[Sherlock Holmes] My Infinite Variety (A Case of Identity) 5/5

Dec 01, 2010 00:35

Titolo: My Infinite Variety (A Case of Identity)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R
Conteggio parole: 41.410 (W)
Parte: 5/5
Warning: Slash, what if, qualcos'altro che ora non mi viene in mente
Note: What if su EMPT.
Scritta per: bigbangitalia, seconda edizione.

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La settimana in Francia aveva ristorato i miei nervi provati dal nuovo bisogno di segretezza. Naturalmente una cosa erano le relazioni clandestine dell’università o dell’esercito, clandestine per così dire, giacché nessuno veniva mai colto a praticarle ma tutti lo facevano, e ben altra cosa una relazione stabile tra due uomini adulti, a Londra, e non precisamente due sconosciuti per l’opinione pubblica. La mia vedovanza giocava a nostro favore, ma erano necessari il massimo riserbo e la massima cautela. Avevo dovuto imparare con fatica a chiudere sempre tutte le porte, a considerare in ogni momento la presenza dei miei domestici e la loro collocazione più probabile, a calcolare lo spessore dei muri e dei pavimenti per accertarmi che nessun rumore giungesse alle orecchie sbagliate. Avevo imparato la posizione corretta della lampada perché non si proiettassero ombre sulle tende chiuse, e che le finestre non erano nostre amiche. Avevo imparato ad assumere un atteggiamento affettuosamente neutro ogniqualvolta parlavo di Holmes, e a parlarne né troppo né troppo poco, col corretto distacco di amico.

Non v’è dubbio che i benefici ripagassero le privazioni, ma comunque accolsi il cambiamento con sollievo. La Francia era un paese amichevole, Parigi uno splendore. Non avrei rinunciato a Londra per nulla al mondo, ma mi confortò, per qualche giorno, poter cessare di preoccuparmi. Holmes me ne diede dimostrazione la prima sera, coinvolgendomi in un interludio piuttosto avventuroso in un vicoletto di Montparnasse.

Fu lui ad aprire la lettera. Beth mi aveva fatto trovare sulla scrivania la posta della settimana, ordinata meticolosamente in conti da pagare e missive personali, ma in tutta onestà non appena arrivato avevo avuto altri pensieri per la testa. Il piacere di essere a casa, la piccola riscoperta di tutte le cose familiari dopo un sia pur breve periodo in terra straniera, avevano fatto miracoli per il mio umore leggermente irritato dal viaggio. Mi ero seduto al tavolo per sbrigare quanto c’era da sbrigare, di malavoglia, e poi Holmes mi aveva raggiunto lì e l’apertura della posta era stata rimandata.

“Mi hai distratto,” osservai qualche tempo dopo, piacevolmente esausto nella mia sedia. Avrei dovuto ricompormi, ma la porta era chiusa e Holmes sedeva, ugualmente discinto, sulla poltrona di fronte a me. Non so come potesse apparire disperatamente elegante con una gamba gettata oltre il bracciolo, la camicia aperta fino all’ombelico e il membro fuori dai calzoni. Un giorno avrei dovuto applicarmi a cercare la risposta.

“Maleducato da parte mia, lo ammetto,” rispose Holmes, allungando un braccio dietro lo schienale. “Devo dire, Watson, con tutto il tuo fastidio per la segretezza non ricordo un incontro così… significativo in tutto il tempo che abbiamo passato a Parigi, dove potevamo fare quello che ci pare e piace.”

“È un rimprovero?”

“Tutt’altro. Il contrario sarebbe disastroso - se rifiorissi alla vita solo una o due settimane all’anno, quando parti per le vacanze.”

“In tutta onestà continua a sembrarmi un rimprovero. Non risparmiare i miei sentimenti, ti prego. Sono stato così terribile, a Parigi? La affronterò da uomo,” giurai solennemente.

“Terribile?” Invece di proseguire nella vena ironica, Holmes cambiò radicalmente tono. Tirò giù la gamba dal bracciolo e si alzò in piedi, impossibilmente sensuale nella mise che avrebbe fatto sembrare chiunque altro un povero idiota. “Ragazzo mio,” disse sedendo per metà sul bordo della scrivania, l’altro piede sul pavimento, e chinandosi verso di me in una lenta discesa, “tu ignori la stessa definizione di ‘terribile’.”

Gli appoggiai una mano sulla nuca. Holmes aveva ragione, a Parigi non era stato così. Lo volevo sempre, ma più di tutto lo volevo in casa mia, tra gli oggetti che mi erano familiari, dove la sua presenza non era contrasto stridente ma culmine di ogni cosa. Sentii un leggero fremito di desiderio, distante e prematuro come un’eco di quello appena consumato, ma Holmes si tirò indietro.

“Più tardi,” mormorò, sfilandosi la mia mano dai capelli.

Mi ributtai contro lo schienale della sedia. “Aiutami, allora,” dissi indicando la corrispondenza così bellamente ignorata. “Se tieni ad avere ancora gas in casa e acqua corrente…”

“Credevo che pagare un affitto mi liberasse dall’incombenza di gestire la casa per il padrone di casa,” ribatté Holmes, ma prese la prima busta dal mucchio delle bollette e la aprì con due colpi netti del tagliacarte.

Era vero che mi pagava un affitto, perché non ero riuscito in nessuna maniera a convincerlo a non farlo. Alla fine, poiché un mio rifiuto di accettare il denaro si era risolto in un litigio e in tre giorni di mutismo ostinato da ambo le parti, eravamo giunti a un compromesso: i soldi sarebbero stati messi da parte per le necessità della casa. Erano custoditi separatamente, e avevo cura di non usarli mai per qualcosa di cui, direttamente o indirettamente, non beneficiasse anche lui.

Cominciammo con i conti, dividendoli per tipo, e in questa maniera li finimmo in brevissimo tempo. Restavano le lettere personali. Quelle indirizzate a Holmes, Beth aveva avuto cura di lasciarle nell’ex-anticamera ora riadattata a sala di consultazione, e Holmes le aveva già aperte e sfogliate prima di venire a ‘distrarmi’. Ora si alzò, intendendo per discrezione lasciarmi ai miei affari, ma io presi una busta e gliela lanciai in grembo.

“Non intendo stare qui a vagliare posta fino a domani,” annunciai, aprendone un’altra con l’elaborato stemma della Medical Society di Londra. E puoi leggere la mia corrispondenza, se lo desideri, perché non ho segreti e se pure ne avessi scoprili tutti, non ho timori, prendi tutto quello che c’è da prendere, te lo sto offrendo.

Holmes ristette un momento e non disse nulla, ma mi sfiorò le dita nel prendere il tagliacarte.

Mentre leggevamo, commentavamo ad alta voce il contenuto o l’identità del mittente. Le missive che Holmes riteneva non lo riguardassero me le passava annunciandomene l’autore. “Firma illeggibile. Probabilmente medico.” “Miss Violet Farnsworth.” “Oh, Mrs. Whitaker.” “Medico.” “Mr. Wilkinson.” “Mr… No, rinuncio. Medico.”

Poi calò il silenzio. Dopo qualche momento alzai gli occhi, incuriosito. Holmes era estremamente pallido.

“Holmes?” Quando non mi rispose, gli appoggiai una mano sul ginocchio. “Che c’è? Che dice?”

Holmes lasciò cadere il foglio sulla scrivania e si voltò di scatto, raggiungendo la libreria nell’angolo più lontano della stanza.

La lettera diceva:

Egregio Dott. Watson,

Le scrivo in risposta al Suo annuncio sul numero del Times del sette maggio corrente anno. La persona che Lei descrive coincide in tutto e per tutto col mio povero fratello William, fuggito verso la fine di aprile dal pio istituto presso il quale gli avevamo trovato accoglienza. Il poveretto è purtroppo gravemente disturbato: non è in sé la maggior parte del tempo, non ricorda i nomi dei suoi cari e crede d’essere strani personaggi, nessuno più duraturo di qualche mese. Dottore, Lei non sa che gioia mi abbia provocato leggere il suo annuncio, sebbene con così grande ritardo! È stata certamente la mano della Provvidenza a guidare la mia attenzione su quel vecchio giornale, così come a condurre William da Lei.

Se ha notizie recenti di mio fratello, la prego, me le comunichi. Mio marito ed io siamo tremendamente in pena per la sua sorte.

