Titolo: My Infinite Variety (A Case of Identity)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: R
Conteggio parole: 41.410 (W)
Parte: 3/5
Warning: Slash, what if, qualcos'altro che ora non mi viene in mente
Note: What if su EMPT.
Scritta per:
bigbangitalia, seconda edizione.
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5 I giorni seguenti furono tranquilli, se una cosa del genere è possibile con Sherlock Holmes. Il primo giorno trascorse senza alcun avvenimento degno di nota - tranne il fatto, veramente poco notevole, che Holmes mancò da casa per la maggior parte e non avevo la minima idea di cosa fosse andato a fare. Il secondo invece lo trascorse interamente tra la sua camera da letto e il salotto nell’inerzia più completa, e a vedere il suo sguardo vacuo cominciai a temere che altri difetti di Sherlock Holmes potessero essersi trasferiti al suo sosia. Non vidi aghi né boccette sospette, ma se pure c’erano, non mi aspettavo certo che li lasciasse in bella mostra. A cena, tuttavia, Holmes mi rassicurò con divertita esasperazione che non avevo nulla di cui preoccuparmi.
Il terzo giorno Holmes ricevette un telegramma e scomparve dalla circolazione fino a mezzanotte, quando lo vidi riapparire nelle vesti compite, e stranamente adatte alla sua lunga figura asciutta, di un pastore anglicano. Era tardi, e mi ero assopito sulla poltrona in salotto. Non feci domande. Holmes mi rivolse un sguardo affettuoso e mi diede la buona notte.
In questa maniera, tra inerzia e attività febbrile, passò una settimana. Nessuno aveva risposto all’annuncio, che avevo provveduto a far ripubblicare ogni giorno a mie spese (Holmes doveva aver notato, ma non vi aveva fatto menzione), né era comparso alcun annuncio di persona scomparsa che corrispondesse alla sua descrizione. La cosa, lo ammetto, mi dava ogni giorno un inesprimibile sollievo. La nostra convivenza non era esente da frizioni: il carattere di Holmes, sorprendentemente amabile nei momenti buoni, era anche tremendamente aspro in quelli cattivi, e talvolta mi ritrovavo a corto di pazienza. Ma per la maggior parte del tempo era un’ottima sistemazione. Dopo il primo giorno, avevo dimenticato di domandare a Percy Trevelyan notizie del suo quadricipite.
“Intendo chiedere il suo permesso per un progetto, dottore,” mi disse a colazione l’ottavo giorno.
“Che genere di progetto?”
Gli ultimi giorni di attività intensa (dopo un paio di completa inerzia) gli avevano fatto bene. Continuava a mangiare poco e perlopiù sotto mia supervisione, ma aveva un colorito sano e l’aria energica dei momenti migliori. Le nostre mani si scontrarono sopra il piatto del bacon, e sorridendo gli feci cenno di servirsi per primo.
“Ho notato che la sala d’attesa adiacente al suo studio non viene mai usata, giacché Beth ha disposizioni di far accomodare i pazienti in salotto. Dato che lei non la usa, mi domandavo se potrei impiegarla io in qualche maniera.”
“Sì, non mi sembra che ci sia alcun problema,” assentii. “Ma a cosa le serve?”
Holmes alzò lo sguardo, con vaga reticenza. “Vorrei ricevervi delle persone.”
“Che genere di persone?” chiesi lentamente.
“Oh, ogni genere, veramente.”
“Temo che dovrà essere un po’ più specifico, Holmes. A cosa le serve la stanza?”
La reticenza si espanse a tutto il suo volto e si trasformò in un’ombra uniforme di fastidio. “Vorrei tornare a lavorare. Se il padrone di casa è d’accordo,” aggiunse.
Non era la cosa più bizzarra che gli avessi sentito dire, e per la verità da tempo sospettavo che fosse quella la fonte delle sue recenti entrate. Giorni prima Holmes aveva preteso che fissassi un canone d’affitto per la camera che occupava e mi aveva informato che a fine mese avrei avuto il mio denaro; inoltre gli avevo visto un cappello nuovo e altri recenti acquisti, perlopiù capi di vestiario a integrare il suo magro guardaroba.
“Non so quanto mi piaccia questo progetto,” risposi onestamente.
“Non entrerà nessuno che lei stesso non ammetterebbe in casa sua.”
“Non sono preoccupato per la sicurezza. Ma mi dà pensiero che la gente sappia che in casa mia vive un uomo che si fa chiamare Sherlock Holmes e risolve casi a pagamento.”
“Posso adottare qualunque altro nome. Il nome non è importante.”
“Che nome ha dato ai clienti che si è fatto in quest’ultima settimana?”
“Per loro è soltanto uno pseudonimo. Sarà così anche per gli altri.”
“Holmes, francamente, non so quanto questo possa giovare alla mia reputazione.”
“Alla sua reputazione di scrittore? Penseranno a una trovata pubblicitaria. Più originale di altre, deve ammetterlo. Potrebbe perfino giovarle.”
“Alla mia reputazione di professionista.”
Questo gli diede da pensare. “Lei crede che i suoi pazienti la riterranno una buffonata, e andranno a farsi visitare altrove.”
“Posta brutalmente, sì,” sospirai.
“Ma il mio progetto sarà una buffonata solo se fallirò come investigatore, e questo, me lo conceda, non è possibile. In caso contrario, potrà sembrare una buffonata all’inizio, ma dopo i fatti parleranno da soli.” Sollevò un angolo della bocca. “Uno o due dei suoi pazienti potrebbero perfino decidere di aver bisogno di un consulente investigativo, dopotutto.”
“Lei non può sapere… Mi perdoni, sono certo che lei è in tutto e per tutto una mente brillante come e più di Sherlock Holmes, ma siamo realisti. Questo è il mondo reale. Non esistono consulenti investigativi. Non c’è una fila di persone pronte a sborsare sovrane sonanti per ritrovare carbonchi azzurri nascosti nel gozzo di oche natalizie. Mi sembra un progetto strampalato, senza futuro.”
Holmes appoggiò i gomiti sulla tavola e si sporse sopra la colazione, con enfasi. “Mi lasci tentare. Sto portando a compimento alcune ricerche. Dovrei vederne i frutti entro l’inizio della prossima settimana. E se quello che ho per le mani andrà in porto, come prevedo, ci saranno presto altre occasioni. Sulla mia parola, se in un mese…”
“Un mese?”
“D’accordo, se in due settimane non avrò ottenuto dei risultati, smetterò completamente. Se sono i suoi pazienti a preoccuparla, stabilirò degli orari, e i miei clienti non dovranno mai incontrarsi coi suoi. Di questo può stare certo. Non le procurerò alcun imbarazzo. E se dovesse perdere anche un solo paziente per causa mia, smetterò ugualmente.”
Acconsentire mi diede un brivido strano, un senso di vertigine e insieme di euforia che poche cose mi avevano mai provocato: chiedere la mano di mia moglie, creare un personaggio di nome Sherlock Holmes, arruolarmi nell’esercito. Holmes accolse l’assenso con un brillio eccitato negli occhi, e nient’altro.
