[RPF] Un p'tit coin d' parapluie, contre un coin d' paradis

Nov 26, 2010 01:20

Titolo: Un p'tit coin d' parapluie (contre un coin d' paradis, je n' perdais pas au change, pardi!)
Fandom: RPF Real Madrid/AC Milan/Liverpool FC, con brevi apparizioni di Inter & Chelsea FC
Beta: el_defe  ♥
Personaggi/Pairing: Xabi Alonso/Steven Gerrard, José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, Xabi Alonso/Nagore Aranburu, Inaki Ibanez, circa un milione di comparse, tra cui la madre di Xabi, che non elencherò per non essere ridicola
Rating: PG14
Conteggio Parole: 10931 (OOo) (bigbangitalia is the way!)
Avvertimenti: slash, angst, future!fic
Note: Il titolo è rubato a Georges Brassens (~ Le parapluie), e significa, grossomodo: Un piccolo angolo d'ombrello, contro un angolo di paradiso, a far lo scambio non c'avrei rimesso, naturalmente! ♥
- Questa storia nasce dall'esigenza estemporanea di restituire Xabi alla sua vera casa, e cioè al tetto rosso di Anfield - per la precisione, anzi, nasce dall'immagine che mi è comparsa un giorno sotto gli occhi, tipo la Madonna, di Xabi che scende da un aereo e ha davanti cinquantamila persone (non di numero, naturalmente xD) vestite di rosso che festeggiano il suo ritorno a Liverpool. Buttate José Mourinho nel mucchio, e tutto diventa possibile.
Nello scriverla, mi sono innamorata di parecchie cose - della palese disfunzionalità del Jobra, per esempio, ma soprattutto di Inaki Ibanez, il procuratore di Xabi, che è stato un po' la rivelazione dell'estate, per me, anche se la fic ho cominciato a scriverla tipo a settembre. Ho raccontato un po' di cose, altre che avrei voluto dire non hanno trovato posto, ma è stato bello affrontare un progetto così - una fic lunga e scritta di getto, senza troppe pianificazioni, il cui solo collante, a parte ovviamente i personaggi, sono i maledetti ombrelli. Le voglio bene, tutto sommato, anche se alla fine racconta poco e niente xD; le voglio bene, e spero possa piacervi ♥
- Fermi là, dove andate, non vi muovete! Questa fic ha ricevuto un bellissimo (bellissimo? Fantameraviglioso, a dir poco!) fanmix da parte di lisachanoando , la quale è una santa e ascolta musica orgasmica, lasciatevelo dire, perciò vedete di fare le persone perbene e passate per di qua, scaricatelo, ammiratelo, ammiratela, vogliatele bene ♥
- Menzione d'onore per quel santo di el_defe , che mi ha betata super-in fretta e con tantissima precisione, e soprattutto ha perso tempo prezioso per lasciarmi, qua e là lungo la fic, dei commenti pucciosissimi che mi hanno ammazzata d'amore ♥ Grazie, womo, è stato fantastico & mi farò betare più spesso *ride*
- Altre note in fondo alla fic.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo, e vorrei ben vedere.



Ammirate il banner bellissimissimo che sanzina89 ha fatto per me, e invidiatemi la sua amicizia ;////;!!

~ Un p'tit coin d' parapluie
contre un coin d' paradis, je n' perdais pas au change, pardi!