In fede,

Henrietta Chapman

Ora capivo come doveva essersi sentito Holmes quando il mondo era impazzito intorno a lui. Era una vertigine terrificante, un’agonia in mezzo al petto, uno stillicidio della ragione, era cadere da un’altezza infinita e sapere che non ci sarebbe stato un fondo. Era una sensazione così orribile che avrei fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, pur di cacciarla via. E Holmes aveva vissuto tutto questo, ma per fortuna era passato, e ora queste persone…

Mi voltava le spalle, le braccia aperte e le mani strette intorno ai bordi della libreria, le nocche bianche per lo sforzo, come in croce.

“Non conosco né ho mai conosciuto alcuna Henrietta Chapman.”

“Holmes…”

“Non li incontrerò. E ti proibisco di rispondere. Mi hai capito, Watson? Te lo proibisco.”

“Holmes.”

Si girò. La postura era controllata, le braccia rigide lungo i fianchi, e la bocca era ferma e stretta in una linea. Ma gli occhi erano stravolti. Gli occhi di un pazzo.

“Non li incontrerò,” ripeté.

“D’accordo,” mormorai. “D’accordo,” ripetei, più forte. “Non ti lascerò a queste persone. Per quanto me ne importa, potrebbe venire la regina con tutta la corte imperiale e dovrebbe comunque portarti via sul mio cadavere.” Ripresi confidenza, vedendo che le mie parole avevano qualche effetto positivo, che sembravano calmarlo. “Ma cerchiamo di essere razionali. Se sono tuoi parenti, è importante che li incontriamo.”

“Perché?” replicò. “Non sono abbastanza come fenomeno isolato? Ho bisogno di un intero albero genealogico per mantenere vivo il tuo interesse?”

Con un sospiro, mi portai le mani agli occhi e li massaggiai fino a vedere sprazzi di luce multicolore dietro le palpebre. “Dio sa se non sembra un incubo,” sussurrai. “Pensi che non preferirei strappare la lettera, fingere di non averla mai ricevuta? Credi che sia contento?”

“Penso che il tuo dannato senso dell’onore ci perderà entrambi,” rispose, a denti stretti.

“Non ho intenzione di lasciarti andare, Holmes. Ma è la tua famiglia. Ti cercano da mesi, sono in pena per te. Immagina come ti sentiresti se domani io svanissi nel nulla.”

“Non ho bisogno di immaginarlo,” rispose Holmes.

“Bene,” ribattei, “allora sai che non possiamo far finta di niente.”

“E come ti spieghi che queste anime in pena, questi parenti premurosi, non abbiano pensato a mettere un annuncio di persona scomparsa né a controllare le colonne alla ricerca di un annuncio come il tuo? Come ti spieghi che questa Mrs. Chapman si sia imbattuta per puro caso in un giornale vecchio di tre mesi?”

“Non lo so,” risposi, stanco. “Tu come te lo spieghi?”

“Non me lo spiego, ed è precisamente per questo che non mi piace.”

“D’accordo,” ammisi. “Ci sono dei punti poco chiari. Non è una ragione in più per incontrare questa gente? Pensa solo a quanto di buono ne potremmo trarre. Potremmo scoprire il tuo passato, le tue origini. Non perché mi interessi la tua genealogia, Holmes, ma perché ogni uomo ha diritto al suo passato e tu non fai eccezione. Posso solo immaginare che terribile condizione sia la tua, e mi distrugge pensarlo. Non posso essere il tuo solo legame col resto dell’umanità. Se possiamo ovviare in qualche modo a questa mancanza, penso che dovremmo farlo.”

Holmes afferrò i braccioli della mia poltrona e la fece ruotare verso di sé di novanta gradi, cosicché ora eravamo l’uno di fronte all’altro. Mi prese il capo tra le mani.

“Perché?” domandò. “Perché avevi tanta paura quando ti ha scritto il tuo amico e ora sei così tranquillo? Perché parli di farmi incontrare persone che potrebbero rovinare ogni cosa, che potrebbero sbattermi in un sanatorio per tutta la vita? Non ti ho spiegato con sufficiente chiarezza che quella sarebbe la morte per me? Perché, nel nome di Dio, perché sapendo tutto questo vuoi ancora che li incontri?”

Gli appoggiai le mani sulle guance. Non l’avevo mai visto così spaurito, e di contro - a dispetto dell’orribile sensazione di avere uno spazio vuoto dove un tempo era stato il mio stomaco - non mi ero mai sentito così lucido.

“Non era paura, era disgusto per me stesso. Holmes, hai la mia parola che non ti porteranno da nessuna parte. Se sono le persone premurose che sembrano, vedranno da sole che è molto meglio per te restare qui piuttosto che passare il resto dei tuoi giorni in un manicomio. E se non lo sono, userò altri argomenti. Se occorre, pagherò il tuo peso in oro perché ci lascino in pace. In un modo o nell’altro, la situazione si accomoderà, e in cambio sapremo finalmente chi sei. So che questo ha un valore per te, anche se tenti di negarlo. Tu che non tolleri un enigma irrisolto, davvero vuoi farmi credere di non voler sciogliere il tuo?”

Le sue mani si ritirarono lentamente dalle mie tempie, e altrettanto lentamente tolsi le mie dal suo volto. Si raddrizzò in tutta la sua altezza.

“Se quella donna è mia sorella ed io sono stato dichiarato infermo di mente, allora ha la mia tutela legale. Se decide di rivolgersi a un giudice per farmi portare via, tu non potrai fare nulla. Nulla, Watson.”

“Al contrario,” replicai, con determinazione. “Potrei rivolgermi a un amico e procurarmi un certificato nel quale si dichiara che, a parte l’amnesia, sei perfettamente sano di mente. Potrei dire di essere Napoleone Bonaparte e farmi dare una cella accanto alla tua. Potremmo fuggire in Francia. Come vedi, c’è un’ampia gamma di alternative.”

“La curiosità di scoprire come mi chiamo e se mio padre era un notaio o un maniscalco non vale nessuna di queste mostruose alternative.”

“Le vale tutte, e le supera,” risposi dolcemente. “Holmes, ascoltami, perché non ci dormiamo sopra e ne riparliamo domani? Per un motivo o per l’altro queste conversazioni giungono sempre quando entrambi siamo esausti.”

Assentì con riluttanza, e posso dire che fu un’ottima idea, perché il mattino seguente Holmes era di nuovo se stesso, calmo e controllato e senza quell’espressione atroce, come se stesse per andare in pezzi da un momento all’altro.

“Scriveremo a Mrs. Chapman,” disse a mo’ di saluto, mentre ancora cercavo faticosamente di riemergere dal sonno.

“Oh, davvero?” mormorai. “Magnifico. Buongiorno anche a te.”

Holmes mi sollevò il mento col pollice e mi premette un bacio sulle labbra. Oh, doveva essere di umore eccellente.

“Ma siccome non ho intenzione di finire i miei giorni con una camicia di forza né di cambiare nazionalità, faremo le cose a modo mio.”

Gli appoggiai una mano sulla nuca. “Va bene.”

“Watson, non ti ho neppure detto di cosa si tratta.”

“Non importa. Qualunque cosa sia, va bene.” Richiusi gli occhi. “Amore, non credere che non m’importi, ma quell’orologio segna le cinque e mezza e un’altra ora, ora e mezza di sonno farebbe una grande differenza per me,” mormorai nel cuscino. “Da bravo.”

Lo sentii sbuffare e il peso sul materasso si spostò bruscamente, ma dormivo già di nuovo prima che Holmes cominciasse ad armeggiare per la stanza. Tuttavia è probabile che il suo buonumore mi avesse contagiato, perché riposai magnificamente e mi svegliai un’ora dopo in splendida forma.

Holmes era in salotto, seduto di fronte alla sua colazione, ma non aveva sollevato un coperchio né riempito un bicchiere, e invece fumava pensosamente coi piedi sul bordo della sedia e le ginocchia contro il tavolo. La cinta della vestaglia grigia, troppo lunga da una parte, pendeva sul pavimento.

“Buongiorno.” Gli toccai la spalla nel passargli accanto. “Hai dormito bene?”

“Mmm-mm.”

Presi posto e mi servii, senza cessare di guardarlo di sottecchi. “Uova?” offrii.

