Titolo: All that glitters
Fandom: Jeeves & Wooster
Pairing: Bertie/Jeeves, Bertie (jr.)/Vince (OMC/OMC)
Rating: NC-17
Conteggio Parole: 11.900 (W)
Parte: 1/2
Scritta per: Settimana #4 (p0rnofluff) del
Fluffathlon @
fanfic_italiaNote: Questa fic precede di qualche mese
La mirabolante storia del dito-cipolla. Bertie jr. e Vince sono miei. MIEI MIEI MIEI.
Bertie Wooster, dei Wooster del Worcestershire, aveva ventitré anni e un problema.
I ventitré anni erano a posto: erano anni regolari, di trecentosessantacinque giorni (trecentosessantasei i bisestili), ed erano ventitré. Erano trascorsi come di solito fanno gli anni, uno dopo l’altro in fila ordinata come le porte del croquet, e Bertie li aveva attraversati tutti col vento in poppa come una palla sospinta dal giusto colpo di mazza.
Il problema, invece. Tanto per cominciare, a lui non sarebbe piaciuto sentirsi definire così, e per questo Bertie stava bene attento a farlo solo nel sicuro silenzio della sua mente. Perché il problema aveva occhi e orecchie acuti e una personalità tutta sua, e se avesse saputo - o anche solo sospettato - di costituire un problema per qualcuno, ne sarebbe stato ferito, oh, immensamente. Non l’avrebbe dato a vedere. No, non l’avrebbe dato a vedere. Ma Bertie l’avrebbe saputo.
Un altro se ne sarebbe liberato in quattro e quattr’otto. Dopotutto i dipendenti andavano e venivano; e non era stato proprio lui a dirgli che un domestico non può aspettarsi di conservare il proprio posto per sempre? Di solito è questo che si fa coi problemi. Si eliminano. Si scacciano.
Ma era proprio questo il punto: Bertie non aveva nessuna voglia di liberarsi del suo problema. Già gli saliva un brivido di emozione al solo pensarlo, come suonava bene, suo, sia pure per mera contingenza grammaticale, suo, il suo problema, il suo domestico, suo e di nessun altro.
Naturalmente, di questo tripudio di aggettivi possessivi il diretto interessato non sapeva nulla, per quanto Bertie si chiedeva se non gli fosse nato qualche sospetto dopo averlo trovato addormentato, esausto e completamente ubriaco, nel suo letto, il naso ben affondato nel cuscino che tratteneva il suo odore. O dopo quella volta in cui Abigail Cheesewright gli aveva annunciato che mai e poi mai l’avrebbe sposato, e per la gioia Bertie gli era saltato in braccio e gli aveva stampato un bacio vicino all’orecchio.
Comunque fosse, se Bertie Wooster voleva che il problema cessasse di essere un problema e diventasse (che cosa? non osava neppure pensarlo) qualcosa di meno problematico, c’era una sola cosa da fare.
Jeeves aprì la porta e, vedendo di chi si trattava, un angolo della sua bocca scattò leggermente verso l’alto.
“Salve, Jeeves” disse Bertie, ficcando le mani nelle tasche per fermarne il nervosismo. “Ti posso parlare per cinque minuti? Se non hai niente da fare, cioè.”
“Buon pomeriggio, Albert. Con piacere. Accomodati.”
Il più giovane dei Wooster (ex aequo col gemello Rupert) entrò nell’appartamento lanciandosi occhiate furtive a destra e a sinistra. “Lo zio è in casa?”
“Non al momento. Aveva un appuntamento con Mr. Wright per la correzione delle bozze di stampa. Dovrebbe essere di ritorno tra non molto.”
Bertie si lasciò cadere sulla poltrona preferita dello zio - una vecchia abitudine di monello, lo zio Bertram odiava che lo facesse - e permise a tutta l’aria nei suoi polmoni di uscire con un gran sospiro. Guardò l’uomo che l’aveva cresciuto per metà della sua vita, la metà in cui aveva avuto bisogno di qualcuno che lo tirasse fuori dai guai. Dal basso sembrava una quercia, i capelli quasi del tutto grigi ma floridi e pettinati con gusto impeccabile, l’uniforme nera che talvolta Bertie si chiedeva se si levasse mai - magari durante uno di quei favolosi viaggi tropicali per i quali lui e lo zio sparivano almeno una volta all’anno.
“Hai qualche problema di cui vorresti parlare con me, Albert?” gli domandò Jeeves, garbatamente, porgendogli un bicchiere di whisky & soda su un vassoio lucidato a specchio.
Bertie annuì. “È… è più di un problema, Jeeves. È una catastrofe. Se mio padre, o… o mia madre… o Rupert… Grazie” mormorò, prendendo il bicchiere. “Se lo scoprissero, io davvero non so, Jeeves. Penso che mi caccerebbero di casa. Ma non è neppure questo il problema, giuro che non me ne importerebbe nulla se solo lui volesse… se lui non… Puoi sederti, per favore, Jeeves? Mi sta venendo il torcicollo.”
