je n' perdais pas au change, pardi!

Nov 26, 2010 01:27

prima parte



Di nuovo, sanzina89 è di una bellezza devastante e io boh, boh, boh! ♥



Un ricordo:
Zlatan è a Madrid, ed è la prima volta che non ha con sé un borsone rimpinzato di colori contrari al bianco della città. Per la verità, s'è portato ben poco, a parte i panni che ha addosso; non ha in programma di restare a lungo, osserva distrattamente il cielo macchiato di nuvole scure - pensa che forse un ombrello avrebbe fatto meglio a portarlo, che se viene a piovere non ha nulla con cui ripararsi e niente da mettersi e gli toccherà presentarsi in Italia zuppo come un pulcino, - e sobbalza, quasi spaventato, quando José gli stringe un braccio e tira.
"Ehi," saluta Zlatan, e subito un sorriso incerto gli riempie il viso, ma José non fa una piega.
"Spicciamoci ad andarcene," brontola, un po' in italiano e un po' in spagnolo, e comincia a trascinarlo lungo il marciapiede con strattoni violenti, camminando in fretta. Zlatan trattiene a stento una risata mentre fanno lo slalom tra i passanti - qualcuno si volta a guardarli e probabilmente li riconosce, nonostante gli occhiali enormi di Zlatan e la barba finta (la barba finta!) di José, ma sono quasi tutti troppo presi dalle proprie faccende, dalle vetrine piene di roba in saldo, dai propri cellulari e dai colori incredibili dei palazzi, - e continua a sorridere anche quando José lo spinge senza troppe cerimonie dentro un'auto che deve aver visto i suoi giorni migliori qualcosa come un secolo fa.
"Carino, il bolide," commenta, accarezzando con due dita il cruscotto polveroso e sbiadito dal sole. José replica con uno sbuffo indecifrabile, getta sul sedile posteriore il suo patetico, ricciuto travestimento e si allaccia la cintura di sicurezza, scoccando a Zlatan un'occhiata di legno che vuol dire mettila anche tu, che se ti rompi poi Pep chi lo sente, e poi un ghigno, scusa, non Pep, Allegri.
Zlatan perde ogni voglia di parlare e praticamente s'imbroncia, piantandosi un gomito contro la coscia e poi il mento sul pugno chiuso. (José non ha ancora preso la sana abitudine di rispettarlo, evidentemente, e il pensiero lo pizzica e lo infastidisce più di quanto non vorrebbe ammettere.) Si ostina a guardare fuori dal finestrino per tutto il tragitto, anche quando il traffico è bloccato ed è mezz'ora che fissa la stessa, poco entusiasmante panetteria, anche quando José prende a tamburellare pensosamente le dita sul volante - e cioè si annoia, e sarebbe disposto persino a prestarsi ad una conversazione civile, ed è un'occasione più unica che rara, che difficilmente si ripresenterà in questo secolo. Ma.
Zlatan se ne frega dei suoi cambiamenti di umore e beve Madrid con gli occhi, perché non la rivedrà, - non è tipo da avere certezze (geneticamente, i punti fermi non fanno per lui) ma questo lo sa e basta: a Madrid non vuole metterci piede mai più, se non come giocatore, se non come avversario: col cazzo che ci torna da turista e col cazzo che ci torna da galactico, ecco, - quindi cerca di assorbirne quanti più dettagli gli riesca, perché sente lo sguardo di José pungergli la nuca e non ha intenzione di affrontarlo. Anche se ha ritardato il suo arrivo in Italia di proposito, anche se ha preso un aereo con uno scalo in più soltanto per vederlo, non ha intenzione di voltarsi e affrontare la linea dura delle sue labbra, quel suo sguardo incazzato che urla da tutte le parti traidortraidortraidor.
Ad un certo punto, il cielo visibile attraverso il parabrezza si accartoccia su se stesso, e da che era di un celeste paradisiaco diventa un unico lenzuolo grigio e gonfio, quasi pesante sopra le loro teste. Quasi milanese. José e Zlatan sbuffano all'unisono, sorridono all'unisono, delusi (commossi) dal clima di merda, dal traffico asfissiante, dal silenzio opprimente dentro l'abitacolo.
E, prevedibilmente, José è quello che si annoia per primo.
"Allora," sbotta, perché sa che, nonostante tutti i musi lunghi e la testardaggine, Zlatan non si rifiuterà di rivolgergli la parola - non lo ha fatto mai, neppure nei momenti peggiori: il mutismo è un'arma tutta portoghese. "Milano."
Zlatan quasi pigola una risata debolissima e appoggia la fronte al finestrino. Per un po' contempla l'idea di non rispondere, limitarsi a scuotere le spalle con indifferenza e aspettare di essere a casa di José (a casa), per parlare e litigare e tutta la trafila, ma-
"Milano," gli sfugge, ed era da tanto, forse troppo tempo che non la nominava, Milano, e il nome è dolce e piacevole sulla lingua. "Sì, Milano."