“No, grazie, niente per me,” mormorò, prendendosi la radice del naso tra il pollice e l’anulare, la sigaretta accesa tra indice e medio. “Watson, dobbiamo parlare.”

Annuii. “Mi fa piacere che tu abbia cambiato idea,” dissi a mo’ di esordio.

“E a me che tu stessi ascoltando. Mentre dormivi, ho perfezionato i dettagli nella mia mente. Mi meraviglia che tu non abbia mai pensato di mettere una poltrona lì,” indicò, “davanti alla finestra. Prima dell’alba è un punto ideale per meditare.”

“Non mi capita spesso di meditare prima dell’alba,” ammisi. “A quali conclusioni sei arrivato?”

“Tre fondamentali, e un certo numero di secondarie. Uno: Mrs. Chapman o chi per lei non dovranno mai vedermi. Due: per loro e tutti quelli come loro, tu non sai dove mi trovi, non sei in contatto con me, non hai mie notizie recenti. Tre: il tuo amico Sherlock Holmes è fuori città e non sai quando tornerà.”

“Aspetta, aspetta,” lo interruppi. “Che c’entra Sherlock… che c’entra Sherlock Holmes?”

“Forse nulla,” risposi. “Ma se, trovandosi in loco, decidessero di fare il giro turistico, voglio che tu chiarisca che la bestia rara non è in casa.”

Sospirai. “Holmes, capisco il tuo punto di vista, ma rifletti: non ha senso che io incontri i tuoi parenti. Vogliono rivedere te, è te che devono riconoscere.”

“Però si dà il caso che io non abbia alcuna voglia di vedere loro,” replicò. “Ammetti che è una soluzione elegante, Watson. Tu avrai le tue risposte, io le mie, ed essi - entro certi limiti - le loro. Se necessario, in un secondo momento potremo considerare l’opportunità di un incontro. A certe condizioni.”

“Di cosa hai paura?”

“Oh, ti prego. Non costringermi a ripetere la lista.”

“D’accordo. Riformulo la domanda. Perché non vuoi vederli? Capisco che tu non lo ritenga prudente, ma volerlo sarebbe solo naturale, anche se non ti ricordi di loro. Voglio dire,” esitai, “è davvero quello che pensi o lo fai a mio beneficio? Perché se è così, ti assicuro…”

“Cosa?” mi domandò, senza espressione.

“Che ho la massima fiducia in te, e qualunque cosa deciderai ti appoggerò. Perciò voglio che tu decida liberamente. Non intendo esserti d’ostacolo.”

Holmes schiacciò con deliberata lentezza il mozzicone nel posacenere. “Credi che la nostra vita, l’unica cosa che possiedo e che tengo cara, potrebbe essermi d’ostacolo?” A dispetto della dolcezza delle parole, la voce era inesorabilmente priva d’inflessione.

“Potrebbe,” risposi, senza lasciarmi sviare. “Non voglio che tu decida in maniera affrettata.”

“Non decido mai in maniera affrettata, Watson. Ho avuto modo di analizzare la cosa da tutte le angolazioni mentre tu sbavavi sul cuscino.”

“Grazie. Comunque.”

“Parliamo del vero problema, invece. Tu ti senti in colpa per il fatto che la mia idea di felicità include te piuttosto che la sanità mentale, e adesso che hai un modo per sgravarti la coscienza ti senti sollevato. Vuoi che abbia la possibilità di guarire, ma non vuoi che me ne vada. Vuoi che resti, ma non vuoi avere alcuna parte nella scelta.”

Serrai la mascella. “Ti amo e voglio che tu sia felice. Non so come tu riesca a farla sembrare una cosa tanto orribile.”

“Non è orribile,” ribatté. “Davvero, non lo è. Ma non è correndo rischi inutili che usciremo da questo cercle vicieux. Proprio tu, che parli di decisioni affrettate, dovresti riflettere con più calma.”

“Bene,” risposi, cercando con tutte le mie forze di non suonare ferito o petulante, “allora dimmi semplicemente cosa devo fare e mi limiterò a seguire le istruzioni.”

“Ah, Watson,” sospirò, come se avessi detto qualcosa di incredibilmente stupido e incredibilmente tenero allo stesso tempo. Tornai al mio bacon per non essere costretto a rispondergli o a guardarlo.

Restammo in silenzio per qualche minuto, io intento alla colazione, Holmes piluccando appena, ma era un silenzio teso, carico di pensieri. Holmes aveva ragione sul mio senso di colpa, ma questo non rendeva più tollerabili le cose che mi aveva detto. E c’era lo spettro di questo incontro all’orizzonte, naturalmente, a rendere tutto più greve.

“Ho una sensazione,” disse alla fine, cautamente. Lo disse come se la parola ‘sensazione’ fosse un animale mordace da trattare con la massima cura.

“Credevo che Sherlock Holmes non si affidasse alle sensazioni,” ribattei, incapace di trattenere un po’ di sarcasmo.

“No, difatti,” confermò. “Ma nondimeno la sento, e non mi piace. No, dovrei essere più preciso, non la sento affatto. È un’assenza di sensazione, un vuoto dove dovrebbe esserci qualcosa.”

“Non capisco. Che cosa?”

Si masticò l’interno della guancia, pensieroso. “Queste persone. Tu hai ragione, certamente, non è naturale che non provi alcun desiderio di vederle. Ma è così. Non c’è nulla.”

“Ma non li hai neppure incontrati. Forse, vedendoli…”

“Sento la mancanza di mio fratello, a volte. Atroce. E di Mrs. Hudson. Talvolta mi sembra che perfino Lestrade, se solo una volta entrasse da quella porta… Ma questa gente, non è tanto ch’io non sappia chi sono, ma non sentire nulla? Non mi piace, Watson. Non vorrei mai fare qualcosa che rimuovesse ogni traccia della mia esistenza dalla mente di un altro. Non riesco neanche a concepirla, una cosa del genere.”

Considerai il pensiero per qualche momento. “Mi sembra un po’ poco per derivarne che siano persone indegne.”

“Non derivo nulla, Watson. So solo che, se hanno mai avuto un posto nel mio cuore, l’hanno perso senza lasciare traccia.”

Non lo disse con voce triste o colpita; in tutta onestà, non lo disse come se la cosa gli provocasse altro che una profonda perplessità. Ma mi parve una cosa tremendamente triste da dire. Allungai una mano sul tavolo, col palmo verso l’alto. Ero irritato con lui, ma non così tanto da non offrirgli il mio conforto ogniqualvolta mi sembrava ne avesse bisogno, e qualcuna di più per sicurezza.

Holmes non sorrise, era ancora pensieroso, ma prese la mia mano e la girò, accarezzandomi le nocche.

“Sarebbe stupido da parte tua credere ch’io non valuti la tua opinione. O che non la ascolti.”

“Ah, sarebbe stupido da parte mia,” ripetei, sorridendo mio malgrado.

“Sì, perché dedico molta attenzione all’una e all’altra cosa. So che, un tempo…” Esitò. Una leggera ruga di disappunto gli comparve sulla fronte. “Diciamo solo che ricordo altre occasioni, in cui non ho dovuto faticare così tanto per convincerti del mio punto di vista.”

“Ero più malleabile, prima del ’91,” suggerii garbatamente.

Holmes mi riservò appena uno sguardo veloce, di controllo. “Suppongo di sì. Ma ti prego di fidarti comunque e di lasciare che facciamo le cose alla mia maniera. Dovessimo appurare che non c’è pericolo, saremo sempre in tempo per scoprire le nostre carte.”

Eravamo d’accordo, perciò definimmo i dettagli e prima di pranzo inviai un telegramma a Mrs. Henrietta Chapman, un messaggio conciso nel quale le domandavo di incontrarci, al mio studio se per lei era comodo, e di proporre il giorno e l’ora secondo le sue esigenze. La risposta arrivò prima di cena, e l’incontro fu fissato senza altri convenevoli per due giorni dopo alle undici.

Holmes requisì la lettera e il telegramma e per tutto il giorno seguente non lo vidi affatto. Parte della mattina rimase chiuso nel suo studio a consultare vecchi giornali, domandando di non essere disturbato; poi uscì. Aveva ricerche da fare, ma io non domandai ed egli non mi disse nulla. Non lo sentii rientrare. A notte fonda mi scontrai col suo corpo nel buio del letto; le sue braccia e gambe erano fredde, come se si fosse appena infilato sotto le coperte, e nonostante fosse una notte piuttosto tiepida.