Jeeves girò intorno al tavolino e prese posto sul divano vicino a lui. “Credo che aiuterebbe la comprensione, Albert, se tu riuscissi a raccontarmi tutta la storia dall’inizio e con calma, lasciando da parte ciò che potrebbe o non potrebbe accadere.”
“Non è così facile” sospirò Bertie, infelice. “È… è una cosa delicata. Ricordi quando… voglio dire.” Prese un gran respiro. “Ricordi quella volta quando tu e lo zio avete dimenticato di chiudere la porta a chiave?” Arrossì intensamente. “Quel discorso che mi avete fatto sulle api e i fiori, e quelle altre api a cui non piacciono i fiori?”
Jeeves accennò un sorriso indulgente. “Ricordo perfettamente, Albert. Sarà un decennio il mese prossimo.”
“Ecco. Io…” Si fece forza con un altro sorso di whisky. “È molto tempo che ci penso, Jeeves. Anni, in effetti. E penso di essere una di quelle api lì. No, dimentica quello che ho detto. Non lo penso. Io lo so.” Alzò lo sguardo con una certa timidezza, come aspettandosi - del tutto irrazionalmente - che Jeeves lo rimproverasse per quello che gli aveva appena confessato.
“Ma non è questo il cuore del problema” lo incalzò Jeeves, gentilmente.
“No” confermò Bertie. “Voglio dire, se i miei lo sapessero sarebbe… ma no, non è questo. È che… c’è una persona, Jeeves. E io sono perso. Sono completamente, completamente cotto. Mi potresti mettere in piatto e servire come un raviolo.”
Lo sguardo intento nella contemplazione del suo whisky, Bertie non notò il rapido sorriso di Jeeves; ma preso com’era dai suoi problemi, non si sarebbe comunque accorto di aver appena fatto una battuta che pareva uscita dalla bocca di suo zio.
“È per caso una persona di mia conoscenza, Albert?”
“Sì” bisbigliò.
“La persona in questione è piuttosto alta, bionda di capelli, con una deplorevole tendenza al turpiloquio?”
Bertie gemette, coprendosi gli occhi con una mano. “Sì, sì, sì. È tutto sbagliato, Jeeves. Non c’è una cosa giusta in questa storia comunque la guardi. È un uomo, e… e lavora per noi, e non gli sto neanche tanto simpatico. E poi è normale, lui. Se glielo dico non mi vorrà più toccare neanche con una canna da pesca.” Spostò la mano. Aveva un velo di umido sugli occhi. “Che devo fare, Jeeves?”
Jeeves recuperò la bottiglia dal tavolino e gli rabboccò il bicchiere, perché le mani di Bertie avevano iniziato a tremare.
“Prima di tentare di divinare i sentimenti dell’altra parte, Albert, credo che la cosa più ragionevole da fare sia accertare i propri. Per quanto diffusamente se ne parli, l’amore è un sentimento sfuggevole e facile da fraintendere. Nel tuo caso è interamente possibile, per esempio, che si tratti di un puro desiderio fisico. Dopotutto,” aggiunse, cautamente, “Mr. Sadler è un giovane piuttosto attraente.”
“Jeeves!” esclamò Bertie. “Come fai a pensare una cosa del genere? Se volessi solo… se volessi solo quello, potrei andare a quel club in Mulberry Street e trovarmene quanti ne voglio.”
Era un’esagerazione, naturalmente. Bertie non sarebbe mai andato a Quel Club In Mulberry Street, ma era per spiegare il punto.
Jeeves inarcò il sopracciglio di una frazione di centimetro. “Confesso che mi sorprende sentirti menzionare il locale in questione. Posso domandare chi…?”
“Ah” disse Bertie, arrossendo. “È stato lo zio Bertie, in realtà. Non che volesse davvero parlarmene, voglio dire, ma gli è scappato. Sai come allo zio ogni tanto scappano le cose che non dovrebbe dire.”
Jeeves annuì. “Ho una certa familiarità col fenomeno” ammise, con un lampo di tenerezza nello sguardo. “Ma per tornare al tuo problema, Albert - devi perdonarmi se sento il bisogno di domandartelo direttamente, ma non posso consigliarti se gli elementi in mio possesso non sono del tutto chiari. Che cosa provi esattamente per Mr. Sadler?”
“Sono innamorato” rispose Bertie, senza esitare, ma con un’espressione profondamente angosciata in viso. “Non ho scritto una riga in tre mesi e sono andato cinque volte alle corse dei cavalli. Cinque volte, Jeeves. Non so Vincent che ci trovi di divertente, ma ci passerei tutta la vita solo perché a lui piacciono. Non può essere normale sentirsi così. Se una mattina mi svegliasse chiedendomi di accompagnarlo in Australia, partirei in pigiama e pantofole.”
Jeeves corrugò nettamente la fronte.
“Solo un modo di dire, Jeeves. Scusami.”
“Per quanto ti riguarda, Albert, la questione mi sembra chiara. Ora, cosa ti fa credere di non piacergli?”