“Ci sono novità?” domandò poi casualmente, riferendosi - come aveva preso l’abitudine di fare - all’annuncio che lo riguardava.
“Nessuna,” risposi con altrettanta calma. Il senso di euforia si decuplicò e rischiò di risultarmi evidente in faccia.
Cominciavo a credere che, se Holmes avesse desiderato andarsene, avrei cercato in ogni modo di impedirglielo. E questo era folle, naturalmente, ma mi bastò pensarlo per sentirmi felice e determinato. Le sue dita mi sfiorarono, per caso, vicino al vassoio delle uova. Le allontanai allegramente, ristabilendo la precedenza con giocosa scortesia. Holmes sorrise.
Da quel momento, la mia casa conobbe un’attività che fino a quel momento le era stata sconosciuta. Come annunciato, Holmes riceveva ogni genere di cliente, ma poiché aveva bisogno di denaro (ed era indubbio che i ‘risultati’ di cui parlava fossero del tipo pecuniario), la sua clientela apparteneva perlopiù alla borghesia benestante che può permettersi i compensi sostenuti, per quanto mai esosi, di un investigatore privato. Non era raro che talvolta si presentassero alla porta, insieme, la povera vedova del carrettiere e la ricca signora di Pall Mall, stupite esse per prime della strana compagnia cui Sherlock Holmes le aveva costrette. E, malgrado Holmes avesse fatto pubblicare un annuncio con degli orari precisi per tener fede alla sua parola di non mischiare i suoi clienti e i miei, si era sparsa la voce, tra quelli che l’avevano consultato, che di fatto egli riceveva a ogni ora del giorno e della notte, e dopo un mese non fu possibile in alcuna maniera costringere i potenziali interessati a rispettare l’orario di visita. Dal momento che dal progetto non mi era derivato alcun danno, e anzi i miei pazienti, soprattutto le signore, erano affascinati dall’alto uomo in nero che si faceva chiamare Sherlock Holmes e pareva in tutto un semidio uscito dalle pagine dello Strand, gli offrii il salotto come sala d’attesa per i suoi clienti, e i suoi e i miei finirono col condividere - oltre alle solite storie di malattia - anche racconti più eccitanti, di gioielli scomparsi e terribili errori giudiziari, che Mr. Holmes avrebbe risolto per loro.
Era stupefacente che Holmes avesse potuto crearsi una clientela nutrita in così poco tempo, ma di certo gli giovava la fama sovrannaturale del suo nome. Holmes non chiedeva mai un compenso anticipato, e ne dedussi che molti dei suoi clienti - spesso giovani ricchi e sfaccendati - lo consultavano per scommessa, per scoprire se davvero l’uomo che si diceva pari allo Sherlock Holmes dello Strand valesse qualche cosa.
Io mi tenevo discretamente nell’ombra, ma non passò molto prima che la cosa attraesse l’attenzione. Holmes viveva in casa mia da appena un mese, quando George Newnes dello Strand mi venne a fare visita. Eravamo in ottimi rapporti, ed egli aveva accettato, se non volentieri quantomeno con comprensione, la mia decisione di uccidere Sherlock Holmes. Quel giorno, però, aveva l’aria aggrondata. Esauriti i convenevoli di rito, si guardò intorno nel mio salotto con l’aria di cercare qualcosa.
“Sa, Watson,” esordì dopo un lungo silenzio, “avrei voluto che me lo dicesse.”
“A cosa si riferisce esattamente?” domandai con calma.
Newnes alzò lo sguardo. Era un uomo dall’aria simpatica, con la fronte prominente e una lunga barba rossiccia che lo invecchiava di dieci anni. “La notizia ha fatto il giro di Londra, lo sa?”
Smisi di fingere di ignorare. “Sì. Lo so.”
“E per questo le ripeto, avrei voluto che me lo dicesse. Avremmo potuto cambiare completamente la linea promozionale. Forse aumentare le vendite di un terzo. ‘Sherlock Holmes esiste’. Riesce a immaginare che colpo sarebbe stato, Watson? Magari per Il problema finale, eh? Un finale col botto! Sarebbe entrato negli annali.”
“È una persona riservata,” replicai, vagamente infastidito, ma con la sicurezza di una storia già preparata per l’occasione. “Non potevo infrangere la parola data.”
“Sì. Capisco,” disse Newnes, sgonfiandosi un po’. “E adesso, invece?”
“Adesso sono cambiate molte cose,” risposi. “Fino a poco tempo fa ha vissuto in Francia, dove ha condotto vita ritirata dedicandosi alle sue ricerche di chimica - qualcosa sui derivati del catrame minerale, mi pare di ricordare - e facendo l’investigatore solo per hobby, al servizio dei piccoli casi quotidiani di parenti e amici. Tuttavia certe simpatie politiche gli hanno alienato il favore dell’Académie des sciences, e per questo nell’ultimo anno ha deciso di tornare in patria. Le ricerche, d’altra parte, erano concluse. Credo che abbia prodotto una voluminosa monografia sull’argomento.”
“E come ha deciso di…?”
“Oh, semplicemente, avendo vissuto all’estero così a lungo, la notorietà che i racconti di Sherlock Holmes gli hanno indirettamente procurato l’ha colpito moltissimo. Così ha deciso, un po’ per scherzo, di trasformare in mestiere quello che fino ad allora era stato un passatempo. La scelta dello pseudonimo è stata anch’essa uno scherzo, in verità. Non credevamo che avrebbe avuto un tale successo.”
Newnes si leccò la labbra. Non era un uomo particolarmente venale, ma restava pur sempre un imprenditore, e potevo intuire progetti editoriali e cifre danzargli nella mente. Potevo sentire, come in un brutto romanzo a puntate americano, il mio amico definito ‘una miniera d’oro’. Pensai che adesso era necessaria tutta la cautela possibile.
“E mi dica, è possibile incontrarlo, Watson? È in casa?”
“Non è in casa. È una persona piuttosto schiva, George. A parte i suoi clienti, non riceve nessuno. Non vorrei… Nessuno vuole che la gente lo pensi un fenomeno da baraccone. Lei capisce cosa intendo.”
“Certo. Certo. Tuttavia… a nome dello Strand… Voglio dire, un incontro non è chieder tanto, a fronte della popolarità che gli abbiamo regalato, non crede, Watson?”
Esitai. “Suppongo che potrei chiederglielo.”
“Eccellente. E magari, se potesse persuaderlo a raccontare qualcosa di sé…”
“Questo credo che non sia proprio possibile,” replicai, rigido.
“Ma sarebbe eccezionale se potesse, Watson. Un numero speciale… Un’intervista con Sherlock Holmes! E per lei la solita percentuale, è chiaro.”
“Gliene parlerò,” risposi, cercando di avviare il discorso alla conclusione, “ma non si aspetti una risposta positiva. Ha vissuto come un recluso per vent’anni, e se non fosse per il bisogno di esercitare costantemente la sua intelligenza, avrebbe piacere di continuare a farlo per altri venti. Glielo chiederò, ma non si aspetti che dica di sì.”