Lo sentii strisciare sul mio cuscino; una ciocca fresca mi sfiorò la guancia. Poi mi parve di sentirlo trattenere il respiro, come volesse dire qualcosa, ma non uscì alcun suono. Prese fiato una seconda volta, e infine bisbigliò: “Russi tremendamente in questa posizione”, con una strana voce rotta da quella che presi per ilarità, ma avrebbe potuto essere anche un singhiozzo.

Lo abbracciai alla cieca e sprofondai di nuovo nel buio da cui ero emerso, portando giù con me il mio premio.

Mrs. Chapman venne accompagnata dal marito. Era una donna alta e asciutta, un po’ sopra i quaranta, con un viso aquilino e occhi chiari. Non vi trovai molta somiglianza, eccezion fatta per la bocca sottile, dalla piega compunta, che mi ricordò quella del mio amico. Il marito, invece, era un uomo robusto con le guance rubizze, inferiore alla moglie nei modi, ma non rude o sgarbato in sé. Erano anzi entrambi l’epitome della gentilezza e delle buone maniere, in quel modo spontaneo e franco che è proprio della piccola borghesia, ad appena un paio di spanne dalle classi inferiori.

Li feci accomodare in salotto. Sentivo l’ansia stringermi lo stomaco, ma per quanto potevo notare non ero il solo. Mrs. Chapman, benché si controllasse in maniera ammirevole, appariva alquanto fragile di nervi e toccava spesso il braccio del marito come per prendere da lui la forza necessaria.

“Beth, tè per i signori.”

“No, dottore, la prego, non perdiamo altro tempo,” esordì Mrs. Chapman. “Il suo telegramma era tremendamente vago…”

“Non mi è sembrato il caso di affidare informazioni importanti alla posta,” risposi. Attesi che Beth avesse lasciato la stanza e richiuso la porta. “Purtroppo, signori, l’aiuto che posso fornirvi è molto limitato. Non ho notizie del vostro parente da prima dell’estate.”

Il volto di Mrs. Chapman si compose lentamente dall’angoscia nervosa a una curiosità leggermente venata di disappunto. “Mi dica tutto, la prego.”

Raccontai loro la storia che avevo concordato con Holmes. Intorno ai primi di maggio mi ero imbattuto nell’uomo corrispondente alla descrizione durante un giro di visite: era solo, senza documenti, febbricitante e chiaramente non in sé. Gli avevo dato ospitalità in casa mia per qualche tempo, durante il quale avevo tentato di rintracciare i suoi parenti col famoso annuncio sul Times, ma non appena la febbre era scesa e il mio ospite aveva potuto rimettersi in piedi non ero stato in grado di trattenerlo. Aveva lasciato la mia casa dopo neppure una decina di giorni, nel mezzo della notte come un ladro. Credevo che non l’avrei più rivisto, e dunque i signori potevano immaginare la mia sorpresa nel ricevere una sua lettera meno di un mese dopo, nella quale mi informava di aver trovato un impiego come uomo di fatica in una fattoria presso Norbury.

“Mio fratello, un uomo di fatica!” esclamò Mrs. Chapman, coprendosi la bocca. “Oh, mi scusi, dottore. Ma se lei l’ha conosciuto capisce la mia sorpresa. William ha studiato, ha le maniere di un signore e il portamento di un primo ministro. Uomo di fatica…”

Allargai le braccia. Non riuscivo a immaginare Holmes nei panni di un lavorante, tranne in uno dei suoi travestimenti, e dunque immaginavo perché non dovesse riuscirci sua sorella. “Mi rincresce sconvolgerla, Mrs. Chapman. Le sto solo dicendo quello che so.”

“Certo, certo,” si affrettò la signora. “Continui, per favore.”

“Non ho molto altro da dirle, purtroppo. Ho risposto a mia volta con una lettera, ma mi è tornata indietro qualche tempo dopo con un avviso di ‘destinatario irreperibile’, e da allora non ho saputo più nulla.”

Mrs. Chapman abbassò il capo sul petto, stringendosi le mani. Con dita tremanti aprì la borsetta, traendone un foglio di carta spessa, di piccolo formato. Lo guardò per un istante con aria affranta, poi lo passò al marito e questi si alzò per porgermelo.

“Un’impressione di Will,” spiegò, parlando per la prima volta. “Oh, saranno vent’anni fa. Che dici, cara? Non li fa vent’anni?”

“Di più,” mormorò la donna, sorridendo coraggiosamente. “Venticinque almeno. Mi dispiace non avere un ritratto migliore, dottore, questo si è tutto consumato. Ma il mio povero fratello non amava farsi fotografare. Aveva un’avversione per questo genere di cose. L’unico altro ritratto che si poteva trovare in tutta la casa, lo prese e lo strappò in una fitta di rabbia dieci anni fa. Diceva che non ci si riconosceva.”

La stampa era molto consumata, in effetti. Vi si distingueva, con qualche fatica, un ragazzo adolescente abbigliato con l’uniforme di una qualche scuola superiore. Il volto era una macchia confusa, ma il corpo era quello longilineo e scattante di Holmes.

“Assomiglia all’uomo che ho conosciuto, sì,” ammisi cautamente.

“Credo che dovrei dirle qualcosa di noi, dottore. Lei è stato così gentile… Mio marito ha una piccola attività di pegno appena fuori Londra. Io per diversi anni sono stata segretaria e dattilografa, prima di sposarmi. Non siamo certamente ricchi, ma abbiamo i nostri mezzi, anche se recentemente, la malattia di Will…” Sospirò penosamente. “Gli specialisti, come lei sa, hanno un prezzo. Noi eravamo pronti a dare fondo alle nostre risorse fino all’ultimo penny, ma è stato solo dopo cinque anni di consulti e terapie che un dottore ci ha detto onestamente che non c’erano prospettive di guarigione. L’unica cosa che potevamo fare, ci ha detto, era trovare al mio povero fratello un luogo tranquillo per le crisi peggiori. Perché forse lei non ha avuto il tempo di accorgersene, dottor Watson, ma mio fratello è soggetto a crisi periodiche, violentissime. Quando accade è veramente uno spettacolo penoso. Può restare padrone di sé per mesi, una volta anche quasi per un anno intero, e poi all’improvviso un dettaglio insignificante, qualcosa che lo disturba senza ragione, lo spinge a distruggere ogni cosa sulla sua strada.”

Annuii gravemente, sentendomi man mano sprofondare in un abisso sempre più nero e minaccioso. Cercai qualcosa da dire. “Non è inconsueto, in casi del genere.”

“Ma mi dica, dottore,” continuò la donna, “quando William… voglio dire, quando quest’uomo l’ha incontrata per la prima volta, in che modo si è presentato? Chi le ha detto di essere? So che può sembrare una strana domanda, ma i medici ci hanno detto che c’è un metodo nella sua follia. Poco prima di fuggire dall’istituto, aveva preso una nuova identità, se così possiamo dire, e se dovesse coincidere…”

Era la domanda che Holmes ed io avevamo considerato con più attenzione. “Talvolta era in sé, e ammetteva di non ricordare molto,” risposi pacatamente. “Ma un paio di volte si è dichiarato un esploratore di origini nordiche. Un certo Sigerson. Lo ricordo perché la stranezza del nome mi colpì subito. Aveva anche una traccia di accento, norvegese o svedese, non saprei.”

“Hai sentito? Hai sentito, Eddie?” esclamò Mrs. Chapman, in tono eccitato. “Lo sapevo, dottore. Sapevo che doveva essere lui!”

“Coincide?” domandai, sentendo mancarmi la voce. Sigerson era un’invenzione di Holmes; di più, era l’identità che egli aveva scelto per sé durante le sue peregrinazioni (vere o immaginarie che fossero) per l’Europa. Holmes era stato Sigerson. E se questa Mrs. Chapman diceva che anche suo fratello, un giorno, aveva assunto la stessa identità…

“Assolutamente,” confermò la donna, gli occhi brillanti.

