Titolo: Nastro di porpora, spicchio di melagrana
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: fem!Holmes/fem!Watson
Rating: NC-17
Conteggio parole: 3.959 (W)
Scritta per:
P0rn Fest #4, prompt agendina di pelle.
Sharlene Holmes chiuse gli occhi, la pipa stretta mollemente tra indice e pollice della mano destra e il braccio steso oltre il bracciolo della poltrona, immersa in una nube di fumo come un idolo orientale nell’incenso. La vestaglia, anch’essa di un deprimente color fumo, ma chi può sapere se per disegno del tintore o per consunzione, le cascava sulla camicia da notte come un misero sacco, avvolgendosi in tutte le pieghe più sbagliate, macchiata di tabacco sul davanti e con più d’una cucitura sfilacciata.
Avevo rinunciato da tempo a rimproverarla sull’argomento, giacché non ne avevo mai ricavato che un risolino di scherno, sarcastico e derisorio e simile al gorgheggio pittoresco e crudele di un uccello tropicale. Col tempo, benché non l’approvassi, mi ero rassegnata all’oltraggio che quello straccio indecoroso compiva giorno per giorno sulle fattezze della mia amica, infagottandole in una massa di stoffa informe e triste. Ne traevo, tuttavia, qualche piccolo piacere. Era sorprendentemente bello, per esempio, scorgere il profilo aristocratico di un piedino emergere da sotto l’orlo della camicia da notte, la curva elegante e bianca subito fagocitata dalla panciuta pantofola invernale. Quando una gamba era accavallata sull’altra, come in quel pomeriggio, la camicia da notte si ritirava fino a scoprire la caviglia e lo stinco, mostrando così in tutta la sua grazia una delle parti più belle del corpo di Holmes.
O quando tale fortuna si estendeva, per malagrazia della sua proprietaria inconsapevole, fino a metà del polpaccio, rivelandone il muscolo forte e ben tornito, allenato dalle lunghe camminate…
Il mio sguardo risalì, di volontà propria, alla magra distesa della sua pancia e a quella, di poco meno asciutta, del seno. Ripensai senza volerci pensare al discorso bizzarro di Holmes il primo mese che ci eravamo conosciute: quanto era fondamentale la mancanza di seno per i suoi travestimenti, aveva detto, e quanto poco avrebbe voluto che il suo petto somigliasse al mio, aveva aggiunto. Le bende avrebbero stretto troppo, aveva spiegato. Avrebbero fatto male, avrebbero lasciato righe rosse sullo sterno e sulla pancia, e comunque non avrebbero potuto nascondere più di tanto gli intendimenti di Madre Natura.
Holmes aveva seni piccoli e magri come una ragazzina, ma tondi e puntuti, fatti per riempire mani di piccola taglia.
Sentii le guance riscaldarsi e distolsi risolutamente lo sguardo. Dovevo smettere di pensare al corpo di Holmes, e sancii la decisione afferrando le due metà del mio taccuino e forzandole al rovescio per vincere l’elasticità della copertina di pelle. Questa, come in segno di protesta, emise un brutto scricchiolio.
Avevo commesso un errore. Holmes dischiuse le palpebre di una fessura e sorrise brevemente, solo l’ombra di un’apparizione, subito mangiata dalla linea sottile e dritta della sua bocca.
“L’ispirazione ti sfugge?” commentò, per quel che ne sapevo senza vedermi, eppure con l’aria di assorbire ogni mia mossa nel grigio perlato che si intravedeva tra le ciglia.
“Credevo che non volessi essere disturbata per altre due pipe,” replicai, ignorando la domanda.
“Non volevo, ma sei una compagna rumorosa.”
“Sono mortificata.”
“Dovresti. Mi fa piacere.”
Quasi scoppiai a ridere all’assurdità di quello scambio, ma quasi; invece trasformai la risata in uno sbuffo e provai del vago risentimento, ineffabile come la prima neve, all’infinita solitudine del mio rimuginare sulle fattezze della mia amica, tremendamente sola com’ero, sola a spiarla quando non poteva mettermi al mio posto con un’occhiata, sola a ripensare alle cose che mi aveva detto per leggervi significati diversi, sola, infine, ad accaldarmi per i pensieri che stavano solo nella mia testa, mentre Holmes continuava, tranquilla e superiore, a dedicarsi ai suoi rebus.