“Ma un incontro è certamente possibile, non è vero?” insistette Newnes, tenace come un mastino.
“Glielo chiederò senza indugio al suo ritorno.”
Dovetti promettere che avrei fatto tutto il possibile, e l’impossibile se necessario, per convincere Holmes a darsi in pasto al pubblico che lo amava. Quando chiusi la porta alle spalle di Newnes, mi accorsi di provare una vaga nausea.
Holmes mi guardava dal sommo delle scale, la pipa tra i denti.
“Che lei si senta in obbligo di proteggermi è commovente,” osservò in tono leggero.
“Può farlo, se lo desidera,” risposi, ed ero sincero, eppure il solo pensiero mi serrava lo stomaco.
“Non ho interesse per la stampa, né pazienza per i loro modi. E ad ogni modo, non farei mai qualcosa che le provocasse quella reazione.”
Arrossii, sentendomi scoperto. “Mi preoccupa soltanto…”
“Cosa?”
“Non lo so di preciso. Ma troppa notorietà tutta insieme non può essere una buona cosa.”
Holmes mi aveva raggiunto vicino alla porta, con un passo tranquillo ma che tradiva una certa urgenza interiore. “Teme che possa darmi alla testa?” scherzò.
“Peggio di così? Francamente, non mi pare possibile,” sorrisi.
“Forse potrebbe essere un’occasione. Non ho interesse per il denaro, lei lo sa, ma potrei metterne da parte abbastanza in poco tempo, assicurarmi, qualunque cosa accada, di pagarle l’affitto puntualmente tutti i mesi…”
“Holmes, quello è l’ultimo dei suoi problemi.”
“… e magari accettare solo i casi che mi interessano, invece di inseguire servette disoneste fuggite con la biancheria.”
“Ha davvero…?”
“Due casi finora.”
Accennai una risata, ma mi si asciugò nella bocca.
“E poi potrei ripagarla come merita. Potrei offrirle un viaggio dove desidera, per tutto il tempo che desidera. Non è mai stato a Parigi, vero? So che amerebbe Parigi. E poi qualsiasi altra cosa. Certo,” continuò, cambiando bruscamente tono, lasciando insinuare nella voce una nota strana, incerta, “in questa maniera sarebbe più facile riconoscermi. Per i miei parenti, ammesso che ne abbia.”
“Certo,” annuii. “Ha ragione. Non ci avevo pensato.” Alzai gli occhi. “Penso che dovrebbe farlo.”
“Non può dirmelo con quella faccia e aspettarsi di risultare convincente, Watson.”
“Mi dispiace. Naturalmente non ho alcun diritto di trattenerla qui, mentre forse i suoi parenti si affannano a cercarla e soffrono la sua mancanza. Se Newnes può darle una chance in più di ricongiungersi a loro, penso che dovrebbe tentare.”
“Non so chi siano. Non credo neppure che esistano. Non ho alcun desiderio di ricongiungermi a loro.”
“Ma dovrebbe,” obiettai, dolcemente.
“Lei crede che sia la cosa migliore.”
“Lo credo, sì.”
“Allora perché, Watson, me lo spieghi, perché me lo dice con quella faccia?”
Tacqui, messo con le spalle al muro.
“Lei non vuole,” insistette.
“È estremamente egoista da parte mia. Ma mi sono abituato alla sua presenza, e quest’ultimo mese è stato…”
“È stato?”
“Piacevole. Sorprendentemente. All’inizio non l’avrei creduto. Ma questo non ha alcuna importanza, e non dovrebbe pesare sulla sua scelta. È la sua vita, Holmes, non la mia.”
“Nostra.”
“Mi scusi?”
“Ho detto ‘nostra’. La nostra vita. La decisione riguarda entrambi. E ad ogni modo, ho già deciso.”
“Lo farà?”
“Non lo farò.” Sospirò teatralmente. “Mi attendono altre servette disoneste e infedeltà coniugali, ma adesso che l’attività è avviata non mi sorprenderei se potessi permettermi quel viaggio già per l’estate. Ah, vedrà. Parigi è al suo meglio d’estate.”
E con questo, il discorso fu chiuso. Holmes acconsentì a incontrare George Newnes per non più di cinque minuti qualche giorno dopo, affermando che aveva clienti in attesa e non poteva proprio dedicargli altro tempo. Fu amabile, cordiale, geniale, fu in tutto e per tutto Sherlock Holmes e quel che gli disse fu precisamente nulla. Non uscì alcun articolo, né alcuna intervista.
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Si era in giugno inoltrato quando l’ispettore Brooks venne a consultare Holmes per la prima volta. Era un momento che il mio amico attendeva da tempo, perché - oltre ad appagare il suo smodato orgoglio - gli avrebbe dato più o meno ufficialmente accesso ai rapporti della polizia, indispensabili per alcune sue indagini. Quando Brooks ebbe finito di parlare con Holmes (io ero stato impegnato fino a quel momento con una visita), ci incontrammo nel corridoio. Brooks mi strinse la mano e mormorò qualcosa sullo smisurato ego del mio coinquilino, qualcosa che mi parve tanto da Lestrade, nel tono e nell’espressione, da strapparmi una risata di cuore.
Ma Brooks non era uno stupido. Mi guardò con un’aria di placida comprensione. “Quel telegramma di qualche tempo fa,” disse. “Quello sulla figliastra francese dell’ambasciatore.” Indicò col pollice alle sue spalle. “Era opera sua, non è vero?”
Annuii.
“Ed è in tutto e per tutto un insopportabile so-tutto-io come nelle storie, dottore?”
Sorrisi. “Temo di sì.”
“Allora sia gentile, veda di convincerlo ad accettare questo caso. Dio sa se non abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile per sbrogliare questa matassa.”
Gli battei una pacca amichevole sul braccio. “Farò del mio meglio.”
Nell’anticamera ora riadattata a salottino, Holmes fumava la pipa alla finestra. Aveva l’aria assente, ma non appena mi richiusi la porta alle spalle si volse nella mia direzione, un brillio di inconfondibile entusiasmo negli occhi.
“È il tassello che cercavo, Watson. È l’occasione che attendevo da più di un mese!”
“Mi fa piacere sentirlo. Brooks sembrava preoccupato che potesse decidere di non accettare.”
“Le ha chiesto di accertarsi che lo facessi davvero? Il povero ispettore ha l’acqua alla gola. Da questo caso dipende la sua intera carriera, senza esagerare.”
“Addirittura,” commentai, mettendomi a sedere. “Di cosa si tratta?”
Holmes prese il giornale della mattina dal davanzale di fronte a sé e me lo lanciò. “Pagina cinque, in alto a destra. L’avrà già letto a colazione senza darvi peso. Lo rilegga.”