“Tutto” mormorò Bertie, scuotendo la testa. “Non abbiamo niente in comune. Lui passa le sue serate libere a divertirsi e bere in taverna coi suoi amici giù in paese. La mia idea di una serata divertente è una sigaretta, un bicchiere di brandy e la Critica della Ragion Pura. E poi, quando siamo insieme, a malapena mi parla. Anche oggi, vedi, mi ha accompagnato fino a qui e per tutto il viaggio in macchina non ha detto una sola parola. Ma se gli chiedo se preferisce restare da solo, ecco che riaffiora quel maledetto spirito feudale o come lo chiami e allora è tutto”, corrugò la fronte, imitando una voce molto più bassa e profonda della sua, “‘No, signore, apprezzo molto la sua compagnia’ e così via, e non ci vuole un genio per capire che quello che intende davvero è ‘Sì, Wooster, vai al diavolo, se non ti dispiace’. Quando gli ho chiesto se aveva voglia di bere qualcosa con me, è diventato un pezzo di ghiaccio. È stato terrificante, Jeeves, avresti dovuto vederlo. Mi ha detto in faccia che non gli sembrava proprio il caso, perché io non reggo l’alcool.” Fece un sospiro tremulo, tirando vigorosamente su col naso. “Mi odia. Me lo sento, Jeeves. Mi odia ma non me lo può dire, perché pensa che io lo farei licenziare.”
Jeeves estrasse il fazzoletto, porgendoglielo senza commenti. Quando il momento di crisi fu passato, osservò: “Con tutto il rispetto, Albert, ho l’impressione che a volte, quando sei con il tuo giovane amico, ti sfugga la consapevolezza di parlare e trattare con un membro della servitù. La dissimulazione è un’arte scomoda ma necessaria, che gli appartenenti alla mia classe imparano prima di ogni altra. Questo può rendere difficoltosa la reciproca comprensione.”
“Ma cosa c’è da capire?” ribatté Bertie. “L’hai visto anche tu, quando siete venuti a Steeple Bumpleigh. Mi tratta come un moscone che gli ronza intorno e che non può scacciare perché ha le mani legate.”
“Non ricordo di aver visto nulla del genere, Albert” rispose Jeeves. “Ricordo piuttosto che Mr. Sadler ti sosteneva a ogni passo, benché le stampelle fossero perfettamente in grado di svolgere il medesimo compito.”
“Questo…” obiettò Bertie, avvampando, “non significa niente, Jeeves. Avevo una gamba ingessata. Era solo… È una persona gentile, Jeeves. È fatto così. L’avrebbe fatto per chiunque.”
“Ma se non erro, Mr. Sadler lavora nelle cucine? Accompagnarti per una passeggiata in giardino esula dalle sue competenze.”
“Gliel’avevo chiesto.”
“E Mr. Sadler ha accettato.”
“Be’, non poteva certo dirmi di no, non è vero? Sono il padrone” replicò Bertie, amaro.
“Poc’anzi mi raccontavi di come Mr. Sadler sia stato perfettamente capace di dirti di no in un’altra occasione.”
“Sì” sospirò Bertie, massaggiandosi gli occhi arrossati. “È vero. Che significa, Jeeves?”
Jeeves restò in silenzio per qualche secondo. “Non pretendo di detenere la verità in questo caso, Albert.”
“Sciocchezze, Jeeves. Tu sai tutto. Tu sai sempre tutto.”
“Il punto, Albert, è che, anche ammesso che desiderasse farlo, Mr. Sadler non avrebbe potuto accettare il tuo invito. Datori di lavoro e dipendenti non bevono insieme. Certamente Mr. Sadler si è preoccupato di cosa avrebbe pensato la gente.”
“Che cosa avrebbe… Che cosa dovrebbe pensare la gente, Jeeves?” scattò Bertie, animandosi. “È mai possibile che i primi due uomini che bevono qualcosa assieme debbano necessariamente passare per due pervertiti?” Scosse la testa, rendendosi conto troppo tardi di cosa aveva detto. “Scusami, Jeeves. Non volevo dire… Non so quello che volevo dire.”
“So cosa intendevi dire, Albert. Ma per quanto il problema a cui alludi sia molto serio, io mi riferivo piuttosto a un’altra questione. Che cosa penserebbero i colleghi di Mr. Sadler se sapessero che lui - e solo lui - intrattiene rapporti amichevoli con il “padrone” fuori casa? Ne nascerebbero invidie e discordie, e Mr. Sadler certamente non vuole che questo accada.”
“Gli renderebbero la vita impossibile, dici?”
“Precisamente.”
“Non lo so, Jeeves.” Bertie si passò le mani tra i capelli, arruffandoli. “Non lo so. Vince è sempre così… burbero, credo. Non si capisce mai quello che pensa. E io non sono intelligente come te. Noi Wooster non siamo mai stati molto dotati in quel versante. Quando parlo con Vince ho l’impressione di non riuscire a cogliere niente di quello che dovrei, neanche le cose più evidenti. Penso che mi sfuggirebbe anche un elefante nascosto dietro un cartello stradale.”
Jeeves gli strinse la spalla nella mano, leggermente. Era un gesto raro da parte sua, e per questo fece ancora più effetto. “Ti prego di non pensare nulla del genere, Albert. Sei uno degli uomini più intelligenti e colti che io conosca.”
