso fuoco, la sua preferita - e sorrideva con aria cospiratoria. Conoscevo quel particolare sogghigno: aveva sempre significato guai, fin da quella prima volta in cui ci eravamo trovati a scappare dalle urla infuriate di Mr. Jonas, un vicino di casa di Marco al tempo in cui sua madre era solo una bellissima, ma normalissima, affascinante donna in carriera, quando, perduto il controllo della canna per innaffiare, gli annegammo le preziose camelie.
Il mio migliore amico si premurò di farmi salire in auto e non rivelami assolutamente nulla dei suoi piani.
«È un viaggio un po' lungo, altrimenti avremmo potuto farlo in volo,» mi disse allegramente, come se la metamorfosi fosse una reale opzione, mentre io cercavo una posizione confortevole sul sedile di cuoio troppo nuovo.
«Ma ci sali sempre da solo, su quest'auto?» chiesi bruscamente.
«È la mia bimba, lei!» protestò oltraggiato. «Non posso certo dare passaggi al primo venuto. Le ragazze preferiscono la Viper, comunque, e il mio manager ha la sua auto. E lui ama parlarmi al telefono, lo fa anche quando siamo nello stesso edificio, a volte.»
«Questo perché casa tua è una specie di Versailles in miniatura,» tentai di fargli notare. «E ci abiti da solo.»
«Con almeno dieci tra cameriere, cuoco e giardinieri, amico. Aiuto l'economia, io.»
«Sì, come preferisci.»
Incassai la testa nel sedile e chiusi gli occhi. La guida di Marco era fluida - dovevo ammetterlo - e la Maserati aveva ammortizzatori sufficientemente costosi per permettermi di cadere velocemente in dormiveglia. Marco non accendeva mai la radio quando era con me in auto, ma lo sentii abbozzare sottovoce il motivetto di qualche stupida pubblicità di cibo per cani. La luce del sole al tramonto aveva smesso da un pezzo di bruciarmi le palpebre, quando la stanchezza mi vinse.
A volte sospettavo che Marco improvvisasse questi viaggi solo per assicurarsi che io dormissi il minimo necessario perché nessuno si accorgesse di quanto, in realtà, gli incubi mi divorassero ogni notte.
«Jake, sveglia.»
Aprii lentamente gli occhi per poi richiuderli di colpo. Il sole era ancora basso ma ugualmente molto luminoso - doveva essere sorto da poco, erano forse le sei del mattino. Marco guidava piano ora, lasciando pigramente che le poche auto in viaggio insieme a noi ci superassero.
«Dove?» chiesi, la voce arrochita dal sonno. La schiarii con un paio di veloci colpi di tosse, registrando la sterpaglia desertica attorno a noi: qualcosa mi diceva che stavolta avevamo anche cambiato stato. «Dove siamo?»
«Da qualche parte tra Las Vegas e Salt Lake City,» rispose Marco allegramente, togliendosi gli occhiali da sole per pulirli. Valutai, in base alle sue occhiaie, che avesse guidato per buona parte della notte, se non senza sosta.
«Marco,» sospirai. «Avrei potuto dover lavorare.»
«No, ho parlato col tuo assistente. Vuoi caffè?» Mi porse il thermos. Sorseggiai il quarto di tazza che mi ero versato mentre lui teneva premuto il pulsante che abbassava il tettuccio dell'auto. Era tiepido ormai, quindi lo finii velocemente.
«Così va decisamente meglio,» si approvò da solo, quando il vento iniziò a soffiarci sulla pelle. Poi aggiunse con studiata nonchalance: «Comunque non è come se potessimo procedere ulteriormente, siamo quasi a secco. Anzi, ora che mi ci fai pensare.»
Controllò lo specchietto retrovisore e torse bruscamente il volante, facendo sobbalzare la povera Maserati che non era certo stata progettata per stupide corse in pieno deserto.
«Marco, che diamine...!?» urlai, aggrappandomi alla portiera dopo aver tappato in fretta e furia il thermos.
«Oh, il caffè. Scusa!» rise lui, continuando imperterrito nella sua personale rivisitazione di Thelma&Louise. Agitò un braccio nell'aria polverosa in un modo del tutto ridicolo. «Su, Jake: yaaah-ouuuh!»
«Tu lo sai che ignorarmi non è una soluzione,» aggiunse, frenando bruscamente e sporgendosi verso di me per guardarmi dritto negli occhi, la testa piegata di lato in una promessa di testardaggine.