Era un articoletto sulla brutale aggressione ai danni di un certo Richard Woodley, di Carstairs, un giovane di neanche trent’anni erede di una famiglia di commercianti della zona, molto antica e rispettata. Il giovane era stato ferito, fortunatamente solo di striscio, mentre alloggiava all’Hotel Continental in piena Regent Street. Si era ritirato presto in camera, dando ordine di portargli su una tazza di tè di lì a un’ora. Era stato molto esplicito su questo punto, giacché senza una tazza di tè serale faceva fatica ad addormentarsi. A salvarlo era stato il fatto che avesse dimenticato di chiudere la porta: la cameriera, infatti, non udendo risposta, era entrata e l’aveva trovato sul pavimento vicino alla finestra, col volto coperto di sangue. Il proiettile, una normale pallottola da revolver, gli aveva graffiato la tempia e causato un’abbondante perdita di sangue e lo svenimento, ma nulla di più serio.
“I Woodley sono una famiglia ricca e influente. Quanto ai proprietari del Continental, le lascio immaginare che genere di pressioni stiano facendo sulla polizia perché il colpevole sia trovato al più presto. Sono in gioco la rispettabilità e il buon nome dell’albergo, per dire del meno.”
“Sì, capisco,” dissi, “ma non capisco perché il caso la ecciti tanto. Mi sembra una storia piuttosto banale. Qualcuno è entrato, ha sparato a Woodley ma ha fallito il colpo, e deve essere fuggito per paura che il rumore richiamasse l’attenzione degli altri ospiti. La porta era aperta.”
“Ci sono due obiezioni, Watson. La prima, che le stanze adiacenti a quella di Woodley, rispettivamente la 30 e la 32, erano entrambe occupate quella sera, e nessuno ha udito alcuno sparo o rumore anormale. La seconda, gentilmente fornitaci da Brooks, è questa: il proiettile si è conficcato sul muro opposto alla finestra, a pochi centimetri dallo stipite della porta. Per una simile traiettoria, dobbiamo immaginare che l’aggressore desse le spalle alla finestra e Woodley stesse sulla linea tra questi e il muro. Dieci metri al massimo. A parte l’ovvia considerazione che anche per il tiratore più inesperto è oltremodo difficile sbagliare un colpo a quella distanza, la scena ha del fantastico. Perché l’aggressore avrebbe dovuto esporsi allo sguardo dei passanti, sostando vicino alla finestra? E perché avrebbe dovuto avanzare così tanto nella stanza, rischiando di tagliarsi ogni via di fuga? Tenersi vicino alla porta sarebbe stata la scelta più logica.”
“Ha ragione,” ammisi.
“E c’è un’altra cosa. La più importante. Richard Woodley è il fratello maggiore di quella Edith Woodley che era fidanzata con Ronald Adair, assassinato due mesi e mezzo fa nella sua casa di Park Lane.”
Holmes era emozionato come un bambino a Natale; sentivo l’aria farsi elettrica intorno alla sua persona, l’entusiasmo a malapena controllato. Perfettamente immobile, pure sprizzava energia e determinazione. Mi aspettavo quasi di vederlo saltare da un momento all’altro come un pupazzo a molla dalla scatola.
“Adair…” ripetei, lentamente. “Perché ha detto che questo era il tassello che le mancava? Allora lei stava già…”
“Ricorda che le dissi che non potevo ancora parlargliene? Che mi avrebbe preso per un pazzo?”
“Sì, sì,” risposi. “Ma poi sono successe tante cose, e…”
“Adesso è il momento.” Si alzò in piedi, non con uno scatto come mi ero aspettavo, ma con un lungo e fluido movimento che lo proiettò in un’elegante falcata in mezzo alla stanza. “Dottore, non voglio turbare la sua routine, ma le sarei immensamente grato se volesse accompagnarmi per questo caso. Sento che senza di lei la cosa sarebbe scarsamente degna di nota.”
Allargai le braccia. “Ho terminato per oggi. Sono a sua completa disposizione.”
Fu così che mi ritrovai con Sherlock Holmes in una carrozza diretta al 427 di Park Lane, poiché era proprio presso gli sfortunati Adair che Mr. Woodley era ospite.
Lady Constance Adair accolse la notizia che Sherlock Holmes attendeva di essere ricevuto nel suo salotto con l’aria di chi ha ricevuto un oltraggio personale, e non mi sentii capace di biasimarla. Per la prima volta rimpiansi che non ci fossimo infine risolti per uno pseudonimo, che avrebbe certo tolto considerevole fascino all’intero progetto di Holmes, ma ci avrebbe anche risparmiato momenti di grande imbarazzo come questo. Lady Constance era furente sotto un velo di suprema compostezza aristocratica.
“Questa è una casa piagata dal lutto, signori,” disse come se ogni parola le provocasse disgusto. “Spero che il mio maggiordomo abbia capito male, e che questo non sia l’orribile scherzo che pare essere.”
“Nessuno scherzo, Lady Constance,” disse Holmes. “Ho estrema necessità di parlare con Mr. Woodley, per una questione della massima urgenza. Le direi che è in gioco la sua vita, ma questo mi pare oltremodo ovvio.”
“Con quanta insolenza vi permettete di irrompere nella mia casa!” replicò Lady Constance, con voce vibrante di sdegno. “Per quanto riguarda la vita di Mr. Woodley, l’inettitudine di Scotland Yard è sufficiente, senza bisogno di aggiungervi anche quella dei dilettanti. Siete pregati di uscire all’istante.”
“È una fortunata coincidenza che abbia nominato Scotland Yard, Lady Constance,” replicò il mio amico, tagliente. “Perché è stato l’ispettore Brooks in persona a presentarsi da me e domandare la mia consulenza nella faccenda. Ora, il mio parere di specialista è che la vita del suo ospite sia in grave pericolo, e che stasera o domani sera al più tardi chi desidera la sua morte tornerà a finire il lavoro,” indicò i due agenti che piantonavano l’ingresso, “con o senza il benestare di Scotland Yard. È inoltre mia ferma convinzione che chi ha attentato alla vita di Mr. Woodley altri non sia che l’assassino di suo figlio Ronald. Le chiedo soltanto di lasciarmi parlare con Mr. Woodley, e in cambio, se le mie previsioni sono esatte, potrei essere in grado di offrire a lei e alla giustizia il reprobo che le ha strappato suo figlio. Ritiene la mia pretesa eccessiva, Lady Constance?”
Le ultime parole di Holmes vibravano ancora nell’aria, che le sentimmo riecheggiate da un’altra voce, ben più debole, sulla soglia della porta. “Lady Constance. Zia. Lasciatemi parlare con Mr… Holmes, non è così? Sherlock Holmes?” Il giovanotto accennò una risata, come se la cosa lo divertisse, ma questo parve riacuire il dolore. Si portò una mano alla tempia fasciata.