Ma dopotutto, a chi facevo del male? Non era mio diritto richiamare alla mente quante e quali immagini più mi piacessero, quando e quanto a lungo mi piacesse farlo? E perché mai avrei dovuto vergognarmi di ricordare cose che la loro stessa proprietaria mi aveva liberamente offerto alla vista (la cunetta appena accennata tra i seni, il minuscolo neo incisovi al centro, la piana di muscoli sottili e scattanti come quelli d’un uomo), senza curarsi che questo mi potesse scuotere o turbare, e del resto perché mai avrebbe dovuto (il degradare curvo dei fianchi, la peluria scura addensata dalla biancheria nel triangolo più squisito del mondo, disegnato personalmente dalla punta del dito di Dio), ignara che io la guardassi in maniera differente da tutte le altre (le cosce atletiche, contratte), ignara che il mio guardare costituisse pericolo (il sedere, oh Signore, le natiche da baciare e mordere), ignara di che genere di persona dormisse al piano di sopra e mangiasse al suo tavolo e l’avesse toccata e sfiorata più volte di quante si potessero ormai contare, e sempre con quei pensieri osceni nella testa, con quel terribile proliferare di immagini e dettagli e parti del corpo che si rincorrevano e non davano pace dal mattino alla sera, quando il sonno finalmente mi restituiva a me stessa.
L’agendina scricchiolò penosamente tra le mie mani, e mi resi conto che l’avevo ritorta ancora una volta, senza avvedermene, troppo presa dalla follia che si stava consumando nella mia mente.
“Watson,” disse Holmes, con una certa aria di esasperazione controllata. “Non so dirti quanto quel rumore sia irritante quando si cerca di pensare. D’altra parte, non mi aspetto che tu abbia familiarità con la pratica.”
Oh, avessi potuto dirle quanto si sbagliava.
“Holmes,” replicai invece, piccata. “Non so dirti quanto la tua scortesia ti faccia assomigliare a una vecchia zitella. D’altra parte, non mi aspetto che la cosa ti tanga minimamente.”
“Hai proprio ragione,” rispose Holmes, aprendo gli occhi. Si portò l’estremità della lunga pipa di ciliegio alle labbra, quelle belle labbra tremendamente mascoline, cercando di trarne una boccata ma trovandola ormai spenta. Con gesto indolente, rovesciò il fornello su un foglio di carta aperto sul tavolino, lasciando cadere i residui bruciati di tabacco sul mucchietto di loro simili, e allungò la mano sinistra verso la pantofola persiana posata sul bracciolo della poltrona. Mentre riempiva la pipa, alzò gli occhi nella mia direzione.
“Allora,” disse accendendola, le consonanti deformate dal cannello di ciliegio stretto tra i denti. “Dal momento che mi hai distratto, tanto vale che tu me lo dica.”
“Cosa vuoi che ti dica?”
Holmes espirò, stendendo le lunghe gambe sulla testa della pelle d’orso e incrociandole alle caviglie. “Oh, per me non fa differenza. Per quanto la completezza sia sempre preferibile. Comincia da dove ti pare più opportuno, mia cara, e non tralasciare i dettagli. Sai che li adoro.”
Mi sembrò che una delle lunghe mani perfette di Holmes mi avesse attraversato la carne e si fosse stretta a mo’ di artiglio intorno al mio stomaco. Avvertii un fiotto di paura acido come bile e poi, nell’ordine, un brivido e un sentore di nausea. Sentii un’arcata di denti scivolare sull’altra con uno stridio.
“Non capisco,” risposi con tutta la calma di cui ero capace.
Holmes sorrise, inclinando il capo da una parte. Aveva lunghi e meravigliosi capelli neri che detestava perché, a suo dire, troppo scomodi. Li avrebbe voluti portare corti come un ragazzo, e dire a chi glielo chiedeva che usciva da una lunga malattia; ma sarebbero stati improponibili in società, e Mrs. Hudson non l’avrebbe vista di buon occhio. Non potendo tagliarli, li portava arrotolati in uno chignon di fortuna e fissati al centro della nuca con matite o penne o gli altri accorgimenti del caso. Avevo cercato per ore la mia penna preferita, una stilografica che era stata di mio padre, prima di sorprenderne il luccichio tra i capelli di Holmes.
“Vieni qui,” disse ora la mia coinquilina, battendo la mano sul bracciolo della poltrona.