José sbuffa ancora una volta e insiste un po' troppo sull'acceleratore.
"Dalla parte sbagliata del Duomo, però," dice, e si volta verso Zlatan appena in tempo per vedere l'ombra di una smorfia infastidita tendergli le labbra. "Oh, non fare quella faccia."
"Che faccia?"
"Quella faccia da santarellino oltraggiato," si acciglia, svoltando all'ultimo secondo nella strada di casa. Zlatan trattiene il fiato e conta pecore immaginarie mentre José litiga con il telecomando del garage, conta capre inesistenti mentre José parcheggia, conta mucche e montoni mentre scende dall'auto e s'incamminano verso le scale ma infine decidono di prendere l'ascensore e a quel punto lui ha finito gli animali da fattoria e pure la pazienza, e purtroppo non è per niente calmo.
"Non ti permettere di giudicarmi," ringhia, nervoso, contro il profilo di José che sembra di pietra mentre aspetta che le porte di alluminio si aprano. "Non ti permettere," ripete, avvicinandosi di un passo. E José volta appena il collo, punta gli occhi verdi sul viso di Zlatan e tanto basta per farlo andare a fuoco.
"Ho tutto il diritto di giudicarti, Zlatan," dice, atono.
Zlatan lo segue in ascensore e pensa che non è vero, nessuno nel mondo può permettersi di giudicarlo - ce l'ha scritto addosso, per Dio, ce l'ha scritto persino addosso, e se José se l'è dimenticato può tranquillamente strappargli di dosso la maglietta (sì, ti prego, ti prego, fa' che mi strappi la maglia, fa' che la smetta di strapparmi solo il cuore e mi strappi la maglietta e mi spinga su di sé e mi baci, ti prego, ti prego, dammi le sue mani) e controllare. Tutto il suo corpo sta urlando che no, no, no, no, José non ha nessunissimo stracazzo di diritto di fare niente, soprattutto non quando ha sulla faccia quel sorrisetto lì - soprattutto non quando ha smesso di farsi firmare gli assegni da Moratti, soprattutto non ora che con Milano non ha più niente a che vedere.
Ma non apre bocca, Zlatan, non sospira neppure, mentre il cubo di titanio e alluminio sfila silenziosamente all'insù, accompagnandoli lungo tre, quattro, cinque piani di appartamenti estremamente, immensamente costosi. Zlatan non dice nulla perché per qualche assurdo, irrazionale motivo, ancora gli striscia sottopelle la consapevolezza che José sì, José, l'unico, sulla faccia della Terra, José ce l'ha, il diritto di giudicarlo - e giudicarlo male, e farlo stare di merda. Sempre.
Non è scritto da nessuna parte, non è logico, non ha senso, eppure Zlatan lo guarda, serio e imperturbabile come un santo, immobile davanti alle porte dell'ascensore - guarda la curva lieve delle sue spalle, la linea dritta della schiena, le gambe, gli guarda le mani, l'orologio troppo largo sul polso (o forse è lui che ha perso peso), e rabbrividisce, perché quest'uomo ha il diritto di giudicarlo, ed ecco che Zlatan si sente imperfetto, un adolescente che muore dalla voglia di impressionare un professore troppo stronzo per essere vero.
E maledizione, pensava (stupidamente) di essere cresciuto.
Maledizione, pensava (stupidamente) che scapparsene a Barcellona fosse servito a qualcosa.
Maledizione, pensava (stupidamente) che le cose fossero cambiate. E ovviamente non è cambiato niente, soltanto la lingua in cui gli stadi lo amano e lo insultano; è cambiato forse il cielo sulla sua testa, che non è più tanto grigio ma più azzurro che altro (così tanto azzurro che a volte sembra dipinto, sembra di ceralacca, sembra tutto meno che un cielo, e sono quelle le volte in cui, più di ogni altra, a Zlatan, che ricorda la Svezia sempre annegata in un color bianco sporco, manca Milano), ma dentro di lui c'è sempre lo stesso, identico frullato di coglionaggine e inadeguatezza. Quando guarda José. Quando guarda José e pensa che, tutto sommato, l'unica cosa che vorrebbe guadagnarsi, al mondo, l'unico pensiero che lo ossessiona non è il desiderio di una Coppa o di un Pallone d'Oro col suo nome scritto sopra, ma meritarsi un sorriso di quest'uomo terribile. Un po' della sua approvazione.