“Richard! Non dovresti…”
“Ho sentito parlare di lei, Mr. Sherlock Holmes. Anche a Carstairs leggiamo lo Strand, lo sapeva? Voglio proprio sentire cosa mi dirà…”
“Richard, non devi assolutamente sforzarti,” lo rimproverò Lady Constance, accorrendo al suo fianco, con voce piena di apprensione. “Il medico…”
“Sciocchezze, zia. È solo un graffio. Mi duole come l’inferno, ma è solo un graffio. Per favore, lasciateci. So…” guardò Holmes, “so che è importante ch’io parli con Mr. Holmes. Vi prego.”
Lady Constance guardò il mio amico e poi me con indicibile disprezzo. Dopodiché raddrizzò le spalle e disse lentamente: “Richard è ancora convalescente. Siete pregati di non stancarlo in nessuna maniera”.
“Non si preoccupi, Lady Constance,” le dissi nel mio tono più rassicurante. “Sono un medico.”
Questo non parve confortarla affatto. Lady Constance diede un bacio sulla guancia a Richard Woodley e uscì dal salotto con l’aria di portarsi dietro la dignità di sei generazioni di duchi di Maynooth.
Woodley ci fece cenno di sedere. Era un giovane eccezionalmente bello, di una bellezza bionda e sportiva, abbronzata, da canottiere. Neppure l’ampia fasciatura riusciva a nascondere lo splendore degli occhi verdi, brillantissimi; la bocca era un’opera d’arte, era la bocca di un David o di un soldato morente; la linea decisa della mandibola era l’epitome della mascolinità.
“Sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati,” disse Woodley, a bassa voce. “Da quando ho sentito parlare di lei, Mr. Holmes, non ho pensato ad altro. Sì, sulle prime ho pensato che fosse un’assurdità pubblicitaria, qualcosa per rilanciare i racconti del dottor Watson… È lei, non è vero? Naturalmente. Ma poi ho preso qualche informazione. Dovevo sapere, capite?, se lei poteva essere l’uomo giusto. Se lei poteva aiutarmi. Ho parlato coi miei amici qui a Londra. Qualcuno è stato suo cliente… per scherzo, principalmente per scherzo. Mi hanno raccontato cose strabilianti. Ed è per questo che volevo vederla, Mr. Holmes, e sarei venuto da lei stamattina se non avessi avuto questo… assurdo incidente.”
Holmes accavallò le gambe, congiungendo le punte delle dita di fronte a sé. Talvolta l’effetto dell’incredibile somiglianza mi sorprendeva ancora. Vidi che neanche a Woodley sfuggiva.
“Forse, Mr. Woodley, dovrebbe cominciare dall’inizio. Dalla morte del suo amico.” Disse ‘amico’ con un’estrema dolcezza, così inusuale nel suo solito tono, che mi voltai a guardarlo. Holmes ricambiò il mio sguardo per un momento appena. Woodley tacque, passandosi una mano sugli occhi.
Quando li rialzò, vi splendeva un velo di umidità e l’onestà più completa.
“Lo amavo quanto è possibile amare una persona, e qualcosa di più. Doveva sposare mia sorella, ma nessuno dei due lo voleva davvero, e alla fine il fidanzamento fu rotto di comune accordo. Nessuno se la prese, neanche mio padre, neanche Lady Constance - la chiamo zia, vedete, perché per quel che conta le nostre famiglie è come se fossero imparentate, ci siamo sempre voluti bene, da quando il padre di Ronald e il mio… No, perdonatemi, sto divagando.
“Quando mi dissero che era morto non volli crederlo. Ronald era la creatura più pacifica e amabile d’Inghilterra. Nessuno, nessuno al mondo avrebbe potuto volerlo morto. Chiunque lo conoscesse lo adorava. Ma poi mi dissero che quella sera aveva giocato a carte, mi dissero i nomi degli altri giocatori. E ricordai una cosa che Ronald mi aveva scritto in una lettera qualche giorno prima. Ce l’ho qui, ecco…”
Si alzò, andando a porgere a Holmes alcuni fogli piegati insieme in tre parti. Li aprì e cercò il punto, indicandoglielo. “Qui. Legga qui.”
Holmes mi passò la lettera. “Watson, se non le dispiace.”
Mi schiarii leggermente la voce. “Ho l’impressione che il colonnello bari. Naturalmente non te lo direi, non lo menzionerei nemmeno se l’impressione non si fosse ripresentata più e più volte. Se è un baro, è uno dei più accorti. Sa perdere, costantemente e disastrosamente, mano dopo mano, e poi riprendersi tutto alla fine, con gli interessi. E vince con tanta grazia, con tanta compostezza e dignità, che non hai cuore di pensare - figuriamoci dirgli in faccia - che è un baro. Ma tu lo sai, mio caro, che pure con la fortuna sfacciata che tanto mi invidi, pure io ho perso, quando c’era da perdere. Mi sono alzato da tavoli senza un penny in tasca. D’accordo, alla fine del mese le vincite hanno sempre superato le perdite, ma pure io ho perso. Il colonnello non perde mai. Di solito si contenta di vincere meno di altri, ma non perde mai, e questo non mi piace. Quando fa coppia, ha l’intelligenza di scegliersi compagni che nessuno sospetterebbe mai di barare, come il giovane Bassett (che non saprebbe fregare neppure sua madre), o il sottoscritto. L’altra sera ho avuto l’impressione di vedergli qualcosa nel polsino della camicia. Richie, ma c’è al mondo una cosa più nauseante e patetica di un baro?”
Restituii la lettera al suo proprietario. Il cuore mi batteva con forza nel petto. A quale colonnello poteva riferirsi Adair, se non a lui? Brandelli della mia prima conversazione con Holmes mi tornavano alla mente.
“Continui, Mr. Woodley,” disse il mio amico.
Il giovane annuì. Era pallido e teso. “Ronald era la persona più onesta del mondo. Amava giocare e giocava forte, ma non sopportava i bari. Però non era crudele. Se avesse scoperto che qualcuno barava nel suo club, l’avrebbe preso da parte, gli avrebbe detto di ritirarsi e gli avrebbe fatto promettere di non giocare più. Per evitare lo scandalo, capite?
“Quando è arrivata la notizia, ho pensato subito a questa lettera. Ero sconvolto, e non avevo la più pallida idea di cosa potessi fare o di come dovessi muovermi per scoprire chi l’aveva ucciso. Ma continuavo a ripensare a questa lettera, alle parole di Ronnie, al colonnello…
“Mi sono iscritto ai suoi club. Dovrei dirvi a questo punto che non sono un gran giocatore; per essere del tutto onesto, le carte non mi piacciono, non ho pazienza né la… sottigliezza, credo che potremmo chiamarla, la sottigliezza necessaria a portare avanti un buon gioco. In tre settimane, ho perso quello che Ronald avrebbe vinto in tre mesi. Ma la mia famiglia è ricca, come forse sapete, ed ero pronto a dilapidare la mia eredità fino all’ultimo centesimo pur di venire a capo della faccenda.