Mi alzai prima di riflettere che avrei dovuto sospettare. La donna con la quale dividevo le stanze a Baker Street era, dopotutto, supremamente intelligente e, quando lo voleva, schietta fino alla crudeltà. Avrebbe potuto farmi a pezzi con uno sguardo e comandare ogni mio desiderio con la punta di un dito. Avrei dovuto diffidare, certamente; sarebbe stata la cosa più giusta da fare. E invece mi alzai e la raggiunsi senza un attimo di esitazione, alzando le gonne con le mani per appoggiarmi al bordo del bracciolo, non proprio seduta, non proprio in piedi.
“È una fortuna che l’ultima pipa non sia più necessaria,” dichiarò Holmes, stendendo il braccio destro alle mie spalle e sfiorandomi nel gesto il fondoschiena.
“Allora perché l’hai accesa?” replicai, rigida.
“Ti dà noia?”
Scossi la testa. Il tabacco di Holmes emanava un odore pungente e denso che si attaccava agli abiti e ai capelli; talvolta dovevo rifare il bagno solo per togliermelo di dosso. Ma non mi ero mai lamentata.
“Ah, Watson, Watson,” mormorò Holmes. Si piegò nella mia direzione, appoggiando la testa sulle mie gambe, un gesto così improvviso e insolito che non ebbi la minima occasione di prevederlo né tantomeno di difendermene. Sentii il calore del suo respiro inabissarsi come un relitto tra le crinoline della mia gonna e affondare come un punteruolo tra le mie cosce, immaginato senza dubbio, ma non per questo meno scioccante.
“Holmes… Sh-Sharlene,” balbettai, il suo nome mai usato che, chissà da dove, mi saliva ora alla bocca e mi inciampava sulla lingua.
“Non dirlo. Lo detesto,” mormorò. “È così lezioso.”
“Non è vero,” replicai d’istinto.
“Jean,” continuò, sollevando il capo per strofinare lentamente il volto contro la mia pancia, come un gatto, come un animale certamente, come una creatura diabolica mandata per perdermi. “Così nitido. Marziale. Una sola sillaba. Senza fronzoli, senza complicazioni. Sarebbe John, non è così? Saresti uno splendido uomo, uno splendido John.”
Il dolore che mi causarono le sue parole mi accecò. Le presi il volto tra le mani, per fermare la sua rapida ascesa oltre la corazza protettiva del bustino, sentendo che ancora un centimetro e sarei stata persa del tutto, non sarei sopravvissuta alla sua bocca tra i miei seni, neppure con centomila stoffe nel mezzo.
“Lo so che sarebbe meglio,” mormorai, sentendomi morire per lo strazio. “Sarebbe tutto a posto, allora.”
“Che sciocca,” disse Holmes, cercando di avvicinarsi, ma trattenuta dalle mie mani. “Che me ne dovrei fare di un uomo? Starebbe a sentirmi, un uomo? Mi accompagnerebbe quando ne avessi bisogno? Per lui sarei mai qualcosa di più di una vacca da monta?”
Trasalii a quell’espressione orribile, e Holmes se ne avvide, perché addolcì subito la piega severa della bocca. “Sei così deliziosamente puritana fuori,” sorrise, “che a un povero consulente investigativo occorrono non meno di cinque mesi per capire quanto bruci dentro. Sei una persona orribile. Dovrei detestarti per quanto mi hai fatto penare.”
“I-io? Te? Io ho fatto penare te?” replicai, lasciandola andare per la sorpresa, prontamente ripagata dalla pressione ardente delle sue labbra sulla mia gola.
“Diventa la mia donna,” disse Holmes, ritraendosi per guardarmi negli occhi. “Tu vuoi un uomo da seguire. Un uomo da proteggere. Un uomo che assorba completamente le tue energie e la tua attenzione. Io posso essere quell’uomo. Non sarò gentile e non ti terrò per mano e non ti dirò che le stelle impallidiscono allo splendore dei tuoi occhi, ma questo posso giurartelo, per me non sarai mai un animale da monta.”
Mi girava la testa; appoggiai le mani sulle sue spalle per mantenere il contatto con la realtà, e le sue salirono subito a cingermi i fianchi, forti e possessive come mani maschili, ma infinitamente più delicate.
“Non voglio un uomo,” replicai, malinterpretando quello che mi aveva detto, credendo di rassicurarla, e invece vidi i suoi occhi velarsi e sentii la sua presa farsi lenta.
“Allora è tutto finito, perché io non posso cambiare. Se questo ti delude…”
“No, no. Ti prego, no,” mi affrettai, rubandole il viso tra le mie mani e baciandola, disperata di perderla, di aver rovinato tutto. “Ti amo, amo il tuo corpo. Tu hai ragione, sono una tale ipocrita…! Non dire che è tutto finito, ti prego, non dire così.”