Erano ancora fermi in quella posizione quando si udì un tintinnio di chiavi da fuori la porta. Un istante dopo, Bertram Wooster comparve sulla soglia con un grosso fascio di carte strette in equilibrio precario sotto l’ascella.
“Salve a tutti!” esclamò il padrone di casa, gioviale, posando le chiavi sul tavolino, il bastone da passeggio nella rastrelliera, e seminando fogli di carta lungo il suo passaggio. “Jeeves, abbiamo… Be’, l’hai visto da solo che abbiamo ospiti, suppongo.”
“Sì, signore, la cosa non mi era sfuggita” rispose Jeeves, che era scattato in piedi con buon anticipo, prendendo il mucchio di carte dalla sua stretta malferma.
Da dietro la sua schiena apparve un giovane di meno di trent’anni, di un biondo scuro, con gli occhi più grigi che si fossero mai visti. Quando non sorrideva - e non sorrideva quasi mai - quegli occhi erano gravi, intimidatori. Porse a Jeeves i fogli che aveva raccolto lungo la strada.
“Grazie, Mr. Sadler” disse Jeeves, mettendo in salvo la pila di carte sul mobile più vicino e chiudendo la porta alle sue spalle.
“Ah, quanta bella gioventù” dichiarò Bertie senior, porgendo il cappello al suo valletto. “Come stai, nipote? No, non ti alzare. Farò finta di non aver notato che ti sei accomodato ben bene sulla mia poltrona mentre non c’ero. Vince, sii gentile, smettila di stare lì impettito come un palo della luce e siediti sul divano, ti dispiace?”
“Sto comodo qui in piedi, signore” obiettò l’interpellato. “Con permesso, tolgo il disturbo.”
“È ora di andare, vero, Vince?” chiese Bertie, speranzoso, già iniziando ad alzarsi dalla poltrona. Non c’era nulla al mondo di più imbarazzante che restare soli in una stanza con suo zio Bertram e Vincent Sadler. Si sarebbe fatto scorticare appeso a testa in giù, piuttosto.
“No, signore” rispose Vincent, che evidentemente non aveva colto il segnale. “Abbiamo ancora un’ora, se preferisce. Con permesso, la aspetto giù in strada.”
“Sciocchezze. Seduto, giovane Vince. Giovane Al, non pensare neanche di alzare il fondoschiena dalla mia comodissima poltrona. Il whisky è già fuori; ottimo, servitevi. Jeeves, con me in cucina per un minuto.”
E così Bertie e Vince rimasero soli in salotto.
“Non pensavo che mi stessi aspettando in strada” disse Bertie, per iniziare una qualche sorta di conversazione. “Pensavo fossi ancora da tua madre a Brixton.”
“È tutto a posto, signore” disse Vince. “Ho finito prima.”
“Hai aspettato molto? Potevi salire a dirmi di scendere.”
Vince lo guardò come se avesse detto qualcosa di molto stravagante. “Ho aspettato solo qualche minuto, signore. Poi Mr. Wooster - ha insistito.” Si guardò intorno, a disagio. “Whisky, signore?” Prima di aspettare la risposta, gli aveva già riempito il bicchiere fino all’orlo e versata qualche goccia sul vassoio.
“Solo se bevi anche tu” ribatté Bertie, ignorando la voce di Jeeves nella sua testa che gli ricordava ‘inappropriato, inappropriato’. Ma non erano in un locale pubblico, nessuno li avrebbe visti stavolta. E suo zio adorava Vincent in maniera così plateale che Vincent non poteva pensare che avrebbe disapprovato, dopo averlo espressamente invitato a servirsi.
“Signore, non credo che…”
Ma Bertie stava già marciando verso la cucina alla ricerca di un altro bicchiere. Vi trovò Jeeves e suo zio, in piedi ad almeno un metro l’uno dall’altro, ma con un’aria strana e furtiva in volto e le guance un po’ troppo rosse - soprattutto Jeeves, che era sempre così pallido. Ristette un attimo prima di capire cosa aveva interrotto.
“Uh. Scusate” borbottò. “Non volevo… Non intendevo… Cercavo solo un bicchiere” terminò pateticamente, fissando il pavimento.
“Nessun problema” disse lo zio Bertie, mentre Jeeves prendeva un bicchiere dalla credenza. “Solo una vecchia tradizione. Bacio di bentornato e così via.”
Bertie sorrise, sollevato di scoprire che apparentemente l’unico a disagio era lui stesso. L’argomento non era mai stato facile, neanche quando Bertie si era fatto più grande e suo zio aveva smesso di fingere che Jeeves non fosse il suo compagno e l’amore di tutta una vita. Ma - e Bertie sospettava che questo fosse principalmente dovuto alla riservatezza di Jeeves - non si erano mai lasciati andare a effusioni di fronte a lui, e a Bertie stava bene così. A nessuno piace vedere i propri parenti in intimità.
Lo zio Bertie si accese una sigaretta, guardandolo con uno strano sorriso. “Allora” disse piano, lanciando uno sguardo alla porta come per controllare che fosse sempre chiusa, “come procede?”
“Che cosa, zio?”
“Con Vince. Come procede?”