«Marco... Non siamo più bambini,» cercai di spiegarmi, stringendo il pugno sulla maniglia della portiera.
«È vero,» acconsentì lui, «siamo giovani celebrità a piede libero, il che è anche peggio. Ce lo sognavamo di fare cose simili, da piccoli.»
La risposta che mi ricacciai in gola era amara di sangue: sì, ma a quel tempo nessuno di noi aveva mai combattuto una guerra vera. In compenso, scossi la testa e piantai ostinatamente gli occhi sulla linea frastagliata dell'orizzonte. Attorno a noi, il nulla.
Non insistette; continuò a pestare sull'acceleratore e ad alzare nuvoloni di polvere con curve improvvise, in silenzio ora, con un'espressione concentrata sul viso e i pugni bianchi per la forza con cui stringeva il volante. Stesi le gambe per stabilizzarmi e non protestai per nessuno scossone.
«Jake,» mi chiamò, infine. Aveva rallentato; schiacciò il pedale del freno lentamente, finché l'auto non si fermò da sola, con un sussulto. Volsi la testa verso di lui, accordandogli la mia attenzione in un tacito accordo di non-belligeranza. Sorrise, «Jake, è finita la benzina.»
Attesi che frugasse nel vano portaoggetti e facesse la benedetta telefonata che ci avrebbe portati su un qualche stupido elicottero di fronte alle stupide telecamere del suo show personale, ma quello che estrasse somigliava decisamente più ad una mappa stradale. La svolse con fare sapiente e indossò la solita faccia confusa di uno che le cartine è abituato a vederle su Google Maps e si chiede a cosa diamine servano le griglie numerate su quelle cartacee.
«Ah, ecco,» mormorò infine, muovendo un dito lungo una piega. «L'ultimo cartello diceva “Uscita 78”, quindi se la mappa non mente siamo all'incirca qui.»
Il suo indice sfiorava la H di Utah con attenta noncuranza; diedi una veloce occhiata alla linea giallo scuro che segnava il percorso dell'Interstate 15: avevamo passato da non molto l'aeroporto di Parowan. Ci ero stato una volta, durante un'esercitazione su un aereo militare, in atterraggio d'emergenza a causa di un'improvvisa e violenta tempesta. Uno dei miei allievi di quel gruppo era originario del Colorado e aveva raccontato dei campeggi che faceva con il padre da piccolo, esplorando i numerosi parchi naturali della zona.
«Siamo a due stati di distanza da casa?!» esclamai. Ammetto che la mia voce suonò piuttosto stridula sul “da casa”.
«Uno e mezzo per la precisione,» annunciò Marco con un sorriso soddisfatto. «E senza cellulari!»
«Marco,» ringhiai tra i denti, tastandomi la tasca destra dei pantaloni. Vuota.
«Tranquillo, ce l'ha il tuo assistente. È un ragazzo molto preciso,» annuì compiaciuto. «Ma anche io lo sono - un tipo previdente, intendo - infatti ho il caffè.»
«Marco...»
Il suo sagace piano era una seconda seduta di metamorfoterapia, ecco cos'era.
Recuperò dal bagagliaio un paio di sacchetti di plastica in cui infilammo jeans e camicia, chiudendoli stretti per diminuirne al massimo il volume. Mi trasformai velocemente, stringendo forte di denti per la frustrazione, almeno fino a che questi non si sciolsero in un becco aguzzo. Marco attese che io avessi finito, poi si tolse il costoso orologio D&G e lo ripose nel cruscotto, prendendone un altro più piccolo e leggero, di plastica, che mi allacciò attorno ad una zampa; mi porse la mia borsa e la afferrai in malo modo, graffiandogli il dorso della mano con gli artigli del falco pellegrino. Non protestò; si sbrigò ad assumere le sembianze della sua aquila, afferrò il suo sacchetto e prese il volo battendo pesantemente le ali: l'aquila non è un animale abituato a decollare da terra.
“Su,” mi incitò, vedendo che non lo seguivo.
“Non puoi semplicemente lasciar perdere, Marco?” mormorai telepaticamente, fissandolo con gli occhi acutissimi del falco.
“Jake, su.”