Holmes mi afferrò le mani, trovò che tremavano e le strinse nelle sue fino a farmi male, finché le ossa sottili delle dita non si accavallarono e il dolore si confuse nel mio cervello alla paura; ma subito vennero lavati via entrambi quando Holmes mi lasciò per sbottonarmi la camicetta e baciarmi tra i seni stretti dal corpetto, sfiorandone il piccolo solco centrale con la punta della lingua.
Holmes si spostò di lato nel sedile troppo largo della poltrona ed io vi cascai dentro sulla stoffa scivolosa delle gonne, tra le sue braccia, nell’odore intossicante di tabacco e del suo corpo. Sentii ancora tabacco amaro con la sua lingua nella mia bocca, e poi mani impazienti mi circondarono per infilarsi sotto la blusa e avere ragione dei lacci del corpetto, tirandoli, forzandoli, cercando di aprirli in ogni maniera. Holmes grugnì un mezzo trionfo nella mia bocca, e la costrizione intorno al petto si rilasciò di schianto, lasciandomi prendere un lungo respiro. Una mano, riemergendo dall’angolo buio tra la mia schiena e il sedile della poltrona, disfece i bottoni sul davanti e tra le due ali di stoffa ripiegò il corpetto domato, lasciando venirne fuori un seno maltrattato dal bustino.
“Mio Dio,” ansimai quando la sua bocca vi si chiuse intorno, quando la superficie ruvida della lingua sfregò crudelmente, più e più volte, contro la punta del capezzolo, e dovetti premermi una mano sulla bocca per non gridare. Combattendo l’affollarsi di colori che mi annebbiava lo sguardo, afferrai un lembo della vestaglia di Holmes e la torsi sopra la sua spalla, godendo del rumore secco dello strappo e poi dello scivolare via della stoffa. Allora, con indosso solo la camicia da notte come mai l’avevo vista, Holmes mi parve tremendamente buffa, e credo che risi, attirandomi il suo sguardo interrogativo.
“Levatela,” comandai, ebbra del potere che mi dava essere voluta da questa creatura tra tutte, della sensazione delle sue dita ruvide che mi stringevano i seni fino a imprimervi scie rossastre. “Levati tutto, resta nuda come quella volta.”
La contemplai, mezza sprofondata nella poltrona, puntando un gomito contro il bracciolo per sollevarmi nella sua direzione. Holmes eseguì senza parlare, senza guardarmi, senza un tremito, bella come la ricordavo senza i molteplici strati che la deturpavano. Tesi le mani per prenderla, stupendomi dei suoi fianchi così sottili, delle sue natiche così magre, più di quanto avessi immaginato. Le baciai la pancia e l’ombelico e Holmes sospirò e dischiuse le gambe, infilandomi le dita nei capelli e tirando via furiosamente tutti i ferretti finché la massa densa e pesante non mi ricadde sulle spalle.
Appoggiai la guancia sul triangolo soffice all’estremità del suo bacino, saggiandone la consistenza morbida e ispida al tempo stesso, ma quando accostai le labbra alla piccola piega della carne tra l’inguine e la coscia, Holmes mi allontanò. Aveva gli occhi aperti, leggermente sgranati, che la luce del sole faceva chiari e opachi, di un grigio quasi perlato.
Mi montò addosso, Holmes, magra e nervosa come un cane da caccia, facendo frusciare i miei abiti di un fruscio straniero, stoffa su pelle, pelle su stoffa. Afferrò una manciata di gonne e la sollevò, puntando il ginocchio al di sotto, e spinse una mano fresca contro l’ennesimo fagotto della mia biancheria, sciogliendo con maestria tutti i nastrini che me la stringevano addosso. Con entrambe le mani sotto la gonna, ora, tirò i mutandoni verso il basso, lasciando questi imprigionati alle caviglie e me nuda fino alle ginocchia, nuda e offerta allo sguardo, coi seni scoperti e una giostra di stoffa intorno alla pancia. Istintivamente portai una mano alla coscia destra, a coprire la cicatrice orrenda della scheggia di granata che aveva compromesso la mia salute per sempre.
Holmes schioccò la lingua contro il palato in un gesto osceno, che mi fece avvampare.