“Ho studiato le abitudini del colonnello. Gioca al Cavendish ogni lunedì e mercoledì, al Baldwin ogni martedì e venerdì, e infine al Bagatelle ogni sabato. Ma è in questa unica serata che realizza i profitti maggiori. Ho preso le sue stesse abitudini e ho cominciato a unirmi al suo tavolo tutte le volte che potevo. Naturalmente sapeva chi ero; sapeva che Ronald era stato il fidanzato di mia sorella. Tutti lo sapevano. Ma non sono così conosciuto a Londra che tutti sappiano con precisione in che rapporti eravamo Ronald ed io. Ho finto indifferenza. Ho cercato di dare l’impressione che la mia venuta a Londra c’entrasse poco e niente con la sua morte. Ora, ripensandoci, so che mi sono comportato come un perfetto idiota, ma in quel momento mi sembrava l’unica cosa da fare.”
Si leccò le labbra, nervosamente. “Ho fatto intendere al colonnello che c’era dell’altro. Che potevo essere una compagnia interessante, se solo mi si dava un po’ di confidenza. Ho recitato la parte del povero idiota del nord con più soldi che cervello, di quelli che vengono a Londra e perdono la testa nella grande città. Pensavo di aver recitato bene, e invece per tutto il tempo egli mi studiava - come una preda, capite? - e mi teneva sott’occhio per sapere quello che sapevo. Oh, aveva capito tutto, naturalmente. L’aveva capito il momento in cui ho messo piede per la prima volta al Cavendish.
“Sapevo che barava, ma non riuscivo a smascherarlo. Sapevo, ero certo, che fosse stato lui a uccidere Ronald, ma non riuscivo a trovare una sola prova, qualcosa di concreto. A Scotland Yard mi avrebbero riso in faccia. Allora ho fatto la cosa che per poco non mi è costata la vita.” Si portò una mano sulla tempia. “Ho cominciato a pedinarlo.
“Non so bene cosa mi aspettassi di scoprire. Un passo falso, forse. Qualcosa su cui potessi far leva, qualsiasi cosa. Se non fossi riuscito a farlo incriminare per omicidio, volevo almeno rovinarlo. Rovinarlo completamente. Volevo che non potesse mai più rimettere piede a Londra. Lo volevo espulso dall’esercito con disonore. Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa potesse servire a rovinargli la vita, se non potevo vederlo impiccato, qualsiasi cosa mi sarebbe bastata.
“Ero fuori di me, e perciò nello stato d’animo peggiore per una cosa così delicata come un’investigazione. L’avevo seguito in carrozza fino a Regent Street. Pioveva a dirotto, e non si vedeva a un palmo di naso. In breve, il mio vetturino aveva perso di vista il suo. Ho pensato che non avrei ottenuto altro per quella notte, e mi è venuto un senso di disgusto all’idea di stare in carrozza un minuto di più. Così mi sono fatto lasciare al Continental, che era proprio lì accanto.
“Non era tardi: le undici al massimo. Ero molto agitato. Furioso, per la verità. Ho dato ordine di portarmi su un tè, perché non riesco a dormire senza. È curioso, lo so, ma è l’unica cosa che mi calmi. È passata mezz’ora, ha smesso di piovere e fuori la nebbia si è un po’ diradata, ma solo in parte. Ora vedevo chiaramente la sagoma e le finestre dell’edificio di fronte. Ho aperto la finestra e fatto due passi nella stanza. Avevo dimenticato di chiudere la porta a chiave, una brutta abitudine di casa che spesso dimentico di correggere. E poi non so più nulla, signori, se non che mi sono svegliato con un dolore terribile alla tempia e c’era sangue sulla mia faccia e quello che mi sembrava un esercito di estranei parlava a voce alta intorno a me. Mi hanno detto del proiettile, ma vi assicuro, come già a tutti quelli che me l’hanno chiesto, che non c’era nessuno nella stanza insieme a me. Lo so per certo.”
“Qualcuno nascosto, magari…?” suggerii. “Nel bagno, per esempio, o dietro una tenda.”
“No, nessuno. La storia di Ronald, e poi la conoscenza col colonnello, mi hanno reso molto più cauto. Ho controllato ogni angolo della stanza. Non c’era nessuno.”
“Ma ha dimenticato la porta aperta,” osservai.
Il giovane arrossì violentemente. “Sì. Non sono un militare, la cautela non mi riesce spontanea. Ma dalla porta l’avrei sentito arrivare. Era tutto molto silenzioso. Avrei sentito i passi nel corridoio, ed ero perfettamente sveglio.”
Holmes si sporse verso il ragazzo, appoggiando i gomiti sulla ginocchia e nascondendo la bocca dietro le punte delle dita congiunte.
“Si è comportato come un idiota,” disse tranquillamente.
“Lo so,” ammise Woodley, infelice, “ma…”
Holmes alzò una mano. “Ma il suo comportamento sconsiderato ci ha permesso di appurare almeno due cose. La prima: chi ha tentato di ucciderla è certamente la stessa persona che ha ucciso il suo amico. La seconda, che conferma quanto già sospettavo da tempo: stiamo cercando un tiratore scelto. Ora. Ho ragione a credere che non abbia raccontato niente di tutto questo a Scotland Yard?”
Woodley annuì. “Non mi avrebbero creduto.”
“Decisamente. Per sua fortuna, Mr. Woodley, non ho iniziato questa mattina a interessarmi alla persona che stiamo cercando, e posso dirle con sicurezza che la notte del 30 marzo una carrozza l’ha fatto scendere qui a Park Lane, pochi isolati più a sud di dove ci troviamo adesso.”
“Davvero?” esclamò Woodley. “Ma è magnifico! È la prova! Adesso dovranno crederlo per forza!”
Holmes scosse la testa. “Non è nulla, Mr. Woodley, e certamente non è una prova. Si calmi. No, no, dobbiamo procedere in maniera differente. Per quello che ho in mente, ho bisogno che lei usi tutto il suo coraggio, e che abbia completa fiducia me. So già che il primo non le manca. Mi dica della seconda.”
“Se lei può mandare quel bastardo alla forca, Mr. Holmes, mi dica quello che devo fare. Non mi importa neppure di morire. Dio sa che non mi importa.”
“Morto non mi sarebbe di alcuna utilità,” replicò Holmes. “Dovrà testimoniare a un processo, dunque lasci l’immolazione ai martiri. No, lei ha altro da fare. Questa sera lei giocherà a carte.”
“A carte?”
“Sì. Moran sarà lì, non può fare altrimenti: non deve dare adito a nessun sospetto. E inoltre le carte sono il suo mezzo di sostentamento, dunque è improbabile che se ne privi. Reciti la parte che preferisce, o se preferisce non ne reciti nessuna. Quella del giovane senza cervello andrà benissimo, e ha in più il pregio d’essere vera.”
“Holmes,” lo rimproverai.
“Oh, lo lasci parlare, dottore,” disse Woodley, con un sorriso mesto. “Dio sa se non ha ragione.”
“Lieto che la vediamo tutti alla stessa maniera. Watson, le sarei immensamente grato se volesse acconsentire ad accompagnarlo. Potrebbe essere rischioso,” aggiunse. “Ma Moran non farà nulla all’interno del club, e quando uscirete in strada sarò con voi. Non glielo chiederei se pensassi di potermi fidare di qualcun altro.”