Perché tre volte su quattro non è abbastanza, avere il suo amore - e quello Zlatan ce l'ha, lo sa, se l'è preso tutto quanto come si prende un temporale estivo, che ti coglie assolutamente impreparato e ti blocca lì dove sei, lì, in mezzo alla strada, e ti inzuppa da capo a piedi, un torrente ghiacciato di pioggia che se ne frega del tuo appuntamento galante, della tua passeggiata al parco, dei libri che hai appena comprato, della stracazzo di vita anche accettabile che eri riuscito a costruirti in una squadra che tutto sommato ti piace anche troppo: dove ti trova ti rovina, il temporale; ti rovescia addosso così tanta acqua che dopo un giorno, due giorni, dopo un anno ancora senti le ossa umide e i vestiti bagnati. Tre volte su quattro non è abbastanza, sapere di essere amato così tanto da sentirsi mancare il fiato. E Zlatan non ha interesse per le cose che, tre volte su quattro, non sono abbastanza.
"Vieni dentro," invita José, in un soffio, precedendo Zlatan in un appartamento luminoso, arredato elegantemente, che sarebbe troppo grande anche per una famiglia di dodici persone. "Andiamo in cucina."
Zlatan lo segue come un automa, mordendosi le labbra perché è ancora perso a pensare all'ingiustizia del mondo - all'ingiustizia che permea la sua esistenza, perché l'unica cosa che vuole davvero è anche la sola che, non importa quanto duramente sia disposto a lavorare e spaccarsi la schiena, le nocche e le ginocchia, non esiste che riesca a guadagnarsela così, e Zlatan non ci vuole pensare, ma forse non esiste che riesca a guadagnarsela e basta, - si siede senza neppure pensarci su uno degli alti sgabelli che circondano il tavolo della cucina e rimane a guardare José che si appollaia subito accanto a lui, vicino abbastanza da inondarlo con l'odore del suo dopobarba e troppo lontano per poterlo toccare.
"Zlatan," sospira il portoghese, dopo forse mezz'ora che nessuno dei due apre bocca, e improvvisamente Zlatan schioda gli occhi dal suo collo e lo guarda - guarda il suo viso stanco e corrucciato, le borse sotto gli occhi, le labbra screpolate e la ragnatela di rughe attorno agli occhi, che gli sembrano un po' più profonde dell'ultima volta, - lo guarda, lo vede, spalanca la bocca in un'espressione stupita.
"Che c'è che non va?" chiede, il cervello che si spegne e si riavvia, pieno del solo pensiero di José - José e i suoi guai, José e oh, Dio, che ha combinato, stavolta?
E José evidentemente si accorge del cambiamento, perché sorride. China il capo - si arrende, sorride.
"Ci sono un po' di guai," ammette, e non ha neppure finito di parlare che ha già addosso le mani di Zlatan, una a stringergli il braccio e l'altra che intreccia le dita alle sue. "Non è niente di irreparabile."
"Che tipo di guai?" insiste Zlatan, avvicinandoglisi fino a sbattere contro le sue ginocchia, e quando José solleva il capo si ritrova il suo respiro praticamente sul collo, e rabbrividisce.
"Mah," dice, e vede l'espressione di Zlatan indurirsi - non sperare di fottermi, portoghese di merda, - e non riesce a fare a meno di sorridere ancora, di farsi venire il batticuore, innamorato, malinconico, contento. "Sto, uhm. Giocando al gioco del silenzio con quelli che mi pagano lo stipendio, diciamo."
Zlatan si abbandona ad un brontolio sconsolato e lo guarda male - non posso credere che ci sia cascato pure tu.
"Siamo due coglioni che la metà ne basta," dice, e José non può che annuire, divertito. E tanto basta per sciogliere la tensione - tanto basta perché Zlatan impacchetti tutti i desideri assurdi che gli frullano nel cervello e nel petto e li metta via; tanto basta perché smetta di pensare e si sporga a baciare José, contento, per il momento, di quello che ha. Illudendosi, magari, che questo momento possa dilatarsi e diventare per sempre.
José solleva una mano per toccargli una guancia in una carezza ruvida, addirittura quasi impacciata, e Zlatan si preme contro il suo tocco, gli occhi chiusi e le labbra appena appena incurvate in un sorriso.
"Quindi te ne vai?" chiede, e sa che la risposta è un sì che gli farà male; la domanda che vorrebbe fare sul serio, però, è un'altra, ma anche di quella conosce già la risposta: non lo so, non posso dirtelo, e questo potrebbe ammazzarlo barbaramente, perciò non chiede. Perciò chiede soltanto: "Lascerai Madrid?"
"Prima o poi," risponde José, pianissimo, ma senza incertezze - quando mai ha esitato, lui?, - e un attimo dopo la sua bocca è su quella di Zlatan, e poi gli sta dicendo: "A Milano non posso seguirti," perché Zlatan era quasi sul punto di chiedergli, "Ci vieni a Milano con me?", quasi che Milano fosse un ristorante, un locale notturno, quasi che il calciomercato internazionale fosse una bestiola al guinzaglio di José Mourinho, pure lui.
"A Milano non posso raggiungerti," mormora José, e lo bacia, e sembra proprio quell'addio che non avrà mai e poi mai la forza di dirgli.