“Jean, Jean,” mormorò, assaltandomi la gola e il viso di baci con una foga che davvero mi riportò alla mente quella di un predatore. “Non immagini neanche lo spettacolo che sei.” Mi scostò la mano e se la portò alla bocca, prima di scomparire con slancio rapidissimo dietro il paravento delle mie gonne. Le accartocciai con la mano per seguire i suoi movimenti, per prepararmi alle sue intenzioni, ma la sua bocca raggiunse la mia più segreta mentre le stoffe mi resistevano e bruscamente sussultai, scontrandomi con lei, con la punta fresca del suo naso.
Le sue mani salirono a dischiudermi le gambe, incastrandone una sul bracciolo e l’altra sulla sua spalla. Così aperta, mi sentii sollevare dal sedile e la mia schiena premette contro l’anima dura della poltrona sotto l’imbottitura.
Mai, nemmeno nelle mie fantasie più ardite, quelle relegate al segreto del mio letto, avevo immaginato che potesse essere così. Avevo desiderato Holmes - Sharlene, nei miei sogni - in ogni maniera, con la fantasia l’avevo piegata a ogni mio volere, a ogni pratica che la memoria e l’immaginazione mi suggerissero, ma se questa non faceva eccezione, d’altra parte non avevo mai osato comporre una scena così profondamente, squisitamente oscena. Con la bocca di Holmes sotto le mie gonne, scene sognate e brandelli di realtà si mischiarono nella mia mente, intrecciandosi alle scariche di piacere denso e liquido che mi bruciavano tra le cosce. La lingua di Sharlene - Holmes - colpì crudelmente una, due, cinque volte prima di scendere a possedermi e farlo ancora, sorda ai guaiti supplichevoli che mi tremavano nella gola senza trovar forza di uscire, arricciando la punta dentro di me per non lasciare un angolo che fosse inviolato. Uno spasmo fece per chiudermi le gambe, un altro subito per riaprirle, ma in nessun caso Holmes mi permise il movimento; avevo le sue dita incise nella fossetta del ginocchio, l’unghia corta del pollice mi scavava la carne sul retro della coscia. La bocca risalì e mi imprigionò tra le labbra, suggendo con un rumore osceno mentre le dita che non erano impegnate a tenermi ferma mi penetravano, due e poi tre, fino a toccarmi l’anima.
Mi abbandonai spenta contro di lei, costringendomi a raccogliere le forze per allontanarla, per allontanare la stimolazione che si era fatta insopportabile. Tremavo tutta, a scatti, il mio corpo tramutato in un’unica fibra nervosa che mi percorreva dalla fronte sudata alle dita arricciate dei piedi. Vidi che avevo bucato una calza con l’alluce, e come sempre dopo il piacere sentii montare un’ondata accecante di vergogna.
Holmes riemerse dal mare di gonne con piglio sicuro, le labbra, il mento, le guance lucide di umori, asciugandosi la bocca brutalmente sul dorso della mano e contemplando quanto vi aveva depositato con curiosità distaccata. Io temetti l’istante in cui i suoi occhi avrebbero incontrato i miei, e forse anche lei doveva ricavarne qualche preoccupazione, perché mi parve ritardarlo fino all’ultimo, impegnandosi prima ad accarezzarmi dolcemente un seno inturgidito e chinandosi a baciare l’altro. Poi, quando il silenzio si era fatto gelato intorno a noi, alzò lo sguardo piano piano, con timidezza insolita.
Oh, era così bella, così scandalosa, così bella. Perché voleva me, che non ero niente?
“Vorrei portarti a letto in braccio,” mormorò, baciandomi con reverenza le vene del polso. “Ma devi collaborare, temo.” Lo disse con aria di rimpianto, con l’aria di odiarsi per la sua debolezza. “Questa poltrona ha fatto un fosso di trenta centimetri.”
Allora, per la prima volta, la vidi fragile, la vidi vulnerabile, e mi sentii annegare in un mare di dolcezza. Le accarezzai la guancia umida e la bocca piegata in una smorfia amara, cercando di cancellargliela con il pollice e non riuscendovi.
“Saresti un uomo magnifico,” bisbigliai. “Ma non così bello. Ti offendi se te lo dico? Io sarei tua comunque, lo so, lo sento.”
“Che sciocca,” borbottò nella mia mano, la voce che si spezzava un attimo e subito si ricomponeva. “Sei una sciocca romantica con la testa piena di fantasie, Jean Watson. Non so proprio perché ti sopporto.”
“Io lo so. Ti amo,” implorai.
“Lo so che mi ami. Sei una sciocca, te l’ho detto.”
“Se non mi ami non devi ingannarmi. Non me lo merito.”
Alzò il capo. “Non ti ho mai ingannato.”
“E allora dimmelo. Solo per questa volta.”