Annuii. “Sono a disposizione.”
Holmes consultò l’orologio. “Non sono ancora le undici.” Si alzò in piedi. “Tra meno di un’ora, Mr. Woodley, si presenterà alla sua porta un uomo di nome Toby. Faccia quello che le dice. Noi saremo di ritorno per le cinque. Fino a quel momento, mantenga la calma e stia lontano dalle finestre.”
“Chi è Toby?” domandai quando fummo in strada.
Holmes fece un sorrisetto che gli cancellò dieci anni dal volto, il sorriso di un ragazzino particolarmente discolo all’alba di una nuova marachella.
“Uno scultore,” rispose, in tono leggero. “Il migliore di Londra.”
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Accompagnai Holmes a Shadwell, dove - tra la lunga fila di povere case assolutamente identiche l’una all’altra - egli scelse una porta a colpo sicuro e bussò imperiosamente. Gli aprì un ragazzo di non più di vent’anni, scuro di capelli ed estremamente asciutto sotto gli abiti semplici, da lavoro. Dapprima questi mostrò un’espressione diffidente, ma gli bastò identificare il visitatore per cambiare completamente atteggiamento. Si rilassò all’improvviso, piegò una gamba e si appoggiò contro lo stipite, sinuoso come un gatto, esibendo un sorriso eloquente.
“Ehi ehi ehi,” disse in tono compiaciuto, “guarda chi c’è. Ci hai ripensato?”
Poi si accorse di me, che sostavo un po’ più indietro.
“Certo che hai una bella faccia, tu!” esclamò, sempre rivolto a Holmes. “Ti ho detto che facevo uno strappo per te, non puoi mica portarmi tutta la fottuta città di Londra a quest’ora, che figura ci faccio?”
Holmes afferrò il ragazzo per il braccio e lo spinse in casa, per la verità senza troppo garbo. “Watson, mi attenda qui solo per un momento.” E la porta mi fu richiusa in faccia.
Ne uscirono insieme qualche minuto dopo. Il ragazzo sembrava completamente acquietato, e quando i nostri occhi si incrociarono si affrettò a distogliere i suoi, come se la cosa lo imbarazzasse.
Holmes guardò l’orologio. “Ricordi l’indirizzo? Ripetilo.”
“Sì, sì. 427 Park Lane.”
“Tra quaranta minuti al massimo.”
“Quaranta…? Non posso! Come faccio ad andare a prendere la roba e stare là in quaranta minuti? Non so ancora volare, lo sai, bellezza?”
Holmes tirò fuori dalla tasca mezza sovrana e glielo mise in mano. “Prendi una carrozza. Se serve, affitta un carro o quello che preferisci per trasportarlo quanto è pronto. Ci incontreremo là nel pomeriggio.”
“Così, quello era il miglior scultore di Londra?” dissi mentre tornavamo a casa.
“Toby. Sì. Un ragazzo assolutamente ammirevole, se solo evitasse di aprire la bocca.”
“E perché abbiamo bisogno del miglior scultore di Londra, se posso?”
“Oh, lo vedrà,” rispose Holmes, misterioso.
Evitai di insistere, perché sapevo che non mi avrebbe risposto. Era passato del tempo da quando avevo preteso - per la verità infruttuosamente - che Holmes mi tenesse informato sui suoi piani, e alla fine avevo completamente abbandonato la speranza. Era una buona cosa che avessi tanta fiducia in lui, perché credo che altrimenti sarei vissuto in uno stato di ansia perenne.
“Non ho capito a cosa si riferiva quando l’ha accusata di portargli tutta Londra alla porta.”
“Oh, quello.” Holmes prese a guardare fuori dal finestrino. “Semplicemente, la notte ha un altro lavoro. Ha orari molto precisi. Bontà sua, quando ci siamo conosciuti si è offerto di fare un’eccezione per me.”
Sentii un rigurgito acido in fondo alla gola, ma lo ricacciai al suo posto. Non dissi nulla, e Holmes, stupito dal mio silenzio, si volse a guardarmi mentre ancora continuava a parlare.
“Stavo indagando su un caso di ricatto… Ragazzo mio, che le succede?”
“Nulla,” risposi. “Un caso di ricatto, diceva…?”
“Sì, Toby mi è stato di grande aiuto.” Non disse altro, ed io non mi sentii abbastanza sicuro della mia voce per chiedere. Quando Holmes mi appoggiò una mano sul braccio, sussultai distintamente.
“Watson?”
“Sovrappensiero. Mi scusi.”
Holmes mi scrutò con attenzione, quello sguardo che trovavo insostenibile, giacché non avevo modo di sapere quali e quanti indizi egli leggesse sulla mia faccia e cosa ne potesse dedurre dei miei pensieri.
“Se era sovrappensiero riguardo a Toby, non ha niente di cui preoccuparsi,” disse lentamente. E poi aggiunse una cosa inutile, ma assolutamente necessaria per dare una parvenza di decenza alla conversazione: “Non la costringerei mai alla vergogna di aver ospitato in casa sua uno che è finito ai lavori forzati”.
“Non l’ho mai pensato,” risposi, sinceramente ma d’istinto, e senza domandarmi con precisione a cosa mi riferissi, se a Toby o ai lavori forzati.
Il resto del viaggio proseguì in silenzio.
Pranzammo a casa, e passammo le prime ore del pomeriggio in salotto. Era diventata un’abitudine, ma quel giorno nessuno dei due sembrava in vena di chiacchierare. Quando aveva un caso di qualche valore per le mani, Holmes era un conversatore brillante, e dunque anche quel giorno mi sarei aspettato la stessa cosa; invece era distratto, pensieroso, e mi accorsi d’esserlo anch’io, per quanto ritengo che i nostri pensieri si attardassero su oggetti alquanto diversi.
“Non ha detto una parola da quando siamo tornati,” osservò Holmes a un tratto, riscuotendosi dal suo stesso mutismo. Tra le sue sigarette e le mie, avevamo riempito la stanza di una leggerissima foschia. Mi accorsi con stupore di averne fumate non meno di una dozzina.
“Moran. Pensavo a Moran,” risposi, senza mentire ma senza neppure dire l’esatta verità. Stavo pensando anche al colonnello Moran, in effetti.
“Capisce perché non potevo dirglielo, Watson. L’avrebbe presa per una forma di paranoia.”
“Non sono ancora sicuro che non sia paranoia,” obiettai, ma debolmente, e perlopiù per scherzo. “La sua per Moriarty, e quella del ragazzo per l’assassino del suo compagno.”
“Non soffro di alcuna paranoia nei confronti del professore,” rispose Holmes. “È morto, o non è mai esistito. Mi stanno bene entrambe.”
“Ma quando ci siamo incontrati, lei ha detto che Moran era il braccio destro di Moriarty.”