*

Xabi indossa il suo vestito più elegante per il pranzo con José, Inaki e tre o quattro dirigenti della società. (Nagore resta ferma sulla porta del bagno a guardarlo allacciarsi la cravatta e lo saluta con un bacio quasi impercettibile, augurandogli sottovoce buona fortuna. Non è più arrabbiata, solo un po' delusa, e Xabi naturalmente si odia, ma non può fare molto altro.)
Il ristorante è italiano, di lusso, tranquillo, fuori città. Gli antipasti sono praticamente la cosa più buona che Xabi abbia mai assaggiato e, quando arriva il primo, Inaki ha già rinunciato a tentare di fare conversazione.
José sorride in continuazione, ordina per sé tre porzioni di panna cotta e lui e Xabi perdono un sacco di soldi.

*

Le telefonate cominciano a piovere nel primo pomeriggio, quando, con un comunicato e una conferenza stampa, il Real Madrid annuncia il licenziamento di José Mourinho e la rescissione anticipata del contratto di Xabi Alonso. (E intanto Liverpool, pubblicamente, tace.)
Inaki si accampa nel soggiorno di Xabi e segue perlomeno due chiamate per volta, sulle gambe il portatile, pericolosamente in bilico, con millemila finestre che lampeggiano, tentando di attirare la sua attenzione, e gli occhi fissi allo schermo della televisione, sintonizzata su Skysport, dove gli opinionisti di tutto il mondo sono praticamente in brodo di giuggiole per l'inaspettata novità.
"No, il mio cliente non ha intenzione di rivedere il contratto con gli sponsor," sta urlando al cellulare, quando Xabi gli porta la terza caraffa di caffè, e nell'altra mano ha il telefono fisso, al quale, invece, dice: "Naturalmente, capisco la sua posizione, certo, mi assicurerò che Xabi lo sappia."
"Perché non ti prendi una pausa?" tenta Xabi, ma Inaki neppure prende in considerazione l'insulsa proposta - potrebbe quasi ritenersi insultato, a dire il vero, - e gli fa cenno di avvicinargli il secondo telefono fisso, che pure ha cominciato a squillare come un forsennato. "Aspetta, questa la prendo io. Pronto?"
"Xabi?"
"Mamma?"
"Oh, tesoro, finalmente riesco a parlarti! Il tuo telefono è occupato da ore, e anche il cellulare, ma che succede?"
Xabi ridacchia e si lascia cadere sul divano, accanto a Inaki che gli scocca un'occhiataccia perché lui e il suo culo pesante hanno quasi rovesciato il portatile giù dalle sue ginocchia.
"Credo che tutta la Spagna stia cercando di mettersi in contatto con me," dice, - "Di' pure tutto il mondo!" lo riprende Inaki, prima di mettersi a balbettare in una lingua assurda che probabilmente è tedesco (sul serio? Tedesco?), - e sua madre sospira.
"Tesoro," mormora, con quel tono gentilissimo che Xabi ricorda di averle sentito solo quando ha lasciato la Real Sociedad per l'umidità grigia del Merseyside. "Tesoro, cosa stai facendo?"
C'è tutto un mondo dietro la sua semplice domanda - non solo l'apprensione materna cui Xabi ha quasi fatto il callo, non solo la perplessità di una donna che si sente dire da un'annunciatrice in televisione che suo figlio è sul punto di mollare tutto e tornarsene in un Paese da cui è scappato per ragioni che non ha mai voluto chiarire, - e Xabi chiude gli occhi, rilassandosi contro il divano.
Cosa stai facendo?
Vorrebbe poter rispondere che non lo sa - vorrebbe potersi prendere la testa tra le mani e disperarsi, Dio, venderebbe l'anima pur di sentirsi ancora terrorizzato, nervoso e incerto come stamattina. Vorrebbe che le cose fossero difficili e incomprensibili, vorrebbe essere confuso dalle parole di José, dai propri desideri, vorrebbe non essere capace di leggersi dentro. Vorrebbe guardare negli occhi Nagore e non essere capace di spiegarle.
E invece è tutto cristallino e candido, è tutto semplice come il tragitto di una goccia di pioggia dal cielo alla terra, e questo gli spezza il cuore, gli spezza le ossa, perché non è giusto. Non è giusto.
Cosa stai facendo, Xabi?
"Sto andando a casa, mamma."
E non è giusto, non è affatto giusto, eppure, in qualche modo, è perfetto.

*

Tre ore e mezzo più tardi Xabi firma il suo addio a Madrid e Inaki, nello studio di Pérez, stampa sulla carta intestata del club l'e-mail con cui Broughton si augura che raggiungano Liverpool al più presto.

*

Un ricordo:
Xabi ha nove anni e torna a casa da scuola correndo sotto il peggior temporale della stagione. Non ha l'ombrello ma non gli importa assolutamente di essersi inzaccherato i pantaloni nuovi, saltella di pozzanghera in pozzanghera e felicissimo si precipita su per le scale, ricordandosi appena di sfilarsi le scarpe sullo zerbino. In cucina cerca la mamma e ha un sorriso enorme quando le mostra il suo primo tema, lo ha scritto tutto lui, solo soletto, e la maestra gli ha messo un voto bellissimo e lui è così orgoglioso che il cuore quasi gli esplode.
Mamma stava lavando i piatti, si volta a guardarlo e sta per ordinargli di andare a togliersi quei vestiti fradici di dosso, prima che gli venga un malanno, ma nota l'espressione estatica sul suo volto e decide di rimandare la tirata d'orecchi almeno per un momento. Si asciuga attentamente le mani sul grembiule prima di prendere il foglio protocollo, pieno della grafia fin troppo ordinata e precisa del bambino, e gli sorride, felice della nota di merito che la maestra ha scritto in rosso proprio in cima alla prima pagina. Gli arruffa i capelli umidi, ridendo della sua risata contenta, ma si sorprende quando comincia a leggere il tema e, oh, Xabi ha scritto in castigliano.
Xabi vede il sorriso della mamma spegnersi un po' e arriccia il naso, chiedendole quietamente se c'è qualcosa che non va - le promette che andrà subito a mettersi il pigiama e si asciugherà i capelli e stenderà i calzini sul termosifone, ma per favore, mamma, non essere triste. E non lo sa, neppure se ne accorge, ma le parole che gli sfuggono non sono in Euskera - che è la lingua della sua famiglia, da generazioni, - Xabi parla in castigliano, un castigliano perfetto, impeccabile, persino migliore di quello di papà, e mamma per un secondo trema.
"Va tutto bene, tesoro," dice, e si china in ginocchio per baciargli la fronte e abbracciarlo, stampandosi sul grembiule l'ombra umida del suo giubbotto bagnato. "Sei stato bravissimo, la mamma è davvero molto, molto orgogliosa di te."
Tanto basta a tranquillizzarlo, e Xabi, di nuovo contentissimo, ricambia la stretta della mamma, e le dice, "Mila esker," le dice, "Gracias."