Bertie arrossì e lanciò un’occhiataccia a Jeeves, che scosse la testa. “È stata una deduzione del tutto autonoma da parte di tuo zio, Albert.”
“Deduzione? Cosa c’è da dedurre? Il ragazzo è cotto come una pera cotta.” Aspirò una boccata meditativa. “Parlo di Vince, ovviamente. Avete già…” cambiò idea a frase iniziata, “parlato?”
“Che cosa hai detto, zio?” bisbigliò Bertie, improvvisamente a corto di fiato.
“Chiedevo se avete già…”
“No, no. Prima. Prima.”
“Che Vince è pazzo di te? Be’, ma non ci vedo niente di nuovo, Al, ragazzo mio. L’hanno capito anche i muri, su a Steeple… Al? Ti senti bene?”
“No” mormorò Bertie, che aveva assunto un delicato color verza. “Zio, come fai a… a dire che…”
“Ragazzo mio, ma non è evidente? Ti guarda con gli occhi di triglia quando pensa che nessuno se ne accorga. E poi fa quella cosa che faceva sempre Jeeves - prima del ’27, voglio dire - ti guarda con la coda dell’occhio, fingendo di puntare, non so, a un vaso di fiori o a un posacenere. Ah, deve fare un gran male alla vista.” Gli diede un colpetto di incoraggiamento sul braccio. “Trentasette fidanzamenti scampati mi hanno insegnato qualcosa, giovane Al. Quasi nulla, per la verità, ma una cosa importante sì: so perfettamente che sguardo ha una persona quando vuole impalmarne un’altra. Tu non sei avverso alla prospettiva di farti impalmare, non è così, Al?”
“Zio, io non… Davvero, ti sbagli. Non gli piaccio neanche. Sono la persona più noiosa che sia mai esistita.”
“Fesserie. Ora torna di là e intrattieni il tuo… cos’è che fa, comunque?”
“Aiuto-cuoco” mormorò Bertie, stordito.
“Aiuto-cuoco” ripeté. “E non preoccuparti, Jeeves e io abbiamo diverse cose da discutere da questa parte. Vai tranquillo.”
Così dicendo, lo sospinse vigorosamente fuori dalla cucina.
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Quando Bertie ritornò in salotto, Vince scattò in piedi. Era visibilmente a disagio; i suoi occhi erano più cupi e taglienti che mai e la destra aveva iniziato a giocherellare coi bottoni della giacca.
“Ecco qui” disse Bertie, posando il bicchiere sul vassoio e riempiendolo. Glielo porse. “Non restare in piedi.”
“Signore” iniziò Vince, con voce più ferma, “preferirei aspettare in strada.”
“Non vuoi bere con me?” domandò Bertie, lentamente.
Vince fece la faccia di uno che ha appena ricevuto uno schiaffo in pieno volto. “Certo che voglio.”
“Allora perché trovi sempre una scusa per rifiutare?”
“Non è che non voglio. È che non è giusto bere assieme io e lei. Non è…”
“Appropriato?”
“Sì, signore” sospirò Vince.
“Be’, sai cosa ti dico? Non mi importa di cos’è appropriato e cosa no” ribatté Bertie, serrando la mascella. Gli spinse il bicchiere tra le mani. “Sei a casa di mio zio, che ti ha detto di sederti e bere. Quindi, Sadler, siediti e bevi. È un ordine.” Bertie non dava mai ordini - proprio lui, che quando da bambino giocava con Rupert a re e servo faceva sempre il servo, perché non aveva proprio l’autorità per fare il re - e si sentì subito riscaldare la faccia per l’assurdità del proprio tono, ma Vincent non fece una piega.
“Come vuole lei, signore” rispose, impeccabilmente formale. Tornò a sedere lentamente e portò il bicchiere alle labbra, prendendo un sorso.
Il silenzio ristagnò per quasi un minuto come un cattivo odore.
“Tua madre sta bene, sì?” disse Bertie, depresso dalla mancanza di conversazione, ma ormai quasi rassegnato alla sua inevitabilità.
“Sì, signore. Grazie.”
“L’influenza le è passata, vero?”
“Sì, signore.”
“Anche Eddie sta bene, vero? Come si trova a Brighton?”
“Si trova bene, signore.”
“Come sono le ragazze? Quando ero piccolo Jeeves mi raccontava storie assolutamente terrificanti sulle ragazze della scuola per cui lavorava.”
“Sono un po’ prepotenti, signore. Ma Eddie non si lamenta.”
“No, credo proprio di no. Non è il tipo, eh?”
“No, signore.”
Bertie tamburellò le dita sul bracciolo della poltrona, concedendosi un lievissimo sospiro. Questa era la prova. Di cosa potevano mai parlare? Di solito Bertie si limitava a blaterare per ore di Shakespeare e Pascal e della moderna poesia americana e Vincent ascoltava e annuiva, probabilmente lanciando occhiate di soppiatto all’orologio e sperando che la finisse il prima possibile. Che cosa potevano mai avere in comune, se non riuscivano neppure a scambiare due parole? Se anche - Bertie si sentì mancare il fiato al pensiero - se anche Vince avesse potuto, magari, per un caso della vita, trovare vagamente interessante l’idea di una conoscenza più… più… intima, ecco - dovette mandare giù un sorso di whisky all’istante, o non ce l’avrebbe fatta - anche in quel caso, quanto sarebbe potuta durare una storia del genere? Vince si sarebbe stancato di lui e del suo blablabla prima della fine del mese.