Mano a mano che presi quota fu sempre meno faticoso. Di corrente in corrente, lasciai che il vento gonfiasse e sorreggesse le mie ali. Marco volava qualche metro sopra di me, e dovetti fare forza su me stesso per non ordinargli di stare un po' più lontano, ché altrimenti avremmo dato nell'occhio - avevamo vinto, eppure mi sentivo esattamente come se fossi in piena guerra. Anzi, peggio, perché il nemico era la mia stessa memoria.
Scrutai il paesaggio sottostante - la Interstate 15 era vicinissima, l'asfalto ancora nitido grazie al fresco della notte. Più in là, monti e alberi che, secondo la mappa di Marco, avrebbero dovuto far parte della Dixie National Forest.
Raggiungemmo velocemente la strada e Marco la superò senza battere ciglio. Avrei potuto svoltare e raggiungere facilmente il più vicino autogrill o anche attendere che qualche automobilista si fermasse e mi permettesse di usare il suo cellulare. Avrei potuto, ma non ci pensai neppure: per quanto quello che stava facendo mi infastidisse, Marco era e rimaneva il mio migliore amico e sapevo che le sue intenzioni erano interamente buone, anche se non desiderate. Lui sembrò pensare la stessa cosa perché non accelerò ne decelerò minimamente, limitandosi a volare verso est.
Sotto di noi il paesaggio si fuse in una monotona irregolarità di rilievi, coperti da sterpaglie in basso e pini alle altezze maggiori. Ad un certo punto iniziai a cogliere, sotto di noi, i bagliori rossi del canyon, ma a quanto pareva non era la nostra meta.
Volammo a lungo ancora, adattando la nostra velocità a quella delle correnti, senza affrettarci. Quando infine Marco ruppe il silenzio sibilante del vento stavamo sorvolando altra foresta e fu per avvisarmi che il tempo era quasi scaduto. Atterrammo in una radura isolata ed invertimmo rapidamente la metamorfosi; guardai Marco, le occhiaie in parte nascoste dalla sua carnagione olivastra, e lui sorrise con impertinenza.
«Già stanco, grande capo?»
Lo ero, ma non fisicamente.
«No.»
«Bene,» approvò lui, ripiegando velocemente la cartina a cui aveva dato una sbirciata veloce. «Abbiamo ancora un pezzo di strada da fare.»
«Non mi dirai dove siamo diretti nemmeno se te lo chiedo per favore, vero?» sospirai, concentrandomi di nuovo sul falco.
«Se lo facessi, che gusto ci sarebbe?» rise lo sgorbio pennuto che stava prendendo il posto di Marco.
Questa seconda volta non mi feci pregare per alzarmi in volo. Dovetti ammettere con me stesso, controvoglia, che volare non solo mi era mancato tantissimo, ma mi stava anche permettendo di pensare con una calma che non provavo da troppo tempo. Era merito del falco, pensai ricordando il viso senza espressioni di Tobias; stavo sfruttando il freddo distacco del predatore: la paura non faceva parte del suo essere così come non conosceva né ansia, né disperazione.
Mi persi nei ricordi, lasciando che il falco assumesse parzialmente il controllo del volo. Marco, poco più avanti, teneva la rotta. Pensai a quante volte avevamo volato così, tutti e sei gli Animorphs in formazione compatta, ma il viso di Rachel si impose con prepotenza e come sempre le immagini dell'ultima battaglia mi invasero la mente, affollandosi l'una accanto all'altra, in attesa di mostrarmi tutti i miei errori, le mille soluzioni che io non avevo visto e che avrebbero potuto salvarle la vita. Rividi i suoi occhi duri di quando mi assicurò che lei era l'unica a poter svolgere quel ruolo nel mio piano, rividi il bagliore folle del suo sguardo mentre pregustava il brivido della battaglia, conscia che quella volta non avrei potuto fermarla. Risentii le sue parole - «Sta andando tutto bene, vero Jake?» - rimbombarmi nella testa così forte che dovette sfuggirmi un gemito di dolore.
Marco non chiese nulla, ma accelerò, battendo le ali per guadagnare quota. Stavamo, ora, seguendo una strada minore - Utah 143, diceva un cartello a qualche centinaio di metri di distanza - ed il sole di metà mattina riscaldava l'atmosfera, dando vita a correnti ascensionali a noi favorevoli.
Gli tenni dietro mentre, con dolorosa ostinazione, rievocavo quelle immagini maledette e le ordinavo in una nuova sequenza, l'ennesima, scoprendo come al solito che la conclusione non cambiava affatto - non poteva: erano eventi passati, morti come Rachel.