*

Dopo cena, dopo aver messo Jon ed Ane a letto, dopo aver discusso sottovoce con Nagore, attorno al tavolo della cucina, e dopo aver deciso che, per il momento, - per un paio di settimane, magari un mese, poi si vedrà - è meglio che i bambini rimangano a Madrid, con la mamma e la nonna, Xabi - che è troppo intelligente per non capire di aver appena cominciato a porre fine al proprio matrimonio - si chiude sul balcone con un libro, una birra e il cellulare.
Verso le sette ha cacciato Inaki di casa, promettendogli di mettere il telefono fuori posto, in modo da non essere disturbato da altre chiamate - in modo da non poter sparare cazzate con giornalisti a caso, come ha simpaticamente sintetizzato lui, - e intorno alla stessa ora anche il cellulare ha cominciato a tacere, lamentandosi soltanto della sconfinata quantità di chiamate perse e messaggi non letti.
Xabi si lascia cadere pesantemente sulla poltrona - ancora una volta ringrazia Nagore per averlo convinto a comprarla, questa meraviglia di pelle e imbottiture, - e, alla luce che proviene dal soggiorno, sfoglia un po' a caso la copia del Don Chisciotte che s'è portato dietro, ma non ha affatto voglia di leggere, perciò lo mette via in fretta e si rassegna a prendere il cellulare.
Settantadue chiamate perse (non osa pensare a quante siano quelle cui Inaki ha risposto) e, Gesù Cristo, centotrentacinque sms. Gli ci vuole quasi un'ora per spulciarli tutti e, a parte i ragazzi della squadra, che pure si sono presentati in società questo pomeriggio, quando Xabi è andato a rescindere il contratto, e avrebbero voluto picchiarlo ma hanno finito per piangere tutti e abbracciarlo e augurargli buona fortuna (Sergio lo ha stretto più degli altri e l'ha guardato con una punta d'invidia negli occhi), praticamente il mondo si è sentito in dovere di mandargli anche solo tre parole di incoraggiamento, di stupore, una faccina maliziosa.
Nando, Carles, Cesc ("Bastardo tu e bastardo Mourinho, cos'ha Londra che non va?!"), tutta la Nazionale in fila e poi Rafa Nadal (sul serio? pensa Xabi, con una smorfia) e Rafa Benìtez, e naturalmente Pepe, Nando, Jamie ("Fook yeah, Xabs") e tutti, e non Steven.
Il messaggio più lungo è quello di Sami: un po' in inglese e un po' in uno spagnolo tremendo, il finlandese ironizza sui loro anni da Reds, gli augura buona fortuna, gli chiede di prendersi cura di Carra e del povero capitano, che oramai ha le ginocchia che scricchiolano e la testa che non funziona più come dovrebbe. E poi dice, ma non potevi venirtene in Germania?
Xabi riesce persino a sorridere e per un po' rimane fermo a contemplare il display del cellulare, la testa svuotata di qualsiasi pensiero, quasi sereno, quasi incurante del fatto che domani a quest'ora non sarà più a Madrid, non sarà più in Spagna, ma in Inghilterra, di nuovo in Inghilterra, di nuovo a Liverpool. Non sarà il Bernabéu a gridare il suo nome ma Anfield a cantarlo, e il pensiero basta ad accelerargli ancora il battito cardiaco, a strappargli il fiato dai polmoni, a fargli chiudere gli occhi e rilassarsi, contento. Contento.