“Forse dovremmo andare, che dici, Vince? Per arrivare a casa prima che faccia buio.”
“Vince, ragazzo mio!” squillò la voce dello zio Bertie dalla soglia della cucina. La testa dello zio fece allegramente capolino dalla porta. “Abbiamo un problema con una…” si voltò per un attimo, “con una lampadina fulminata. Mi daresti una mano a cambiarla? Jeeves ha un tremendo mal di schiena quest’oggi e ho paura che cada dalla scala. Sai com’è, la vecchiaia e tutto il resto.”
“Certamente, signore” disse Vincent. E sparì in cucina proprio mentre Jeeves ne veniva fuori con una vaga smorfia di disapprovazione.
“Mi dispiace per il tuo mal di schiena, Jeeves” disse Bertie.
“Ti ringrazio, Albert, ma non soffro di alcun mal di schiena. Inoltre, ho constatato il perfetto funzionamento di tutte le lampadine proprio questa mattina.”
Bertie allargò leggermente gli occhi. “Jeeves, non possiamo lasciarglielo fare! Lo zio non è capace di fare… discorsi. Ricordi quando ha raccontato a Amy Bassington-Bassington di quella volta che Rupert si è messo la mostarda nelle mutande? Oh mio Dio.”
“Se devo essere onesto, Albert, neanch’io approvo la decisione di tuo zio di parlare con Mr. Sadler, ma ho fiducia nelle sue capacità diplomatiche, che sono più vaste di quanto la maggior parte delle persone non sospetti. Miss Bassington-Bassington, in ogni caso,” aggiunse in tono vagamente sussiegoso, “non sarebbe stata una buona moglie per tuo fratello.”
“Perché non me l’ha chiesto? Perché non ha parlato con me prima di… Non sono più un bambino, per l’amor del Cielo!”
“Dubito che a muovere tuo zio sia stata alcuna considerazione sulla tua maturità, Albert.”
Ma Bertie non lo stava più ascoltando. Schiacciando l’orecchio contro la porta della cucina, chiuse gli occhi e pregò che lo zio non rovinasse la sua vita in cinque secondi netti, com’era perfettamente in grado di fare. Nel qual caso, pensò ricordando le storie della sua infanzia, avrebbe provveduto a spezzargli la spina dorsale in otto parti.
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“È questa la lampadina da cambiare, signore?” chiese Vincent, indicando il lampadario sopra le loro teste.
“Uhm? Oh, sì. Sì, è questa.”
“Ma funziona, signore” osservò Vincent, provando un paio di volte l’interruttore sul muro e constatando che la lampadina si accendeva e spegneva regolarmente.
“Davvero?” Lo zio Bertie corrugò la fronte, studiando la luce rigogliosa e per nulla fulminata come se la vedesse per la prima volta. “Hai ragione. Che sbadato. Queste lampadine ti giocano sempre strani scherzi, non è vero? Voglio dire, si fulminano all’improvviso, non ti mandano mica un telegramma per dirti ‘ehi, dopodomani smetto di funzionare’, giusto? Non sapendo quand’è che la ragazza si deciderà a schiattare, uno si può anche sbagliare e così via. Eccesso di zelo, lo chiamo io.” Lasciò ricadere le mani sui fianchi con un tonfo. “Oh, be’. Meglio così.”
“Sì, signore” rispose Vincent. “Se non le serve il mio aiuto…”
“Oh, ma mi serve” ribatté lo zio Bertie. “Siediti un minuto, ti dispiace? Ti devo dire una parola.” Vincent lanciò uno sguardo alla porta, esitando. “Al non se la prenderà se lo fai aspettare un minuto” lo rassicurò lui. “Siediti.” Allontanò una sedia dal tavolo, e si accomodò su quella vicina.
“Come vuole, signore” disse Vincent, senza entusiasmo.
“Il punto è, ragazzo mio” iniziò il più vecchio, grattandosi la nuca, “che te lo devo confessare, sono molto affezionato a mio nipote Albert. Molto, molto affezionato. Molto.”
“Sì, signore” rispose Vincent, cauto.
“Non fraintendermi, sono affezionato anche a te” continuò. “Sei un bravo ragazzo, gran lavoratore, buona compagnia. Ma il sangue di famiglia è un’altra cosa. Non si può lavare via con l’acqua. O col vino. O col detersivo. Neanche con quegli sbiancanti super che trovi in tutti i manifesti. No, non si può. Quando sono cresciuto io, ci veniva insegnato che il sangue di famiglia era una cosa dannatamente importante.”
“Sì, signore” assentì Vincent.
“Ti starai chiedendo perché ti dico tutto questo.”
“Sì, signore.”
“Il punto, Vince, ragazzo mio, è che gli occhi di Bertram Wooster non sono oggettivamente più buoni come una volta, specialmente quando si tratta di leggere le scrittine in piccolo sui contratti e roba simile, ma da lontano sono ancora acuti e funzionanti come un tempo. E ti ho guardato molto da lontano quest’estate a Steeple Bumpleigh.”