“È… una magnifica scoperta,” riuscii a dire. Mi schiarii la gola. “Mrs. Chapman, Mr. Chapman, vi auguro con tutto il cuore di ritrovare il vostro parente. Sono certo che…”

“Dottore, a dire la verità…”, le guance di Mrs. Chapman si colorirono di un delicato rossore, “a dire la verità noi, mio marito ed io, speravamo di poter domandare l’aiuto di Mr. Holmes per questo.”

Cercai con tutte le mie forze, e credo che vi riuscii discretamente, di mantenere un’espressione amichevole e neutra. “Temo che al momento non sia possibile. Holmes è partito.”

“Partito!” ripeté Mrs. Chapman, con voce addolorata e rauca, carica di delusione.

“Sì, e purtroppo non so dirle quando…”

Fu in quel momento che la porta del salotto si aprì, e Holmes comparve sulla soglia con l’aria più casuale del mondo.

“Oh, sei impegnato, Watson,” disse con un rapido sguardo ai miei ospiti. “Domando scusa.” Si appoggiò allo stipite, sollevando l’indice nella mia direzione. “Se puoi concedermi un minuto quando avrai finito, ho cose della massima importanza da discutere con te.”

“Certamente,” assentii, controllando i signori Chapman con la coda dell’occhio. “Quando sei tornato?”

“Un momento fa.”

“Qualche, uhm, svolta nelle tue indagini?”

“Oh, sì,” rispose, adesso guardando apertamente Mrs. Chapman negli occhi. “Una non del tutto inaspettata, ma che nondimeno so apprezzerai. Signori, con permesso.”

“William!” gridò Mrs. Chapman, scattando in piedi.

Holmes si volse appena, le dita già sulla maniglia.

“Non mi riconosci?” insistette la donna. “William, sono tua sorella. E questo è Eddie! Non… non ricordi?”

L’espressione di Holmes si indurì, solo per un istante, e poi si spezzò in un leggero sorriso delicatamente confuso. “Mia cara signora, mi creda, ricorderei di aver avuto una sorella,” disse con una voce dalla quale ogni traccia di cortesia era stata estratta e riversata forzatamente col contagocce. “Certamente ricorderei una sorella come lei.”

Mrs. Chapman marciò nella sua direzione, appoggiandogli le mani sulle braccia. “Mio caro, caro William,” mormorò, con voce spezzata. “Tu non sai… non immagini quanto siamo stati in pena per te!”

“Perché ha mentito?” disse Mr. Chapman, alzandosi a sua volta. Mi occorse un attimo per capire che si stava rivolgendo a me. “E lei sarebbe un dottore? Vigliacco!”

La situazione sembrava in procinto di degenerare, ma Holmes era tranquillo e padrone di sé. Appoggiò una mano su quella di Mrs. Chapman, battendovi un colpetto rassicurante. “Certamente lei mi confonde con qualcun altro, cara signora.” Sorrise brevemente, un sorriso orribile, predatorio, che non riuscii in alcun modo a spiegarmi. Tutto di Holmes mi appariva incomprensibile in quel momento, a partire dal fatto che avesse deciso di mostrarsi dopo aver rimarcato con veemenza la necessità di evitarlo. “La meraviglierebbe sapere quante volte mi è accaduto di essere scambiato per qualcun altro. Un errore del tutto comprensibile. Se fossi in lei, accetterei la possibilità.”

Gentilmente ma con fermezza, la guidò fino al divano e la fece accomodare, staccandola dal proprio braccio. Anche Mr. Chapman sedette lentamente, senza perdere l’aria animosa e ostile. Con calma regale, Holmes si accomodò sulla sua poltrona.

“Ai signori dà fastidio se fumo? No? Vi ringrazio. Hai un fiammifero, Watson…? Credo di aver perso i miei da qualche parte sul treno.”

Naturalmente per tutto quel tempo era stato nella camera attigua, e non dubitavo che avesse udito ogni parola. Colsi l’occasione per scambiare un breve sguardo con lui sopra la sigaretta. A dispetto delle maniere affabili, gli occhi di Holmes erano acciaio. Posò la mano sulla mia per guidarla alla sigaretta, e la lasciò espirando la prima boccata di fumo.

“Dottor Watson,” disse Mrs. Chapman, con rabbia a stento controllata. “Domando una spiegazione. Che significa questa pagliacciata? Mi ha detto di non avere notizie di mio fratello, e adesso scopro che il suo famoso amico ‘Sherlock Holmes’ non è altri che lui! Vuole spiegare?”

Ero a corto di parole, e tanto più di spiegazioni. Holmes accavallò le gambe, portandosi pigramente la sigaretta alle labbra.

“Mia cara signora,” disse lentamente, amabile. “Trovo già abbastanza fastidioso che lei persista nel suo sgradevole fraintendimento dopo essere stata avvertita dell’errore. Ma che aggredisca il dottore in maniera così maleducata è decisamente troppo. Ho più di una mezza idea di mettere lei e il suo gentile accompagnatore alla porta.”

Un’ombra di dubbio passò nei volti dei signori Chapman, ma durò solo un momento. Mrs. Chapman sembrò raccogliere le energie e poi mi domandò, in tono sostenuto: “Vuole rispondere, dottore?”.

Guardai Holmes. Non mi diede alcuna indicazione.

“Temo di non potere,” ammisi, onestamente.

“Nega che quest’uomo è lo stesso dell’annuncio?”

Holmes espirò rumorosamente, in un sospiro, ma non disse nulla.

“No.”

“Allora lei per tutto questo tempo ha tenuto nascosto mio fratello, l’ha assecondato nella sua follia e ne ha fatto… Dio mio, un fenomeno da baraccone,” esclamò Mrs. Chapman, la voce vibrante di indignazione. “Non prova vergogna? Non neppure un briciolo di dignità? Ha sfruttato mio fratello per… per… William, che cosa ti ha fatto quest’uomo?”

“Un certo numero di cose,” rispose Holmes, grattandosi distrattamente l’angolo della bocca con l’unghia del pollice. “Non ultimo, darmi una casa e un letto e uno studio per riprendere ad esercitare la mia professione. È difficile tornare in affari dopo un lungo periodo all’estero.”

“All’estero?” ripeté la donna. “William, tu non hai mai messo piede fuori dall’Inghilterra.”

“Ma lei sì, non è così?” disse Holmes, tagliente. Non si era mosso, ma d’un tratto aveva abbandonato completamente quell’aria pigra e annoiata che non gli apparteneva.

“Io… Che significa?”

“Significa, mia cara signora, che lei non è mia sorella più di quanto lo sia il dottor Watson.”

“William!” La donna si inginocchiò accanto alla sua poltrona, prendendogli la mano tra le sue. “William, tesoro mio, sei tremendamente confuso. Il dottore ci aveva detto che era possibile, ricordi? Ne abbiamo parlato a lungo, quando ti sei sentito meglio, a Natale. Ci aveva avvertito che una cosa del genere poteva succedere di nuovo. Che cos’è questa follia di crederti Sherlock Holmes, eh? Non lo vedi che è assurdo? Chissà cosa ti ha fatto credere quest’uomo…”

“Assurdo?” ripeté Holmes, sfilando con decisione la mano dalle sue. Schiacciò la sigaretta nel posacenere. “Grottesco, piuttosto. La situazione è estremamente grottesca. Oserei dire che tende alla farsa, una brutta commedia degli equivoci scritta da un autore mediocre. Io non sono Sherlock Holmes, questo è chiaro, lei non è mia sorella perché non ho sorelle, e né lei né suo marito vi chiamate Chapman. L’unico nella parte di se stesso è il dottor John Watson, per quanto anch’egli talvolta prenda altri nomi.”

La donna sbiancò. “W-William? Ma che dici?”

“Margaret e Isa Harding, di Winchester. Ricercati per rapina, truffa, rapimento, circonvenzione di incapace, e non ultimo un sordido piccolo affare di prostituzione che potrebbe risultare o no in un’accusa di omicidio.” Tirò fuori dalla tasca un mazzetto di fogli tenuti insieme da una graffetta e lo gettò sul pavimento di fronte a sé. Erano ritagli di giornale. “So che abbiamo i medesimi hobby, madame. Anch’io, vede, sono un cultore dei vecchi giornali. Servono a riempire il mio archivio. Sono tornato al lavoro da poco tempo e purtroppo è ancora assai sfornito, ma per fortuna posso contare sull’aiuto di un ispettore o due.”