A undici anni, durante una vacanza in Italia, Xabi Alonso si è innamorato perdutamente della Sardegna, e da quel momento le spiagge di Donostia - le sue spiagge, quelle che ogni granello di sabbia avrebbe saputo chiamarlo per nome - gli sono sembrate scialbe e insipide, al confronto; la pioggia di Liverpool gli è piaciuta da subito più che la pioggia di casa, gli ombrelli tutti neri più della marea di colori che sboccia per Madrid ad ogni temporale, e l'inglese gli è scivolato sotto la pelle al posto del castigliano, come il castigliano s'era mangiato zitto zitto l'Euskera millenni prima. E il tè ha preso il posto dell'acquavite, la Regina ha spodestato il Re, e You'll never walk alone piuttosto che Txuri-urdin. Gli è sempre venuto facile, il tradimento.
Gli è sempre venuto facile, il tradimento. Aprire il cuore a qualcosa di nuovo, di inaspettato, e lasciarsene rapire, voltando le spalle a tutto quello che c'era prima - sentendosi in colpa, naturalmente, mortalmente in colpa, ma come si fa a tornare indietro? Come si fa a disinnamorarsi di dodicimilatrecentonovanta persone che cantano il tuo nome, del rosso vivo di quella maglia, di una squadra che giura che mai - mai, mai, mai, mai - camminerai da solo?
Cristo, come ci si può aspettare che Xabi si disinnamori di Steven Gerrard?
Perché sta tutto lì, il problema. Il suo tradimento più grande - quello più impegnativo, e naturalmente anche quello riuscito meglio, il più piacevole, il più sbagliato e perfetto - è Steven, e Nagore ne paga le conseguenze. Ci può girare attorno quanto gli pare, Xabi, può raccontarsi tutte le storie del mondo sull'affetto per il Liverpool, il dispiacere per aver lasciato una squadra di cui era tanto innamorato, il desiderio di avere un'altra Istanbul con loro e la consapevolezza che se c'è un allenatore al mondo che può farcela, quello è José Mourinho - e magari riuscirà anche a convincersi che davvero per i suoi figli sarà un vantaggio, crescere bilingue, e che vivere sulle rive della Mersey temprerà il suo fisico e né lui né Nagore soffriranno mai di reumatismi, in vecchiaia, ma l'unica vera verità è che Liverpool è casa perché a Liverpool c'è Stevie.
E per Xabi è sempre stato facile, tradire. Non è capace di avere a che fare col senso di colpa o di dormire tranquillo o di rispettarsi ancora, dopo, ma non è quello che conta, non è quello che gl'importa, non è alle conseguenze che stava pensando, quando per la prima volta ha lasciato che l'abbraccio di Stevie durasse un po' troppo, e che la sua bocca gli si premesse sul collo. Pensava solo al calore irresistibile delle sue mani e a quanto avrebbe voluto non doverlo lasciar andare mai più; pensava solo ad annegarsi nel suo bacio dolcissimo e a scacciargli dalle guance il torrente di pioggia che li investiva allegramente. Non pensava neppure all'ombrello lasciato cadere tre metri più in là, ma solo al gemito e al sorriso quasi imbarazzato di Stevie, e gli sembra di non aver mai pensato a nient'altro, mai più.
Xabi stringe la presa attorno al cellulare e col pollice, in quattro secondi, compone il numero di Stevie. Potrebbe selezionarlo dalle chiamate rapide - otto, è sempre l'otto, - ma c'è qualcosa di molto più definitivo e intimo nel fissare le cifre tutte ordinate sul display, e quasi lo chiama per davvero.
Quasi.
Perché poi, per una volta, si ferma a pensare al dopo - a cosa dovrebbe dire, a come, a perché, e perde coraggio. Perde. Gli viene voglia di piangere, gli viene voglia di dormire, e rimane a guardare lo spicchio di luna bianca ritagliata in mezzo al cielo.
*

