Titolo: Be a Luthor
Fandom: DC Comics
Beta:
cialy_girlPersonaggi: Lex Luthor,
Lena LuthorRating: PG13
Parole: 882
Note: Si ringrazia
cialy_girl per tutto, per il sostegno morale e le informazioni random durante la stesura, per il betaggio, per il titolo e per l'idea XD sì, è sua questa fanfic, io non ho fatto niente X°D
Prompt:
"All I want to do is be more like me and be less like you." (Numb - Linkin Park) - [
Temporal-mente]
-
9. A glorious day. [
it100, challenge terminata ù_ù per questo non è una drabble *fischietta*]
-
24. Othala [
24_runes]
Disclaimer: Lena e Lex non mi appartengono ç_ç Mario è mio e delle lovve però ù_ù in ogni caso, non ci guadagno nulla!
Il gradimento popolare, ovviamente, non cresceva. Era stato facile deviare i cittadini con chiacchiere e bugie, fingere di essere qualcosa di diverso da una Luthor - e poi i voti manipolati, anche quelli avevano aiutato. Così nessuno si era stupito di vederla concorrere alla presidenza. Ma la gente, i più vecchi, ricordavano ancora perfettamente il governo di suo padre, ricordavano gli errori e gli orrori. Ricordavano tutto chiaramente e rivedevano Lex nei modi arroganti e maliziosi di Lena.
Questo richiedeva una decisione drastica che, si rese conto, spaventandosi di se stessa, era disposta a compiere.
Di voci contro di lui, Lex ne sentiva a migliaia. I giornalisti o chi per loro si divertivano un sacco ad inventarsi una marea di sciocchezze assurde sulla sua persona, accusandolo di cannibalismo e pedofilia con la stessa sicurezza, come a volerlo rendere il lupo nero delle fiabe. Quindi, quando gli chiesero di sua figlia, sul fatto che lui l’avesse aggredita più e più volte, cercando anche di distruggere il suo patrimonio perché non partecipasse alle elezioni, rispose nel modo più pacato e tranquillo possibile, come al solito, senza dar peso all’ennesima cretinata.
Ma la voce, invece di scomparire nell’arco di una settimana, resistette, divenne più convincente, e il fatto che Lena non avesse ancora smentito una cosa simile fece nascere in lui la consapevolezza. Sapeva precisamente a cosa mirava sua figlia.
E non era così sicuro di volerla intralciare.
I tacchi producevano un rumore forte, che rimbombava lungo il corridoio. Entrò Mercy, avvisò Lex del suo arrivo, la lasciò entrare e rimasero soli. Dietro la sua scrivania, l’uomo osservava la ragazza, forse aspettando una sua mossa prima di agire.
«Ciao, papà.» lo salutò, a voce alta. Gli si avvicinò tranquillamente, arrivando al suo fianco, gli posò due baci sulle guance. «Come stai?»
«Sono ancora vivo,» rispose: «Questo rovina i tuoi piani. Sbaglio?»
Lena sorrise dolcemente. Prese la pistola dalla borsa, gliela puntò alla testa, con il corpo spinse la sedia lontana dal tavolo - dal bottone che, se premuto, avrebbe attivato il sistema d’allarme, richiamato le guardie dentro la stanza.
«Tu non sbagli mai.»
Non era la prima volta che qualcuno gli puntava una pistola alla tempia, non era la prima volta che si ritrovava in pericolo di vita, non era la prima volta che tutto sembrava perduto. Ma era la prima volta che pensava: è finita.
C’erano modi per liberarsi, avrebbe potuto cercare di colpirla, farla parlare, provare a distrarla, ma non ci riusciva.
«Sai, papà,» cominciò Lena, e la sua voce gli sembrava un miagolio. Posò un ginocchio sulla sedia, in mezzo alle sue gambe, tenendo sempre ben premuto l’acciaio contro la tempia, stringendo forte la mano - una mano che avrebbe dovuto colpirla e che invece restava inerme sul bracciolo - come a cercare di trattenerlo o di trasmettergli qualcosa: «Se avessi lasciato in vita la mamma,» e qui capì che sua figlia si aspettava una sorpresa che nei suoi occhi non c’era - Lena era in gamba, il fatto che fosse a conoscenza di quella storia non lo stupì, per nulla: «Avrei potuto salvare lei, o sfruttarla, o liberarmene.» fece una pausa. «Perciò, cerca di capirmi. Mi devi quest’ultimo sacrificio.»
Le doveva quell’ultimo sacrificio. Gli veniva da ridere, per quella stronzata, e pure da chiederle scusa, aveva una strana voglia di chiederle perdono per chissà quale motivo. Invece disse:
«E allora che aspetti?» guardandola male, come se tutto quel tempo perso in chiacchiere inutili lo avesse deluso. Lena vacillò un attimo, giusto un attimo prima di premere il grilletto.
I giornalisti avevano invaso la casa. Erano ovunque, sui balconi, in giardino, alcuni tentavano di entrare dal camino per domandare, domandare, domandare. Non aveva avuto bisogno di fingere quando la trascinarono via, non aveva avuto bisogno di fingere di essere sotto shock - tutto quel sangue, il viso di suo padre, il viso di suo padre - dovette sforzarsi di far uscire qualche lacrima, questo sì, ma il resto era decisamente vero. Era vero lo sguardo perso, e il balbettio - non aveva mai balbettato, prima, era come se le frasi pensate non riuscissero ad arrivare alle labbra, era come se le parole si rifiutassero di essere pronunciate.
Aveva mal di testa, voglia di vomitare ed era stanca. Riusciva a capire solo questo - e che aveva superato il limite. Aveva capito anche di aver fatto qualcosa di estremamente sbagliato, e non si trattava solo di uccidere una persona. Non era solo quello.
«La versione alla stampa è stata confermata dalle autorità, signorina Luthor.» l’aveva gentilmente informata Mario, porgendole una bustina di analgesico e un bicchiere d’acqua. «Suo padre ha nuovamente cercato di aggredirla. Lei è riuscita a prendere la pistola che il signor Luthor portava sempre con sé, e a sparargli.» rimase in silenzio: «Abbiamo già provveduto a modificare ogni prova perché questa versione non venga mai messa in dubbio.»
«Bene.» bisbigliò, a testa bassa.
«Domani ci sarà una conferenza stampa a cui seguirà un periodo di silenzio, cinque giorni più o meno, per far assorbire la notizia al pubblico.» e fingere che Lena fosse sconvolta da dolore. «Dopo di che, l’incontro con la nuova JLA.» il gruppo sarebbe stato costretto a farle le condoglianze, a scusarsi con lei, ad accettarla. «Pensa di farcela?»
Lena alzò lo sguardo verso la sua guardia del corpo. Sorrise: «Certo che posso. Sono una Luthor.»