Alle spalle della donna, l’uomo che Holmes aveva chiamato Harding infilò una mano nella giacca e ne trasse un piccolo revolver da taschino, spianandolo contro il mio amico.

“Holmes!” chiamai, alzandomi in piedi a mia volta, ma Harding puntò l’arma nella mia direzione.

“Buono, dottore,” disse il criminale. Margaret Harding si alzò in fretta, portandosi accanto al marito. Era livida di rabbia, le labbra contratte in una smorfia. Non vi trovavo più la minima somiglianza con la bocca elegante e discreta del mio amico, in quel momento leggermente stirata in un sorriso sardonico.

“Lei è la mente, questo è chiaro,” disse alla donna. “Sinceramente, signora, io la ammiro. Se non avessi cominciato a lavorare al vostro caso mesi fa, può darsi che mi avreste tratto in inganno. Può darsi. Certo, la lettera avrebbe richiesto qualche piccola attenzione in più, non crede?”

“Sei solo un povero mentecatto,” sibilò Margaret Harding.

“Sì,” ammise Holmes, con assoluta calma. “Lo so.” Infilò una mano sotto il bavero della giacca, ma ne seguì lo scatto minaccioso del cane della pistola di Harding. Holmes lo guardò con un leggero sospiro di impazienza e terminò il gesto in tranquillità, tirando fuori il portasigarette.

“Allora,” disse scegliendo con cura, “dov’eravamo rimasti? Ah sì, la lettera.” Chiuse il contenitore con uno scatto metallico, continuando a parlare intorno alla sigaretta. Alzò appena lo sguardo, riabbassandolo subito dopo. “Può abbassare la pistola, Harding. Il dottore è disarmato ed io non ho intenzione di aggredirvi. Non saprei come lavarmi le mani, dopo.”

“Razza di…”

“La lettera, dunque. L’ho qui con me.” Infilò di nuovo la mano sotto la giacca, traendone un foglio ripiegato. “Un esempio ammirevole di prosa epistolare, gliene do atto. E tuttavia raccomando sempre di lavarsi le mani quando si maneggiano certi gingilli.” Accennò alla pistola. “Si rischia di lasciare macchie compromettenti.”

Sollevò il foglio, indicando un punto in basso. Si intravedeva, nitidissimo, un piccolo alone sghembo, come una ditata, che rendeva la carta traslucida.

“Olio da cucina? Lucido per mobili? Ah, ma solo il grasso per lucidare le armi ha questo odore particolarissimo. D’altra parte, non è un crimine tenere armi in casa. La maggior parte di noi lo fa. Non le nostre donne, però. Quando vedo una lettera scritta da una donna così ammodo, su carta così fine, con una grafia così elegante, macchiata di grasso per armi… sinceramente, non posso fare a meno di pensare che ci sia qualcosa di strano. Sulla busta non mi avrebbe sorpreso - le buste passano di mano in mano, Dio solo sa quante volte, prima di giungere a destinazione. Ma sulla lettera?

“Era solo un sospetto, ma uno che valeva la pena verificare. In tutta onestà, credo che l’avrei fatto comunque, ma è sempre bene avere un incentivo. Così ho preso l’indirizzo del mittente e vi ho riservato una visita. La signora - se mi passa l’esagerazione - ricorderà forse un postino con una brutta tosse che le ha chiesto un bicchiere d’acqua.”

“Tu!” ringhiò la donna. “Eri tu! Non te lo sei voluto togliere il vizio di strisciare alle spalle, eh?”

Holmes la guardò freddamente. “Ho ottima memoria per le nozioni utili; è tutto il resto a sfuggirmi. Così, quando l’ho vista, non sono riuscito assolutamente a ricordare di averla già incontrata, perché la sua faccia e quella di suo marito sono meno di niente per me. Ma in compenso ho ricordato perfettamente di averla vista in fotografia, sul giornale. Oh, è molto cambiata, certamente, un altro taglio di capelli, un altro colore, e il trucco è eccellente. Quasi irriconoscibile. Ma quel naso è inconfondibile. Era nel mio archivio, sotto la H di Harding.”

Ero ammutolito. La mano di Holmes, stretta a pugno oltre la sponda del bracciolo, tremava leggermente.

“Così ho fatto qualche indagine nel vicinato. Non è stato troppo difficile trovare le ragazze. Trovare che ne mancava una è stato ancora più facile. È questo il problema coi vicinati rispettabili, tendono a essere molto più loquaci di quelli che hanno qualcosa da nascondere.

“E il resto è venuto da sé. Ho sentito puzza di acidi chimici in casa - la tua area, Harding, non è così? Non certo le mani di un agente di pegno, quelle. Ex conciatore, forse? Una solida base di chimica torna sempre utile al criminale di buon livello. E naturalmente questa storia dei travestimenti non è cosa che io possa aver imparato da solo. Strisciare alle spalle non è un’attitudine naturale. Qualcuno deve avercela insegnata.”

Holmes si raddrizzò sulla poltrona. La sua voce abbandonò completamente il tono leggero e annoiato che aveva usato fino a quel momento.

“Fermo,” ringhiò Harding, aggiustando la mira.

“Oh, non mi sparerai.”

“Ah sì? E perché no?”

“Hai due ottimi motivi per non farlo. Il primo è che, malgrado tutte le prove siano contro di voi, non avete ancora ucciso nessuno. Il secondo è che il suddetto ispettore è alla porta con tre o quattro agenti robusti, e aspetta solo un segnale per fare irruzione.”

Harding e la moglie si scambiarono uno sguardo, poi vidi gli occhi dell’uomo appuntarsi sulla finestra. Anche Holmes lo notò.

“Ma prego, accertatene tu stesso,” disse indicando alle sue spalle.

“Se ci fai mettere dentro sei finito pure tu,” disse Margaret Harding, mentre il marito si accostava alla finestra per gettare uno sguardo fuori e lanciava una bestemmia atroce. “Sei finito pure tu,” ripeté la donna, con voce tesa. “È finita la pacchia! Questa bella vita che ti sei fatto con questo povero imbecille, puff!, te la puoi sognare. Tu ci fai mettere dentro e noi diciamo tutto agli sbirri delle cose che hai fatto con noi.”

“Per voi,” corresse Holmes. “Oh, suppongo di aver fatto ogni sorta di cose, non avendo dove andare, senza un nome, uno scopo, sapendo che nessun altro mi avrebbe dato l’unica cosa di cui avevo bisogno: problemi da risolvere. Sì, posso immaginare le cose che ho fatto. Un’anima gentile dalla memoria lunga a Winchester me ne ha dato la misura esatta. Ma per fortuna non ne ho bisogno, perché sono state fatte da un’altra persona, una che non conosco e con la quale non ho niente a che spartire. Possiamo andare a raccontarla insieme all’ispettore, la vostra versione e la mia, e vediamo a chi crederà.”

“Tu sei pazzo,” disse Margaret Harding. “Sei malato. Quelli come te li devono rinchiudere tutti e buttare la chiave!”

“Curioso,” replicò Holmes, a bassa voce. “Avrei detto la stessa cosa di voi.”

“Sei un ingrato. Tutto quello che sai te l’abbiamo insegnato noi! Senza di noi saresti in mezzo a una strada!”

“Sì,” disse Holmes. “Ed è per questo, vedete, che vi renderò un favore, nonostante l’idea mi disgusti. Vi farò assolvere dall’accusa di omicidio. Credetemi, nessun altro se ne prenderà la briga.” Scrollò le spalle. “Se sapete cos’è meglio per voi, uscirete dalla porta e seguirete l’ispettore senza tanto baccano. Ma se preferite potete sempre tentare la fuga. In questo caso vi auguro sinceramente buona fortuna. Ci sono agenti da qui a Holland Street.”

Appoggiò il gomito sul bracciolo e il volto nella mano, come se le energie l’avessero infine abbandonato. Harding attraversò la stanza per tornare vicino alla moglie. Non parlarono, si scambiarono solo un lungo sguardo. Poi Harding abbassò la pistola e la rimise lentamente dentro la giacca.

Si richiusero la porta alle spalle, senza fare rumore.

Holmes non si era mosso dalla sua posizione. Quando gli sfiorai la spalla, rimase perfettamente immobile, come una statua.

“Non mi toccare,” bisbigliò.