(Anche Stevie passa la notte sul balcone, a rigirarsi tra le mani una foto di Istanbul e mordersi le labbra, incapace di costringersi a chiamare Xabi e dirgli. Dirgli cosa?)

*

José dorme tranquillo, esausto per il pomeriggio passato con Tami a fare le valigie.

*

Inaki non dorme, ma non è una novità. Se ti piace dormire, se pensi di aver bisogno di dormire per campare, non scegli il mestiere di procuratore.

*

Zlatan gioca quarantacinque minuti di Trofeo TIM contro la Juventus e quarantacinque minuti di derby contro la voglia matta che ha di farsi servire un passaggio da Davide.

*

"Non riesco a credere che stia succedendo davvero," geme Inaki, lasciandosi cadere pesantemente su uno dei sedili del jet messo a loro disposizione dai gentilissimi dirigenti del Real Madrid che, poveracci, dovevano essere veramente tanto ansiosi di liberarsi di quel diavolo d'un portoghese.
Inaki si affaccia e lo guarda: José sta scribacchiando freneticamente chissà cosa sul suo taccuino nuovo, forse anatemi contro Pérez e tutta la sua stirpe, forse sta semplicemente controllando che la penna che gli hanno venduto al duty-free funzioni bene. Tami e i bambini - Inaki fatica ancora a capacitarsi del fatto che da un orco simile siano potuti nascere due figli così immensamente adorabili - sonnecchiano un po' più indietro lungo il corridoio, e per un attimo lui invidia la loro tranquillità, la loro assoluta (apparente) mancanza di preoccupazioni per il futuro.
E gli si stringe il cuore quando guarda Xabi, che se ne seduto compostamente davanti a lui e gli occhi persi fuori dal finestrino a contare i fiocchi di nuvole che sfilano sotto di loro, giusto un po' immusonito; Inaki vorrebbe che Nagore avesse riposto in Xabi la stessa cieca, incrollabile fiducia che Tami dimostra per José.
"Non riesco a credere che stia succedendo davvero," ripete, pianissimo, quasi sovrappensiero. E la sua incredulità non è legata solo alla circostanza contingente, è quasi esistenziale, ma José sceglie questo esatto momento per alzare il naso dal taccuino e fissare quegli occhi cattivissimi sul viso di Inaki.
"Non riesci a credere che stia succedendo che cosa?" chiede, atono, ma sottovoce, per non svegliare sua moglie e i suoi figli. Inaki rabbrividisce, per un attimo contempla l'idea di darsi alla fuga - arraffare un paracadute, spalancare il portellone di emergenza e buttarsi di sotto (il display incastrato nel bracciolo del sedile lo informa cordialmente che stanno sorvolando i sobborghi di Londra, mancamenodimezz'oraall'atterraggio, c'è scritto, tutto attaccato), - ma si fa forza e decide di essere uomo.
"Tutto questo," dice, accennando con un gesto vago al jet e, metaforicamente, al viaggio che li sta portando dalla Spagna all'Inghilterra - dalla gloria al disastro, probabilmente. "Che lei abbia convinto Xabi a seguirla in questa pazzia."
José sbuffa appena, forse con una punta di divertimento, e con la coda dell'occhio Inaki vede Xabi muoversi sul sedile e voltarsi verso di lui, guardarlo con un'espressione perplessa.
"José non mi ha convinto a fare nulla," dice, aggrottando appena le sopracciglia. "Sono io che voglio tornare a Liverpool. Inaki - tu lo sai meglio di chiunque altro."
"Ovviamente lo so," sospira Inaki, un po' esasperato, e poi è colto da un'illuminazione e sorride. "Visto che siamo tutti qui e ho la vostra attenzione," dice, battendo le mani e guadagnandosi un'occhiataccia da José, non svegliare i bambini, per cui si affretta ad abbassare la voce di un'ottava e muoversi il meno possibile, "visto che stiamo per atterrare, vorrei ripassare con voi gli interventi per la conferenza stampa."
"Non sei il mio agente, Ibanez," sbuffa José, con un cenno indisponente della mano. "E sai benissimo che non ho bisogno che qualcuno mi dica cosa devo o non devo dire."
Inaki sospira, paziente.
"Mister Mourinho, è vero, non sono il suo agente, ma sono il procuratore di un giocatore che lei ha praticamente rapito al Real Madrid. Il mio primo interesse è il benessere di Xabi, e il benessere di Xabi dipende praticamente solo da quello che lei dirà una volta arrivati a Liverpool." Sospira di nuovo. "Nessuno deve farsi male, stavolta, e nessuno deve essere licenziato, mister Mourinho."
José sogghigna e a Inaki viene la pelle d'oca.
"Ben detto, Ibanez," annuisce José; si sporge dal sedile, poi, e solleva una mano per dargli due amichevoli schiaffetti su una guancia. "Nessuno deve essere licenziato. Quindi, fammi il favore di sederti e restare in silenzio finché non atterriamo, se ci tieni al tuo stipendio."
"Piantala, José," lo rimprovera Xabi, bonario, e dietro di loro Inaki boccheggia per un attimo, poveretto lui che non ha mai avuto l'occasione di fronteggiare un José Mourinho così di buon umore e quindi così tanto propenso ad essere gratuitamente uno stronzo nei confronti del suo prossimo.
José ridacchia, tanto compiaciuto da far spavento, e per un attimo arriva a desiderare di non essere se stesso solo per potersi stringere la mano; poi gli viene in mente che di mani ne ha due, e chissene frega se deve sembrare un coglione madornale: si afferra la sinistra con la destra e le scuote assieme con convinzione, incapace di trattenere il sorriso che gli spunta sulle labbra.
"Oh, Dio, sei proprio impazzito," geme Xabi, pianissimo, e José, spaparanzato nel sedile - nota a se stesso: ordinarne un paio per il salotto, chissene frega se sono poltrone da aereo, sono troppo comode, - ride ancora, tutto contento.
"Sfottimi pure," dice, cercando a tentoni il ginocchio di Xabi attraverso lo stretto corridoio del jet e, quando lo trova, dandogli un'amichevole strizzatina. "Sfottimi pure, ma se facciamo a gara a chi è più contento di tornare in Inghilterra, mi sa che vinci tu." Vorrebbe aggiungere e pure di molto, ma preferisce conservare l'appunto per il futuro - per esempio, per quando Xabi si fermerà sotto la Kop e tutti saranno in piedi, un mare di rosso a cantare il suo nome, e non potrà umanamente trattenere le lacrime: allora José gli si avvicinerà, gli assesterà una gomitata nelle costole e dirà, sghignazzando, Ti vedo contento, Xabi, dirà, molto, molto più contento di me.
Xabi sorride giusto un po'.