D'improvviso sì udì uno scoppio sordo. L'aquila lanciò un grido stridulo che si confuse con quello che mi risuonò nella testa e Marco iniziò a cadere, un'ala immobile e l'altra che sbatteva a stento, incapace di sopportare, da sola, il peso del suo corpo.
“Marco!” urlai, lasciando la presa sul sacchetto dei vestiti e lanciandomi in suo soccorso mentre altre pallottole sibilarono attorno a noi. Il falco pellegrino raggiunge una velocità enorme, in picchiata, toccando i 380 km/h. In meno di due secondi ero sopra di Marco e tentavo di arrestare la sua caduta afferrandogli l'ala ferita.
“Aaaaah!” gridò lui, quando i miei artigli gli si conficcarono nell'osso. Potevo leggere lo stupore sul viso dei cacciatori: di solito i rapaci non fanno squadra comune, tanto meno se di specie diverse come aquile e falchi.
“Raggiungiamo gli alberi,” ordinai. “Verso nord.”
Marco assentì in un gemito prolungato, battendo faticosamente l'ala illesa. Planammo in malo modo nel sottobosco.
“Marco, inverti la metamorfosi!” lo chiamai concitatamente, iniziando io stesso a cambiare - ma non del tutto, perché serviva che io potessi continuare a parlargli telepaticamente: non si può essere sordi ad una voce nella propria mente.
Non c'era tempo da perdere: dovevo evitare che svenisse per l'emorragia. “Marco!”
“Jake...” La sua voce, nella mia testa, era spaventosamente debole. Come quella di Rachel, un attimo prima di-
“Marco! Marco, ascoltami. Devi trasformarti. Marco, ora!” lo pregai, sentendo il panico crescere, senza controllo. Quante volte era capitato - a me, agli altri - di essere in una situazione simile? Ma ora non si era più in guerra, ora sarebbe stato così insopportabilmente ingiusto.
«Marco!» urlai ancora, questa volta con la mia voce umana. Avevo terminato la metamorfosi senza neppure accorgermene, e stavo piangendo le lacrime che il falco non possedeva. Trascinandomi alla cieca sul muschio, allungai le mani a sostenere il corpo dell'aquila, tirandomelo contro.
Iniziò a trasformarsi lentamente e l'ultima a cambiare fu proprio l'ala ferita; passarono dei secondi lunghissimi prima che fu completamente umano tra le mie braccia. Respirava pesantemente.
«Dannati cacciatori,» ringhiò infine, alzando gli occhi per sorridermi - ed il sorriso gli si congelò sulle labbra. «Jake, sto bene.»
E lo vedevo- conoscevo la sensazione, quel miscuglio di euforia e terrore che ti possiede ogni volta che la scampi all'ultimo momento, l'avevo provata centinaia di volte negli ultimi anni - ma non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine del corpo morto dell'aquila. Di Marco.
Marco fece forza sulle braccia, sollevandosi come al rallentatore, e fu in quel momento che mi resi conto che stavo tremando. Probabilmente stavo anche piangendo, perché fu un Marco dai lineamenti offuscati ad abbracciarmi stretto, ed oltre la sua spalla non c'era che una grande macchia indistinta color verde marcio.
«Jake,» sussurrò infine.
Non mi mossi d'un millimetro nel suo abbraccio: era caldo, era vivo, ero al sicuro. Avevo l'irrazionale impressione che, se solo mi fossi allontanato, tutto avrebbe iniziato a cadere di nuovo a pezzi.
«Jake,» ripeté, accarezzandomi i capelli e facendomi girare la testa verso la sua. Eravamo troppo vicini per poterci guardare negli occhi senza essere completamente sinceri l'uno con l'altro.
«Mi dispiace,» articolai a fatica.
«Non è stata colpa tua,» disse lui. Non si riferiva ai cacciatori di poco prima. «Ha fatto del tuo meglio, Jake.»
«Se ci fosse stato un altro modo,» cominciai, ricacciando giù le lacrime che insistevano per scorrere ancora.
«Ma non c'è stato,» mi interruppe lui, con un sospiro infelice. «Ci abbiamo pensato entrambi in questi mesi. Ci abbiamo pensato fino alla nausea, e lo sai che non c'era altro modo.»
Rimasi in silenzio.
«Jake, lo sai» insistette. «Era il piano migliore che potessi usare.»