“Signore?”
“Al è un bravo ragazzo.”
“Sì, signore, lo so” disse Vincent.
“Passa un po’ troppo tempo col naso tra i libri, ma ognuno si svaga come preferisce, no? Anche Jeeves è così. È una malattia comune tra i tipi intellettuali, sempre a leggere libri istruttivi e cose del genere. Ma a parte questo, Al è una splendida persona. Una delle migliori che troverai mai in giro. Bel ragazzo, anche. Sei d’accordo?”
“Sì, signore.”
“Ora ho un problema, Vince.”
“Signore?”
“Non so bene come dire quello che sto per dire senza che suoni nella maniera sbagliata. Non so a te, ma a me capita tutto il tempo. È una cosa sgradevole. Quindi magari io lo dirò come mi riesce e tu cercherai di non sentirlo troppo nella maniera sbagliata, che dici? Aiutami per un momento.”
“Va bene, signore.”
“Non è semplice, capisci.”
“No, signore.”
Lo zio Bertie meditò per un momento. “Il punto, mio caro ragazzo, è questo. Tu vuoi portarti a letto mio nipote.”
“Signore!” esclamò Vincent.
“No, vedi, non ho obiezioni - certo, ammesso che lui sia d’accordo.”
“Signore, io non… le assicuro che non ho alcuna intenzione di…” mormorò Vince, pallidissimo.
“Ti avviso, non va per niente bene se lui non è d’accordo. Dovessero giungermi voci sul fatto che Albert in effetti non è d’accordo, mi troverò costretto ad avere numerose obiezioni a proposito di una liaison tra voi due. Tu mi capisci. Non può funzionare se uno dei due non è d’accordo, è una storia condannata in partenza.”
“Signore, si sta sbagliando. Io sono… sono una persona normale.”
“Oh, ma lo so che sei un gentiluomo. Nessun dubbio in proposito. Be’, finora, quantomeno.” Giocherellò con la catena dell’orologio. “Il problema, Vince, è che potresti anche non esserlo. Voglio dire, so che lo sei. Ma mettiamo che tu non lo sia. Mettiamo, non so, per ipotesi - non sono bravo nel pensiero astratto, ma proviamoci per un momento - mettiamo che tu faccia del male a mio nipote. In un modo qualsiasi. Riesci a immaginarne almeno uno?”
“Io non gli farei mai del male” bisbigliò Vincent.
Lo zio Bertie valutò la risposta per un attimo, poi sorrise lentamente. “Allora non c’è problema. So che sei un bravo ragazzo, Vince. Davvero. Ma capiscimi, devo farti questo discorso. Qualcuno deve farlo, e se questo qualcuno fosse mio cugino Claude, saresti steso prima di arrivare alla parte in cui vi sedete e cominciate a parlare. Dico sul serio, sarebbe una pessima idea lasciare l’incombenza a mio cugino. Ha preso dal ramo Gregson della famiglia, capisci.”
“Signore” mormorò Vincent, “lo vuole dire a Mr. Wooster?”
Lo zio Bertie inclinò la testa da un lato e corrugò la fronte, come se la domanda richiedesse uno sforzo di concentrazione. “Dirlo a Claude? Oh, no, no, no! Non farebbe bene a nessuno. È un’ottima persona, Claude, ma dopo la morte di Eustace - il padre di Al e Rupert - è diventato un filo… oh, iperprotettivo, direi. Ragazzo, ti senti bene? Sei bianco come il gesso.”
“E… e a Bertie?” gracchiò Vincent, senza voce.
“A Bertie cosa?”
“Glielo dirà? Di… di me?”
“Be’, francamente, Vince, penso che dovresti farlo tu. Trova la giusta atmosfera, magari portalo fuori per una passeggiata in giardino, roba del genere. Evita di regalargli i fiori, coi ragazzi non funziona bene. Credo. Ma se hai bisogno che metta una buona parola per te, penso di poter…”
“Signore, la prego, non…” Si prese la faccia tra le mani. “Non è divertente.”
“No” assentì lui, preso in contropiede. “Certo che no.”
“Mi insulti, se vuole. Mi minacci. Mi faccia licenziare o arrestare. Ma non mi prenda in giro.”
“Ma ragazzo mio, qui nessuno ti sta prendendo in giro.”
Vincent alzò lo sguardo, sussultando. “Lei davvero non ha niente da ridire se io… Con suo nipote!”
“Non avrei da ridire neanche se fosse il principe del Galles, ma mi risulta che sia un certo Albert Wooster a tenerti una bella corda di canapa stretta intorno al cuore.”
Vincent lo guardò con gli occhi sgranati, incredulo, ma durò solo un istante. In un secondo tornarono cupi e agitati come un mare in tempesta. “Mr. Wooster, lei mi deve giurare che non glielo dice. Che non gli dice che ho questa… malattia.”