“Perché non dovrei?” replicai, con tutta la gentilezza possibile. Gli strinsi la mano intorno al polso, tirandolo via delicatamente dal viso.

“Perché credo che tra un momento rimetterò la colazione,” mormorò Holmes, livido.

Ci fu un lieve trambusto fuori dal salotto; sentimmo la voce dell’ispettore Brooks dichiarare gli Harding in arresto. Ne dedussi che Holmes doveva aver dato indicazioni precise a Beth, e presi un promemoria mentale di aumentarle lo stipendio. Quello che la povera ragazza era costretta a sopportare da qualche mese a quella parte…

“Di’ solo una parola e mi farò arrestare anch’io,” sussurrò Holmes, lo sguardo fisso da qualche parte intorno alla mia spalla, ma mai incontrando i miei occhi.

“Non essere ridicolo,” replicai.

“Capirei se non potessi più tollerarlo. Giuro che capirei. Mio Dio, credo di non poter capire nient’altro.”

“Allora temo che dovrai abituarti a un’estrema stupidità in questo aspetto.”

“Tu non…” Alzò lo sguardo di scatto, con una rabbia istantanea che si spense nel giro di un secondo, come una vampata senza combustibile. “Tu non sai cosa significa.”

“No,” ammisi. “Ma potresti spiegarmelo.”

“Non credo di esserne in grado.”

“Tu, incapace di qualcosa?” Gli baciai le nocche. “Perdonami se non ti credo affatto.”

In quel momento sentimmo passi avvicinarsi alla porta e saltammo entrambi di scatto in piedi. Holmes aveva un colorito malsano, era pallido da fare spavento e sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro. L’ispettore Brooks parve notarlo subito, e per un istante temetti che avrebbe fatto commenti, ma si astenne e gliene fui immensamente grato.

“Bene, Mr. Holmes,” disse in tono pratico. “Sono gli Harding, non c’è dubbio.”

“Sì, ispettore, e il cielo è blu. Ha qualcosa da dirmi che non sia del tutto evidente, o dobbiamo rassegnarci a continuare questo piacevole scambio di ovvietà?”

La replica, seppure tinta del suo solito sarcasmo, uscì molto più dura e tagliente di quanto fosse necessario.

“Suvvia, Holmes,” dissi appoggiandogli una mano sulla spalla. Lo sentii rilassarsi, seppure marginalmente.

“Mi aspetto che si presenti in commissariato domani,” disse Brooks, passando il cappello da una mano all’altra. “Per dare una testimonianza completa di quello che sa.”

“Sarà fatto,” assicurò Holmes. “Altro?”

“Mi aspetto che ci dica anche perché gli Harding si trovavano in casa sua.”

“Una straordinaria coincidenza,” rispose. Esibì un sorriso intollerabile, il sorriso benevolo di una divinità creatrice al più stupido degli insetti da Lei creati. “Non lo crederà, ispettore. Credevano che fossi un loro parente fuggito mesi fa da un manicomio.”

“Chissà perché,” borbottò Brooks, “lo trovo meno incredibile di tante altre cose.”

“Questo perché, a dispetto della categoria cui appartiene, è un uomo dotato del più grande dono possibile, quello dell’immaginazione. Non voglio trattenerla oltre, ispettore.”

Messo alla porta, Brooks raddrizzò comunque le spalle con un residuo di dignità. “Domani,” ripeté. “Alle dieci. Questo non è un racconto per lo Strand, Mr. Holmes. Voglio una testimonianza completa, o quant’è vero Dio la sbatto dentro insieme ai suoi due amici.”

Holmes gli chiuse la porta alle spalle, sempre con quel medesimo, orribile sorriso sulla bocca, e poi vi si appoggiò contro con tutto il suo peso, esalando un lungo sospiro esausto.

“Dio mi aiuti, è un incubo,” mormorò, gli occhi chiusi.

“Vuoi davvero farli scagionare dall’accusa di omicidio?”

Riaprì gli occhi. “È falsa.”

“Sì, ma non è questo il punto.”

“E qual è? Mi disgustano. Credo che il mondo sarebbe un posto migliore senza di loro. Ma non sono due assassini, e se posso dimostrarlo lo farò.”

Gli presi il viso tra le mani, sfiorandolo appena. Holmes fece per ritrarsi istintivamente, ma si fermò a metà del gesto.

“Che cosa ricordi?”

“Nulla. È questa la parte terribile. Qualunque cosa, Watson. Qualunque cosa, e io non lo saprò mai.”

“Non sei un assassino.”

“No? So che potrei uccidere. E ad ogni modo, non è l’unica cosa indegna che potrei aver fatto.”

“Non sei un criminale.”

“Oh, sì, ricordo di averlo detto. Ricordo di averci creduto.”

“Non sei un criminale,” ripetei, lentamente. “Sono stato in guerra, Holmes. Ho visto come diventa un uomo dopo che l’esercito ha tirato fuori il criminale che è in lui. Ho visto quello sguardo. Tu sei un giudice migliore, senza dubbio, ma solo per questa volta concedimi di dirti che in te non c’è nulla del genere.” Lo guardai onestamente, desiderando disperatamente che mi credesse. “Non saresti qui, altrimenti,” dissi con forza. “Hai la mia parola, Holmes, che non saresti qui.”

“Forse non ci sarò domani.”

“Questo,” replicai, “accadrà solo se saremo insieme da qualche altra parte.”

Holmes appoggiò la nuca contro la porta con un tonfo secco e chiuse gli occhi. Dapprima si lasciò solo baciare, le labbra ferme contro le mie, ma poi sentii la sua mano strisciare tra i miei capelli e la sua bocca rispondere.

“Che succederà se domani dimenticherò tutto?” mormorò, le dita piene dei miei capelli e un baluginio di sole mattutino negli occhi che gli sbiadiva le iridi in un argento cieco.

“Sarò qui per ricordartelo.”

“E se crederò d’essere qualcun altro? Un esploratore? Un pittore italiano?”

“Oh, magnifico. Non sono mai stato in Italia,” replicai. “E tra dieci o quindici anni vedrò di convincerti a crederti un pensionato e ci compreremo una casa in Sussex o in qualunque altro luogo di campagna, dove potrai crederti quello che preferisci per i dieci o venti dopo di quelli.”

“Quello che preferisco? Anche qualcosa di estremamente ridicolo?”

“Assolutamente. Fai del tuo peggio.”

“Un veterano in pensione?”

“Questo lo trovi ridicolo? Grazie.”

“Sulla mia persona, certamente. Un pervertito che ha trasferito i suoi vizi innominabili nella quiete della campagna?”

“Oh, molto meglio. Siamo quasi al farsesco.”

“Un apicoltore con un pessimo carattere e un cavalierato nel cassetto della scrivania.”

“Perfetto. Perfetto.”

Alla fine ridevamo, e anche se era una risata leggermente isterica nessuno dei due tentò di fermarla. Il caso dell’investigatore smemorato era chiuso, e perciò ci regalammo un pranzo da Mancini, insistendo galantemente entrambi per offrire (vinsi io, ma solo perché Holmes era sinceramente esausto). E quella sera cenammo presto e ci ritirammo prestissimo, muovendoci l’uno attorno all’altro in circoli sempre più stretti, sfiorandoci e urtandoci in tutte le maniere più goffe, finché Holmes non mi domandò se preferivo dormire da solo, ed io gli risposi che preferivo non dormire affatto.

Non ci furono altre domande.

+

Gli interrogatori andarono per le lunghe. Poiché Holmes stava cercando di scagionare gli Harding da una duplice accusa di omicidio, e poiché aveva consegnato a Scotland Yard due pericolosi ricercati cui davano la caccia da anni, gli fu concesso un certo numero di colloqui privati. Holmes barattò i suoi servigi di investigatore con informazioni sul suo passato, ma non ne ricavò molto. Sia che non volessero collaborare, sia che davvero sapessero poco o niente, gli Harding seppero solo informarlo sul breve periodo che aveva passato con loro.

