Titolo: La mirabolante storia del dito-cipolla
Fandom: Jeeves & Wooster
Pairing: Bertie/Vince (OMC/OMC)
Rating: R
Conteggio Parole: 986 (W)
Scritta per: Settimana #3 (hurt/comfort) del
Fluffathlon @
fanfic_italia, prompt: "E ogni cicatrice è un autografo di Dio" --- Mezzogiorno, Jovanotti.
Note: La fic è un sequel di
All that glitters. Se, comprensibilmente, vi scazza leggerla per capirci qualcosa, vi basti sapere che Bertie (= Albert) è il nipote preferito di Bertie (= Bertram).
Albert Solomon Wooster si stiracchiò voluttuosamente nel letto, braccia e gambe larghe come se volesse fare l’angelo nella distesa di neve delle coperte. Rotolò da un lato, ritraendosi a occhi chiusi quando un piede incappò nel vuoto oltre la sponda; poi compì un risoluto giro di centottanta gradi e si ritrovò efficacemente arrotolato nel lenzuolo fino alla vita, come il ripieno di un involtino in procinto di schizzare fuori.
L’aria era pervasa da un leggero ma penetrante profumo di cipolla fritta. Bertie mugolò tra sé, grattandosi un rivoletto di saliva secca dall’angolo della bocca. Che ora era? Con qualche sforzo avrebbe potuto allungarsi e recuperare l’orologio dal comodino, ma la pigrizia lo vinse.
Un leggero sfrigolio di frittura gli raggiunse le orecchie, che diventavano più sensibili man mano che il torpore svaniva. Iniziò a sentire anche un lieve ticchettare ritmico, un rumore di legno e metallo insieme, qualcosa di familiare e al tempo stesso non immediatamente riconoscibile. Aguzzò l’udito, ma pigramente, senza esagerare. Mosse un ginocchio e il cotone delle lenzuola si sfregò piacevolmente tra le sue gambe, convincendolo a ripetere il movimento in senso inverso e poi di nuovo almeno un paio di volte. Aveva una mezza idea di raccogliere un po’ di fiato e chiamare l’altro in un tono che, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito abbastanza languido & seducente da convincerlo a mollare le cipolle e raggiungerlo. Al pensiero, il contatto con la stoffa si fece più stringente. Bertie aprì gli occhi.
In quel momento dalla piccola cucina del cottage giunse un’imprecazione urlata, istintiva, seguita da un gran tonfo e da altre imprecazioni più basse e irritate, un vero e proprio fiume di parolacce, alcune delle quali Bertie ritenne di non aver mai udito in vita sua.
Si tolse le coperte di dosso e si precipitò in cucina completamente nudo, malfermo sulle gambe molli di sonno. “Vince?” gracchiò. “Che…?”
“Mi sono tagliato un dito” disse Vincent. E giù un’altra imprecazione, più convenzionale ma non meno lurida (né meno eccitante, lo informò, del tutto a sproposito, la parte della mente di Bertie preposta a queste cose).
Nello stordimento dell’attimo seguente, Bertie credette che Vince intendesse letteralmente e raggelò notando la lama sporca di sangue dell’enorme coltello da cucina. Avanzò a piedi scalzi, quasi aspettandosi di trovare una falange recisa sul tagliere, tra i tocchetti di verdura multicolore che lo popolavano. Ma le falangi erano ancora tutte saldamente attaccate alle rispettive dita, e Vincent stava contemplando la parte offesa con aria di sdegno e riprovazione.
“Non mi taglio mai” borbottò. “Cazzo.”
Un corto ma profondo taglio trasversale gli segnava l’indice, sanguinando abbondantemente. Vince spostò la mano da sopra il tagliere per evitare che il sangue gocciolasse sopra le verdure, e fece per tamponare il dito con lo sfilacciato grembiule bianco, già sporco, che indossava direttamente sopra il petto nudo e - come per uno scrupolo - i calzoni.
“No, vieni qui” mormorò Bertie, prendendogli il polso. Vince si lasciò tirare, docile, forse per lo stupore di averlo trovato lì come mamma l’aveva fatto, completamente nudo nel pieno del giorno in una stanza dotata di un certo numero di finestre. Non disse niente, d’un tratto troppo distratto dal corpo bianco e dinoccolato di Bertie, dal gigantesco segno di un morso che gli aveva lasciato sulla spalla la notte prima, dal timido accenno di erezione che l’altro non sembrava affatto intenzionato a nascondere o dissimulare. Era già senza parole quando Bertie prese il dito ferito e se lo mise in bocca, prendendo a lavare sapientemente il taglio col disinfettante di Madre Natura.
Vince contemplò con assoluto rapimento il modo in cui Bertie risaliva piano fino alla nocca, stringendo la circonferenza del dito tra le labbra.
“Mmm” mormorò Bertie, distogliendosi per un attimo dall’occupazione. “Sa di cipolla.”
“Stavo facendo un…”
Dimenticò cosa stava facendo. Dentro la calda umidità della bocca, Bertie aveva preso ad accarezzare la ferita con piccoli tocchi gentili della punta della lingua.
“Ah” mormorò Vince, senza davvero rendersi conto di aver emesso un suono. Finora si erano sempre incontrati al buio, o tutt’al più in una diffusa penombra che aveva il potere di sfumare i contorni e rendere tutto vago, irreale. Adesso i contorni di Bertie - deliziosamente audace quando le luci si abbassavano, non così in pieno giorno - erano precisi e nitidi come disegnati col filo a piombo.
“Meglio?” sussurrò Bertie, la voce ancora densa di sonno, aprendogli le dita per posargli un bacio al centro del palmo. Studiò per un attimo l’aspetto del taglio, in procinto di riprendere a sanguinare, e ne raccolse un’ennesima goccia con un rapido movimento della lingua.
“Sì” rispose Vince, la bocca asciutta.
Morbidamente, senza soprassalti - tanto che poi Vince non avrebbe saputo circoscrivere il momento preciso della transizione - Bertie abbandonò la cura della ferita e passò a baciargli la bocca. Il sapore metallico del sangue fu scioccante per un secondo, poi si lavò via. Il ricordo successivo era il gemito delle molle del materasso e il piacevole senso di oppressione dato dal corpo magro di Bertie che lo inchiodava con forza sorprendente al letto.
Più tardi, una tremenda puzza di bruciato fece scattare Vince come se avesse dimenticato suo figlio prigioniero delle fiamme, e l’annesso coretto di imprecazioni fece ridere Bertie così forte, nella sua nuvola di soddisfazione e intenso buonumore post-orgasmico, che il nostro eroe rotolò violentemente giù dal letto, sbattendo la testa contro la chiave appesa al cassetto del comodino.
“Oggi non si mangia” annunciò Vincent dalla cucina.
“Ahi…” gemette Bertie, massaggiandosi la parte ferita.
“Un pranzo buttato. Merda.”
“Vince…”
“Non dire niente.”
“Sto male…”
“Non ti lamentare, è colpa tua. Ora stai lì e non ti muovere, vedo se riesco a salvare qualcosa.”
Infelice come un gatto lasciato fuori sotto una grandinata, Bertie raccolse le sue membra ferite e strisciò di nuovo sul letto, raggomitolandosi sotto le coperte. C’era una macchiolina di sangue sul cuscino di Vince. Con un sospiro, chiuse gli occhi e tornò a dormire.