“Mio Dio, ti hanno cresciuto così male? Se potessi tornare indietro me ne starei già pentendo.”
Le appoggiai una mano sulla nuca, torcendole i capelli, tirandola a me per baciarla. “Ma non puoi, non puoi, lo sapevo, avevo ragione,” mormorai, delirante di felicità. “Baciami. Se sei il mio uomo, dimmi che mi ami e baciami.”
“Che sciocca, che stupida,” disse invece, ma - questo sì - mi baciò ardentemente. “Non te lo dirò mai. Adesso fatti portare a letto e scopare come una brava moglie. Sembri una puttana,” mormorò con voce tenera, passandomi le dita in una carezza sulle ginocchia aperte, sulle spalle nude, sulle guance in fiamme.
Non so davvero come acconsentii a farmi spogliare del tutto e poi portare in braccio, nuda come il Signore mi aveva fatta, su per la scaletta privata che conduceva alla mia camera da letto. Holmes mi depositò sul letto con l’infinita cura di uno sposo e serrò la porta con naturalezza, appoggiandovi contro la schiena.
“Come ti chiameresti?” le domandai dal letto, asciugando un rivoletto vischioso all’interno della coscia. I suoi occhi seguirono il movimento senza staccarsi un istante. “Da uomo. So che ci hai pensato.”
Sharlene si portò un dito alla bocca, accarezzandosi distrattamente le labbra. “Sarebbe un nome brutto, ma non brutto come il mio, che sa di pizzi e meringhe. No, sarebbe sempre brutto, ma non mellifluo. Sarebbe duro come uno schiocco e farebbe pensare a un uomo tutto ossa e muscoli, troppo alto, troppo magro, con un brutto naso.”
“Il tuo naso è bello e ti dona tremendamente,” interloquii, ma mi ignorò.
“Sherlock. Orribile, non è vero? Sembra lo strozzino ebreo di Shakespeare.”
“Sherlock,” ripetei. Lo trovai brutto, brutto proprio come lei aveva inteso, e proprio nel modo in cui lei l’aveva pensato, ma trovai anche che, come il suo naso, le donasse terribilmente. Socchiusi le palpebre, immaginandola un uomo di nome Sherlock, e la vividezza dell’immagine mi colpì.
“Sherlock,” dissi ancora. “E tu mi vorresti comunque, mi scoperesti”, sì, dissi proprio così, scoperesti, “se fossi un uomo e non una donna?”
Holmes abbandonò la porta, avanzando lentamente nella mia direzione. Tenni gli occhi socchiusi e vidi un ventre maschile, un torace piatto, fianchi scolpiti nella roccia. “Sì,” rispose con voce profonda, una singola sillaba strozzata.
“Sarei un veterano e un dottore,” mormorai, prendendo la sua mano per portarmela al seno. “Stupido come tutti gli uomini, ma mi prenderei cento pallottole nel cuore per te.”
“Oh, mio Dio, che cosa mi sono messa nel letto,” ansimò Holmes, montandomi sopra. “Che cosa oscena e perversa sei, Jean Watson.”
“È il mio letto,” trovai ancora da replicare, suscitando la sua vendetta in forma di un morso leggero e doloroso alla spalla. “Potrei scrivere di noi,” aggiunsi, lo sguardo al soffitto, passandole le mani possessivamente sulla schiena. “Sono brava. Potrei scrivere di Sherlock Holmes, l’uomo migliore e più saggio e col peggior carattere del mondo, e di John Watson che si farebbe ammazzare per lui.”
“Solo una donnina stupida e melensa come te potrebbe scrivere una porcheria del genere,” borbottò Holmes. “Ora taci, vuoi? Non posso darti quel che ti meriti se stai sempre a parlare.”
Obbedii, perché come John Watson anch’io non chiedevo di meglio che d’essere comandata e posseduta dal mio uomo. Non le dissi, perciò, che per quanto mascolina fosse la sua mascella, per quanto viva e meravigliosa la visione di lei come uomo, ciò che annientava i miei sensi erano il suo profumo di donna, la combinazione perfetta di spigoloso e morbido di tutti i suoi angoli, le note più acute e vibranti della sua voce. Se fosse stata un uomo, ne sono certa, avrei trovato altri elementi cui sacrificare la ragione, ma così non era, e non me ne lamentavo.
Con questi pensieri in mente, abbracciai la mia sposa e la baciai per un tempo infinito, finché le mie orecchie non si ovattarono e presero a vibrare di un tintinnio leggero.