Apparentemente, Holmes era stato il pianificatore del gruppo. Quando avevano in mente una rapina o qualsiasi altro progetto criminoso, era Holmes a occuparsi dei dettagli. Conosceva la città di Londra, tutte le strade e i vicoli come il palmo della sua mano, aveva una discreta conoscenza della routine di Scotland Yard, conosceva i percorsi preferenziali dei portavalori e così via. Non usciva mai di casa, e tutto ciò che faceva quando era lasciato a se stesso era leggere giornali. Tonnellate di giornali. Era il suo unico vizio. Parlava pochissimo, e le ragazze dicevano che dava loro i brividi. Una di loro, che l’aveva trovato bello, era stata respinta in maniera così improvvisa e violenta che nessuna ci aveva più riprovato. Quanto alle cicatrici dell’ago, loro non lo avevano mai visto prendere una goccia di alcuna sostanza.

Lo chiamavano William non perché fosse il suo nome, ma perché dovevano pur chiamarlo in qualche maniera, e Holmes non aveva fatto obiezioni. Quando l’avevano trovato, un anno prima, era senza memoria, con abiti modesti addosso e forse uno scellino in tasca. Altro non sapevano.

Holmes ritornò esausto da ognuno di quei colloqui, e se non avessi fatto pressioni per conoscere le novità è cosa certa che non avrebbe mai preso l’iniziativa di parlarmene. Il suo umore andò peggiorando di giorno in giorno, e una sera lo trovai sprofondato in poltrona, la manica rigirata fino al braccio, intento a fissare gravemente le cicatrici puntiformi nell’incavo del gomito.

Non volevo dare l’impressione che lo stessi spiando, perché non era così, e certamente mi aveva già sentito dal corridoio o l’avrebbe fatto ora se fossi tornato indietro. Perciò continuai per la mia strada e andai a sedermi in poltrona. Holmes tirò giù la manica lentamente e continuò a fumare con aria pensosa.

“Ho incontrato Richard Woodley, questa mattina,” annunciai.

“Ah davvero,” replicò, distrattamente.

“È tornato a Londra in questi giorni e crede che resterà almeno fino a Natale. Carstairs non offre grandi attrattive, apparentemente.”

“Ti ha già chiesto di bere qualcosa insieme in un club o nell’altro? Quello di Mulberry Street, per esempio? È molto rinomato.”

“Oh, no,” risposi, ridacchiando. “Il ragazzo sa perfettamente che non sono interessato. Inoltre, sono troppo vecchio.”

“Mio Dio, che sciocchezza,” ribatté Holmes, in tono affettuoso.

“Non è una sciocchezza. Ho passato i quaranta. Non ho più l’età per scappatelle avventurose e relazioni da un tanto al chilo. Ho bisogno di certezze. Ho bisogno di sapere che sarà sempre la stessa faccia ad aspettarmi quando torno a casa.”

“Sembra un incubo,” rispose. “Come puoi tollerarlo?”

“La vita matrimoniale ha i suoi pregi. Aspetta, lasciami ricordare perché te l’ho raccontato. Ah, sì. Woodley mi ha chiesto se pensavo di tornare a scrivere.”

“Ti ha chiesto se pensavi di tornare a scrivere?”

“Mi ha chiesto di tornare a scrivere.”

“E tu, inebriato dalla devozione del tuo giovane ammiratore e dalla non insignificante attrattiva del suo bel faccino, hai giurato di sì?”

“Nulla del genere. No, non ho progetti per il momento, e gliel’ho detto. Ma Woodley ha sentito il bisogno di farmi sapere che Lady Constance si è espressa in favore di una piccola cronaca del caso che ha coinvolto suo figlio. Sostiene che si sentirebbe… vendicata, in una certa maniera.”

“Il processo al colonnello Moran non è ancora finito, e ad ogni modo io non mi esporrei a parlarne prima di alcuni anni.”

“È quello che pensavo,” assentii. “Tra qualche anno. Non ho fretta, ma… ho anche altri appunti, per la verità. Il caso di quell’avvocato di Blackheath e del costruttore di Norwood, per esempio.”

“Non lo intitolerai L’avvocato di Blackheath, voglio sperare.”

“Pensavo a Il costruttore di Norwood.”

Holmes si portò una mano alla faccia, ridendo silenziosamente. Quando la scostò, però, l’espressione era di nuovo pensierosa.

“Che cosa dirai di Sherlock Holmes? Come è riemerso da quel terribile abisso a Reichenbach?”

“Dirò che non c’è mai stato. È la verità, dopotutto. E poi dirò che ha passato tre anni in qualche posto ridicolo, come il Tibet o - cos’era? Marsiglia? - no, Montpellier, a fare ricerche su qualcosa di parimenti improbabile, così chi vorrà potrà rifiutarsi di credere che sia lo stesso Sherlock Holmes e avvicinarsi di un centimetro alla verità.”

Sorrisi, e Holmes sorrise con me, più per non dispiacermi che per genuino divertimento. Appoggiai una mano sulla sua. Era calda.

“Pensavo…” mormorò.

“Oh, lo spero bene.”

Mi rivolse un’occhiataccia. “Pensavo che non ricordo d’aver mai provato un’infelicità più abietta e completa di quella che provo in questo momento, fatto salvo per quei giorni orribili in cui il mondo è uscito dai suoi binari.”

“Mio caro…”

“Eppure sono perfettamente padrone di me, e non ho alcun desiderio di stordirmi con cocaina o morfina, come non l’ho avuto allora. E poi,” alzò la manica sinistra, con un gesto nervoso, “guardo questi, e mi domando quanto dovessi essere infelice in quegli anni. Non riesco a immaginare di aver fatto qualcosa di così stupido per il mero piacere della sensazione.”

“Ma non lo sei più,” osservai, gentilmente.

“No,” ammise. “Dopo aver fatto questa riflessione, ogni cosa mi è apparsa stranamente ridimensionata.” Accennò un sorriso. “So che ti sei preoccupato tremendamente, in questi giorni.”

“Non per colpa tua.”

“Lo so. Ma comunque sappi che è passato. La malinconia è inerzia e l’inerzia non mi si addice.”

“Sono felice di sentirlo.”

“E ho del lavoro da fare.” Si massaggiò gli occhi con le dita. “La prossima signora che entrerà a ordinarmi un rapporto dettagliato sulle infedeltà del marito la metterò alla porta, lo giuro.”

“Potresti accettare solo i casi che ti interessano,” suggerii. “Non devi mantenerci entrambi, ed io personalmente non amo i regali costosi.”

“Che stupidaggine,” mormorò. “Tu non mandi a casa i pazienti con malattie poco interessanti. Sarei un ben misero professionista, non ti pare?”

Mi fermai, guardandolo con curiosità. Non credevo che gli avrei mai udito dire una cosa meno da Holmes, e per un momento ne ebbi quasi paura. Ma poi egli alzò un angolo della bocca e aggiunse con velata dolcezza: “Vai a letto, Watson. Mi impedisci di pensare”.

Mi ritirai ridendo tra me e me, ricavando una perversa soddisfazione dal fatto che egli mi guardasse con perplessità, senza neppure immaginare le ragioni della mia allegria.

“Una pipa,” contrattai dalla porta.

“Tre.”

“Due. Sono trenta pagine del mio William James. Ti aspetto.”

+

Così termina l’incredibile storia del detective senza memoria, scritta non per il piacere del pubblico ma per il mio ricordo privato, affinché i punti di maggiore interesse - Holmes direbbe, gli enigmi; io dirò, l’eccezionalità della storia stessa - non vadano completamente perduti quando la mia memoria arrugginirà e si offuscherà. Neanche per queste pagine riservate al buio discreto del mio cassetto, tuttavia, ho avuto il coraggio di usare i nomi reali delle persone coinvolte, fatta eccezione, è chiaro, per me stesso. La prudenza è indispensabile, tanto più quando si ha a che fare con i segreti degli altri.

Sul presente tacerò. Il compito della prosa è tramandare il passato, e al tempo stesso distanziarcene. La prosa è cosa inerte, è ricordo, è fotografia, mentre il presente è vivo e bussa alla nostra porta ad ogni istante; impossibile ridurlo a impressione mentre ancora le sue suggestioni ci pervadono. No, mi fermerò qui, invece: ai passi di Holmes nel settembre del 1894 che lentamente ascendono le scale, alla mia lampada a gas che brilla fioca contro la pagina, al tonfo leggero del libro chiuso che coincide col cigolio disciplinato della maniglia. Mi fermerò qui, al travaglio meraviglioso e atroce di nascere al mondo per una seconda volta, e non ci saranno altre parole.

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, izu, challenge: bigbangitalia, fic: sherlock holmes

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