“Malattia?” ripeté lo zio Bertie, considerando la parola come se non l’avesse mai sentita prima. Fece per dire qualcosa, ma poi sembrò ripensarci. “Ma certo, ma certo. Come ho già detto, è una cosa che devi fare tu. Personalmente, ti consiglierei di approfittare di…”
“No. Bertie non deve sapere niente.” Si passò le mani tra i capelli. “Non voglio rovinarlo. Non voglio farlo diventare come me. Forse lei ha pensato che guardavo solo ai soldi, signore, ma non è così. Non gli dirò niente. Non lo toccherò neanche con un dito. Non posso, capisce? Non posso” bisbigliò, terrorizzato.
“Su, su” borbottò lo zio Bertie, alzandosi per battergli qualche pacchetta amichevole sulla spalla. Poi la pacca amichevole divenne un abbraccio scomodo, e infine Vincent gli circondò la vita con le braccia, la faccia premuta a fondo nella stoffa della sua camicia - la camicia di un uomo che avrebbe potuto essere suo padre, che profumava di bucato fresco e di colonia all’ultimo grido.
“Su, su” ripeté Bertram Wooster, passandogli una mano sui capelli. “Non è mica la fine del mondo. Dovrete starci attenti, ecco tutto. Devo ricordarmi di dire ad Al di finirla di guardarti come una rapa bollita, altrimenti se ne accorgerà anche sua madre. E non sarebbe un bene per nessuno. Oh, no, proprio no.”
Vincent risucchiò l’aria nella gola come se avesse appena ingoiato un singhiozzo. “Che cos’ha detto?”
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Della conversazione Bertie aveva capito poco e niente. Parlavano troppo piano (Vince), troppo confusamente (lo zio), troppo farfugliando e mangiandosi le parole (sempre lo zio). Ma aveva colto quanto bastava a farsi un’idea piuttosto precisa delle intenzioni di Vince. O per meglio dire, delle sue non-intenzioni. “Io sono una persona normale” aveva detto. E “Non lo toccherò neanche con un dito”. E poi aveva usato la parola “malattia”, il tutto mentre suo zio blaterava di giardini e fiori e corteggiamento e probabilmente non aveva neanche capito che Vincent stava cercando di spiegargli che Bertie non gli interessava minimamente, che gli facevano schifo gli uomini, che lui non era un pervertito, che lui era normale, normale, normale.
Benché origliare fosse l’arte principe di ogni bravo valletto, Jeeves non si era soffermato con lui vicino alla porta, preferendo impegnarsi in qualche attività domestica che sembrava richiedere un costante andirivieni tra le varie stanze dell’appartamento. La tranquillità con la quale aveva lasciato che lo zio rapisse Vincent per il suo famigerato “discorso” non aveva calmato Bertie. Lo zio era pericoloso. Bertie lo adorava di gran lunga più di ogni altro membro della famiglia, ma davvero, non aveva tutte le rotelle a posto - a leggere i suoi racconti, non le aveva mai avute.
Non sentendo più le loro voci, si allontanò di qualche passo dalla porta. Il gesto si rivelò provvidenziale, perché lo zio ne uscì proprio in quel momento con Vincent sotto il braccio come un pulcino sotto l’ala di mamma chioccia. “Tutto fatto” annunciò, mentre Jeeves riappariva nel medesimo istante dalla camera da letto. “Che tecnica, Jeeves! Avresti dovuto vedere come il giovane Vince avvitava quella lampadina. Che gioco di polso! Non l’ho sempre detto io che il segreto è tutto nel gioco di polso, Jeeves?”
“Sì, signore. Ma la frase era riferita al cricket.”
“È lo stesso, è lo stesso” lo liquidò lui, sventolando una mano con aria noncurante.
“Zio…” iniziò Bertie, sospettoso.
“Sì, giusto. Andate, altrimenti arriverete a casa a notte fonda. È stato un piacere.”
“Zio, posso dirti una parola prima di andare?”
“Ah, niente mi renderebbe più felice, Al, ragazzo mio, ma” guardò l’orologio, “oh cielo, si è fatto tardissimo. Jeeves, hai preparato i miei abiti da viaggio? Dobbiamo essere a Brinkley Court per l’ora di cena, lo sai.”
“Naturalmente, signore” rispose Jeeves, inarcando un sopracciglio.
“Ma…”
“Magari passo domani a prendere un tè a casa e mi” gettò uno sguardo a Vince, “dici tutto, eh? Andate, andate. Mi raccomando, Vince.”
Vincent annuì, incerto.
“Cosa?” chiese Bertie.
“Guida con prudenza” spiegò lo zio, con un sorriso poco convincente. Appioppò al nipote un bacio non richiesto sulla tempia e gli passò una mano sulla testa in una rapida carezza, come se avesse cinque anni. “Ti voglio bene. Divertitevi.”
La porta si richiuse con un tonfo deciso alle sue spalle.
Vincent cominciò a scendere le scale, ma Bertie rimase per qualche secondo fermo vicino all’uscio, confuso e stordito.
“Signore?” si voltò Vince, senza guardarlo negli occhi.
“Vieni qui, tu” disse la voce di suo zio al di là della porta, seguita dallo schioccare di una risatina allegra. Bertie si affrettò giù per le scale.
Parte 2