«Dillo a Tobias,» sibilai, scostandomi bruscamente dal suo abbraccio. Mi alzai in piedi e Marco mi imitò lentamente. Rabbrividii, sentendo l'aria fresca del sottobosco disperdere velocemente il calore della pelle di Marco contro la mia. «Chiedigli se pensa che Rachel sia morta per una giusta causa.»
«Non ho detto che era il più giusto,» ribatté secco. «E Rachel in questo momento ti picchierebbe, perché le stai togliendo ogni merito.»
Era vero: ma non ero disposto ad arrendermi, non potevo.
«Se l'avessi fermata, non sarebbe morta.»
«Se l'avessi fermata, saremmo tutti morti.»
«Non è detto!» mi bloccai, troppo tardi; vidi un sorrisetto di vittoria comparire sulle labbra del mio migliore amico: mi aveva messo all'angolo. Un moto di rabbia amara mi portò ad abbaiargli contro un: «Certo, chi contava per te si è salvato.»
Me ne pentii subito dopo e non feci nulla per fermare il suo pugno. Persi l'equilibrio e mi sostenni ad un tronco bruciato dietro di me, mentre Marco mi girava le spalle ed iniziava a trasformarsi rapidamente in lupo; balzò via in pochi secondi. Mi lasciai scivolare a terra, senza badare alle schegge aguzze che mi graffiarono la schiena nuda. Odiavo quella sensazione insormontabile di impotenza; mi sembrava, negli ultimi mesi, di aver avuto costantemente un groppo in gola che ormai mi rendeva quasi difficile respirare.
Piansi, stringendomi la testa tra le mani, fino a cadere in un dormiveglia agitato, e mi riscossi bruscamente solo al suono secco di un ramo spezzato. Era Marco, di nuovo umano, vestito e con due sacchetti di plastica in mano. Aveva sfruttato il fiuto del lupo per recuperarli, probabilmente.
Mi porse quello contenente i miei abiti come in un'offerta di pace.
«Non volevo-» sussurrai, forzando la gola che mi bruciava ancora per il pianto. Probabilmente è normale che accada, quando non piangi da troppo tempo.
«Lo so,» tagliò corto lui. «Non ce l'ho con te.»
Annuii debolmente e cominciai a vestirmi, guardando a terra per evitare di incrociare i suoi occhi.
«Jake,» mi chiamò, avvicinandosi. È di mezza testa più basso di me, Marco, e non ebbe problemi a costringermi a guardarlo. «Non ce l'ho con te. Ok?»
«Ok.»
«Bene. Andiamo, la strada è da questa parte.»
Lo seguii attraverso la boscaglia e in pochi minuti raggiungemmo la strada: era ampia a sufficienza da contenere due corsie e l'asfalto era caldo sotto ai miei piedi nudi. Marco prese a camminare con sicurezza verso destra ed io gli tenni dietro, a pochi passi di distanza.
Non appena trovai il giusto ritmo, nonostante la gola riarsa e la sfinitezza generale, mi assalì una curiosa sensazione di calma. Era una calma stanca, diversa da quella del falco, ma in un certo senso più rassicurante e familiare.
La mente corse, mio malgrado, ai ricordi, ma questa volta mi mostrò una Rachel felice, i capelli biondi scompigliati e gli occhi brillanti dopo il primo volo con Tobias; era stata la prima a tuffarsi in picchiata, la nostra principessa guerriera senza paura. Cullai quell'immagine per svariati minuti, osservandola ridere in un misto di incredulità e affetto. Era presente anche Marco, nella scena, ne sentivo la presenza accanto a me - stava forse ridacchiando per una delle sue solite battute cretine, urtandomi col gomito sul braccio per ottenere la mia attenzione. C'era sempre, Marco.
Alzai lo sguardo, lasciando che il ricordo svanisse in un brivido nostalgico e mettendo infine a fuoco la schiena del mio migliore amico. Non so come, se ne accorse.
«L'idea era di arrivare al lago Panguitch,» disse quietamente, rompendo il silenzio monotono della foresta. «Ci aspetta un'auto, là. Non dovrebbe essere distante.»
«Pensavo che avremmo potuto farci il bagno,» aggiunse poco dopo, quasi timidamente, senza mai voltarsi.
Ebbi improvvisamente voglia di abbracciarlo, di scusarmi ancora e di mettermi di nuovo a piangere. Non feci nulla di tutto ciò; tuttavia, pur sapendo che non poteva vedermi, sorrisi piano: «Un bagno non è una cattiva idea.»