“Così credevo. Non mi stupirebbe scoprire che, in mancanza di Moriarty, Moran fosse diventato il braccio destro di qualcun altro. Sarebbe richiesta una persona eccezionale - Moran ha l’animo del capo, non del seguace - ma ripeto, non mi stupirebbe. Ad ogni modo, questo caso non ha nulla a che vedere col professore. È un banale omicidio per motivi di denaro.”
“Dobbiamo comunque essere cauti, Holmes. Moran è un personaggio influente. Uno dei più influenti. Londra ha un debole per i veterani.”
“Non solo Londra.”
Lo guardai sorpreso, ma Holmes si stava tastando la vestaglia alla ricerca dei fiammiferi. “Uscirete verso le nove. Resterete al Cavendish un paio d’ore, dopodiché tornerete a casa. A questo punto, devo domandarle di accompagnarmi in un posto. Non voglio mentirle, questo secondo passaggio ha ancora maggiori probabilità di risolversi in un pericolo mortale. Se per qualsiasi motivo non vuole avervi nulla a che fare, le assicuro che capirò.”
“Come potrei mandarla da solo tra le braccia di un pericolo mortale?” obiettai, gentilmente. “Sono il suo medico, dopotutto.”
“Ed io un povero demente,” sorrise, scherzando. “Sì, ha ragione. È proprio così. Sarei perduto senza di lei.”
“Oh, lei se la saprebbe cavare in qualsiasi situazione. Sono felice che abbia incontrato me, ma non ho dubbi che avrebbe potuto trovare un valido aiuto in chiunque altro. Il genio è lei, e non è difficile trovare una buona spalla.”
Mi guardò stranamente, come se volesse dire qualcosa e si trattenesse. Quando parlò, lo fece a voce bassa e lenta. “Non le permetto di credere che chiunque altro sarebbe andato bene. Mi ha capito, Watson? È una bestemmia.”
“Non capisco perché la cosa la offenda,” risposi, genuinamente confuso, eppure al tempo stesso turbato.
“Perché mi… Dottore, c’è una sola persona al mondo alla quale avrei permesso di fare ciò che lei ha fatto per me, ed è seduta di fronte a me in questo momento. Dunque quando lei dice che avrei potuto trovare, come ha detto, ‘un valido aiuto in chiunque altro’, io la scuso solo perché evidentemente non mi conosce quanto crede, e ignora che mi sarei lasciato morire prima di cercare un ‘valido aiuto’ in ‘chiunque altro’. Non riesco neanche a cominciare a concepire una cosa del genere. Ed è per questo che la sua è una bestemmia, ma non poteva saperlo, e dunque non parliamone più.”
Davvero, quel discorsetto non avrebbe dovuto rendermi assurdamente felice (c’era qualcosa di tragico in esso, a ben vedere, e ancora qualcosa di spaventoso in una dichiarazione del genere), e tutto quello che potei fare fu impegnare le mani con una nuova sigaretta e sperare che nulla del tumulto che provavo mi si leggesse troppo chiaramente in faccia. Sentivo che mi mancava qualcosa, e che la matassa era ben lontana dallo sciogliersi, ma sapevo anche che, se fossi rimasto al fianco di Holmes abbastanza a lungo, egli l’avrebbe sciolta per me. Era nell’ordine delle cose.
Verso le cinque eravamo di nuovo a casa Adair. Woodley ci aspettava nel salottino al primo piano, e anche Toby era lì. Quest’ultimo aveva l’aria leggermente corrucciata.
“Io ho fatto quello che potevo,” disse per prima cosa, non appena vide Holmes, “ma non posso mica fare miracoli, sai? E poi cos’è questa storia che mi mandi a fare lavori a domicilio da uno che non ne sa niente? Ci ho messo un quarto d’ora solo a spiegargli…” Mentre parlava, stringeva le maniche della giacca di Holmes nelle dita, e gli stava a una distanza che mi parve oltraggiosamente familiare. Woodley, che contemplava la scena dal divanetto con aria incuriosita, sembrava condividere la mia opinione.
“Bene, vediamo questo capolavoro,” disse Holmes, ignorando completamente le proteste del ragazzo e scrollandoselo letteralmente di dosso per raggiungere una grossa forma coperta in un angolo della stanza. Tirò da parte il lenzuolo che la nascondeva con una mossa da prestigiatore, e con mia grande sorpresa ne emerse un busto in cera di Mr. Richard Woodley, estremamente fedele e dettagliato, a grandezza naturale. Mi avvicinai. Era davvero l’opera di un maestro. Piccole asperità a parte, la cura per il dettaglio era strabiliante. Sembrava di poter intravedere perfino la leggera ricrescita della barba sulle guance e sulla mascella.
“È magnifico,” dissi onestamente. “E in così poco tempo…”
“Eccezionale, non è vero?” concordò Woodley.
Ci volgemmo entrambi verso Holmes, che aveva appena terminato di studiare il busto da ogni angolazione.
“Andrà bene, suppongo,” rispose in tono meditabondo. “Potendo scegliere, avrei richiesto l’intervento di Oscar Meunier, il grande artista di Grenoble. Ma non ce n’è il tempo, e dunque dovremo accontentarci.”
“Come ti pare,” ribatté Toby, piccato. “Io il mio lavoro l’ho fatto. Basta che mi paghi, e per me puoi pure farlo a pezzi.”
“Quella è l’idea,” mormorò Holmes, ma lo udii soltanto io, che ero il più vicino, e pensai volesse fare dello spirito.
Alla fine Woodley saldò il conto - una cifra che mi parve ridicola a fronte dell’incredibile lavoro che il busto doveva aver richiesto - e non posso esserne certo, ma mi parve che lasciasse scivolare una sterlina supplementare tra le dita di Toby. Lo sguardo che questi gli lanciò, però, era scarsamente equivocabile. Forse quietato dalla generosità del suo modello, o in preda a pensieri suoi, il giovane scultore non disse un’altra parola, si toccò il cappello rivolto a tutti e a nessuno e uscì.
“Mi dica, Mr. Holmes,” esordì Woodley, “perché posseggo una mia riproduzione in cera?”
“Perché,” rispose Holmes, “per incriminare un uomo per omicidio è necessario che qualcuno muoia, ma abbiamo già stabilito che lei ci serve vivo. Questo,” indicò il busto, “morirà al posto suo.”
“Mi perdoni, Mr. Holmes. Lei è l’esperto, d’accordo. Ma credo che, anche nella penombra, difficilmente il colonnello si lascerà ingannare da una statua.”
Holmes alzò gli occhi al soffitto, espirando bruscamente dal naso. “Se vuole che questa storia finisca, Woodley, farà come le dico e lo farà alla lettera. Lasci a me le considerazioni di valore. Ora. Ha un domestico fidato, voglio sperare?”
“Io… sì. Sì, certo. C’è il mio valletto, Westwood.”
“Bene. Ho delle istruzioni per lui, e dopo ne avrò delle altre per lei,” si volse dalla mia parte, “e anche per lei, Watson. Alla lettera,” ripeté, mortalmente serio.