*

Non appena l'aereo s'inclina in giù verso la terra, sui finestrini si materializzano infinite goccioline d'acqua che disegnano sottilissimi percorsi a zigzag, sballottate confusamente dal vento. Xabi le osserva a occhi stretti, concentrato per cercare di distinguere qualcosa in mezzo alla nebbia grigia e alle nuvole grigie e all'asfalto grigio della pista d'atterraggio. Concentrato per cercare di tenere ben lontana da sé la grandezza di quello che. (Di quello che ha fatto, di quello che ha scelto, di quello che lo aspetta.)
Non vuole pensare, non vuole che lo colpisca, come una manata violenta sulla noce del collo, la consapevolezza che, sì, l'ha fatto di nuovo - si è fatto fregare dalla promessa di qualcosa di meglio, ha voltato le spalle a quello che aveva, ha tradito.
Traidor. Iker l'ha chiamato così per gioco, al suo arrivo a Madrid, soffocandolo in un abbraccio caldo e affettuoso. Scherzava, non ci ha creduto neppure per un momento, eppure. Traidor.
Come un automa, Xabi si tira in piedi. Aiuta Tami a tirar giù i bagagli, lei lo ringrazia con un sorriso dolcissimo che sembra quello di Nagore prima di avviarsi verso la coda dell'aereo, e Xabi sta ancora pensando, traidor. Segue José nella direzione opposta a quella imboccata da Tami e dai bambini e pensa, traidor.
"Soy un traidor," mormora, piano, sono un traditore, e in mezzo al rumore dell'atterraggio, dei motori, di Inaki che ha risposto alla chiamata di chissà chi non si aspetta che qualcuno lo senta, ma José si volta e gli scocca un'occhiata sorpresa.
"Perdonami?" dice, e Xabi potrebbe scuotere le spalle e minimizzare, dirgli nulla, non è nulla, ma c'è qualcosa di indefinibile, negli occhi di José, che pretende da lui la verità.
"Soy un traidor," ripete, quasi con orgoglio.
E José fa una smorfia che è un sorriso triste, stupito.
"Non preoccuparti," gli dice. "Sono un esperto, con quel tipo di persone."
Xabi non coglie proprio completamente il senso delle sue parole, ma si accontenta di quel poco che ha capito e sorride cortesemente alle hostess che - in inglese, con un po' di accento e gli occhi che luccicano - augurano loro buona permanenza, buona fortuna, buon tutto quanto.
Piove.
José è subito sulla scala, saluta con un cenno brevissimo ma Xabi non vede niente, è indietro di un passo e il portoghese ingombra tutto lo striminzito portello d'uscita. Poi José scende e Xabi viene avanti, "Attento a non sbattere," borbotta Inaki, dietro di lui, e lui, diligentemente, piega il collo e forse chiude gli occhi; non appena l'aria fredda gli schiaffeggia la faccia, però, Xabi tira su la testa e guarda il cielo.
Grigio. Come a Milano, ha pensato José; perché siamo a Liverpool, pensa Xabi.
Piove - gocce leggere e quasi affilate contro le guance, una pioggerellina inconsistente e fastidiosa e odia non avere un ombrello.
E poi, inaspettato, arriva il rombo di un tuono. Che non è un tuono, e non è un rombo, e Xabi lo capisce quando abbassa lo sguardo ed è come se gli avessero aperto uno squarcio sulla fronte e il sangue gli fosse colato sugli occhi, perché vede rosso, rosso, rosso dappertutto sotto l'acqua. Pian piano, poco a poco quel rosso prende consistenza, si raggruma in una folla, un mare di persone e sciarpe e bandiere, facce bianche e sorrisi immensi e bocche spalancate a urlare, e Xabi sente la pioggia sulle guance farsi un po' più calda, perché non è pioggia ed è lui che sta piangendo, e adesso, finalmente, lasciarsi piovere addosso ha un senso.
Scende, in qualche modo - ha le gambe pesanti e le ginocchia molli e tutto il cervello fuori uso, e se riuscisse a mettere insieme un pensiero coerente si direbbe che, Cristo, sì, sì, sìsìsìsìsì, tutto il senso di colpa del mondo vale questo cuore che gli scoppia, questa confusione totale e questa folla che salta e si agita e canta, vale il rischio di cascar giù dalle scale e fracassarsi ogni singolo osso che ha in corpo.
E neppure cade, miracolosamente Xabi non cade e sente meno freddo ad ogni gradino che scende, anche se la pioggia si fa sempre più fitta; sono tutti così felici di vederlo che Xabi non si ricorda più nemmeno il suono della parola traidor.
José lo aspetta ai piedi della scala, un ghigno da saputello stampato in faccia e tutto accartocciato sotto l'ombrello retto da un addetto alla sicurezza dell'aeroporto.
"Sono un po' geloso," gli dice, appena vagamente udibile sopra il frastuono dei tifosi, e Xabi gli rivolge il sorriso forse più ampio che gli sia mai spuntato in volto e ha intenzione di rispondergli qualcosa - qualsiasi cosa, anche solo un mugolio estasiato, - ma s'inceppa tutto perché all'improvviso smette di piovere su di lui e Xabi, perplesso, si volta, e non l'avesse mai fatto, perché proprio accanto a lui, a reggere un ombrello anonimo e nero, c'è la mano di Stevie.
E un millimetro più in là comincia il polso di Stevie, il cappotto di Stevie, la spalla di Stevie, il collo di Stevie, il mento di Stevie, il sorriso di Stevie, il naso di Stevie, gli occhi di Stevie e Xabi, pateticamente, non riesce a respirare.
"Che ci fai qui?" bisbiglia, incredibilmente stupido, e ha la testa così vuota che neppure si accorge di aver parlato in Euskera. Stevie ride, fa un passo in avanti e con la mano libera s'impossessa dei fianchi di Xabi, se lo tira contro, facendolo inciampare: lo abbraccia fortissimo, si nasconde contro il suo collo (lo bacia, un centimetro sotto l'orecchio, come se fosse Istanbul) e, accompagnato dal canto dei tifosi e dal ticchettare fuori tempo della pioggia sulla stoffa pesante dell'ombrello, piange.

Note finali:
- Il numero di secondi che Xabi impiega per decidere se seguire José a Liverpool non è casuale: ventidue è la somma di 8 (il numero di Stevie) e 14 (Xabi), nonché, per tutta la scorsa stagione (e cioè la prima del dopo-Liverpool ;W;), il numero di Xabi al Real. #unadonnachecitieneaquestestronzate
- "Ci vieni a Milano con me?", quasi che Milano fosse un ristorante, un locale notturno - questo è un omaggio (non letterale) a Puppet on a Lonely String <3
- Txuri-urdin è l'inno della Real Sociedad.
- A 12’390 persone corrisponde, secondo Wiki, la capienza della Kop, lassù ad Anfield.
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