Il trillo del cellulare strappa Xabi da un sogno quasi piacevole - c'era un castello di marzapane e pioveva latte al cioccolato su un campo da calcio con l'erba alta venti centimetri e piena di fiori, - e lui ci mette un po' a decidere che, se qualcuno si è preso il disturbo di chiamarlo alle - getta un’occhiata alla sveglia sul comodino - sei e trentadue del mattino, magari può essere qualcosa di grave, magari può essere qualcosa di importante. Magari vale la pena rispondere.
Nel suo tentativo di recuperare il cellulare, Xabi sbatte una mano contro il bordo del comodino e borbotta una mezza bestemmia, svegliando Nagore che si volta verso di lui mugugnando.
"Lo fai smettere, prima che svegli tutto il palazzo?" gli chiede, la voce bassissima e pastosa di sonno. Xabi finalmente stringe le dita attorno al cellulare e sbuffa, impicciandosi col touch screen al punto che non controlla neppure chi è che lo stia chiamando, prima di rispondere.
"Pronto?" gracchia, strofinandosi una mano sugli occhi e facendo del proprio meglio per non aggiungere una mezz'oretta di insulti al saluto.
"Ehi," è Inaki, e Xabi trattiene un gemito. "Buongiorno, scusami, ti ho svegliato?"
"No," brontola Xabi, automaticamente cortese. "Mi stavo alzando."
"Non ti credo neppure un po', ma grazie per averci provato," ride Inaki, e Xabi si domanda com'è possibile che il suo procuratore sia tanto pieno di vita ad un’ora così indecente. Poi si dice che, con tutta probabilità, quel pazzo deve aver passato la notte in bianco a lavorare e scolarsi una tanica di caffè dopo l'altra, perciò non c'è nulla di cui stupirsi. "Comunque, alzati davvero. Accendi la televisione, qualsiasi canale sportivo andrà bene."
Xabi fatica un po' a processare la richiesta - deve alzarsi? Inaki sta scherzando, vero? Oh, Dio, non sta scherzando, - e, dopo un paio di minuti persi a fissare a vuoto il soffitto, getta le gambe giù dal letto e si tira a sedere con un ringhio a metà. Inaki ride e lo incoraggia, Nagore, che si è quasi riaddormentata, gli intima di fare piano e non svegliare i bambini.
Xabi ciabatta stancamente fino in soggiorno - si ferma un attimo davanti alla porta aperta della camera di Jon, a sorvegliare il suo sonno tranquillo e sentire il cuore ingolfarsi, sovraccarico d'affetto, - aggira i resti della cena di ieri - c'era Sognando Beckham in tv e Nagore ha assolutamente voluto vederlo, tanto da tollerare l'idea di mangiare sul divano, - e traffica un po' col telecomando finché non riesce a sintonizzarsi su Skysport.
"Fatto," sbotta nel telefono. "Parlano di calciomercato. Ovviamente. Ora saresti così gentile da dirmi perché mi hai fatto alzare a quest'ora ridicola proprio oggi che miracolosamente ho la giornata libera?"
"Calciomercato, eh?" replica Inaki, completamente sordo alle sue lamentele. "Niente notizie su Mourinho?"
"No," e, naturalmente, nell'istante in cui Xabi richiude la bocca, la formosa presentatrice, col suo sorriso di plastica e le tette dorate che quasi luccicano sotto i riflettori dello studio, giocherella un po' con un paio di fogli e poi, cinguettando, annuncia un qualche epico scoop proprio su Mourinho. "Oh, aspetta, eccolo."
"Alza il volume, ti piacerà."
Partono le riprese di una conferenza stampa che Xabi non riesce a collocare temporalmente - non ha mai visto quella camicia celeste addosso al mister, non nelle ultime settimane, almeno, - e una voce fuoricampo racconta di come l'allenatore del Real Madrid abbia sconvolto i tifosi e la stampa convocando, praticamente a notte fonda, uno sparuto numero di giornalisti ai quali ha svelato il suo personalissimo segreto di Fatima.
Xabi è tentato di chiedere a Inaki di risparmiargli questa tortura e fargli un riassunto breve della questione, ma, per sua somma fortuna, lo spiritosissimo giornalista si estingue e l'audio passa a Mourinho.
"Mi è stato chiesto di andarmene," spiattella il portoghese, senza preoccupazioni, come se stesse comunicando al mondo di aver deciso, di punto in bianco, di cambiare marca di ammorbidente. "Quindi me ne vado. Rimane il mio rispetto per la società, i tifosi, la storia di questo club, ma," schiocca la lingua e si ferma, pensoso, prima di riprendere a scandire, lento come melassa e Xabi gli è grato, sul serio, perché così gli sembra quasi di riuscire a digerire le parole che sente, gli sembra quasi di riuscire ad afferrare l'immensità di quello che sta succedendo, di quello che succederà. "...ci sono state delle incomprensioni. Delle incompatibilità. E mi è stato chiesto di andarmene."
"Oh, Dio. Il presidente ha davvero licenziato Mourinho?" bisbiglia Xabi, mentre una giornalista a caso sciorina trecento domande completamente fuori contesto. Sente Inaki ridacchiare un po' amaramente, e poi tossire perché gli dev'essere andato storto il caffè.
"Lo so, è una batosta," commenta, quando è certo di non essere più sul punto di crepare. "Comunque, era una morte annunciata."
Vero, riflette Xabi, osservando distrattamente Mourinho che, sullo schermo, sta ancora parlando. Lo sapevano tutti che il portoghese non sarebbe durato a lungo, sulla loro panchina. Da mesi, ormai, l'intera dirigenza del Real ha smesso di parlargli - nonostante tutti i trionfi, nonostante il numero impressionante di tre a zero, quattro a zero, cinque a zero che Mourinho è stato capace di regalare ai galacticos, nonostante tutti i trofei sui loro cuscini di velluto, - e, anche se nessuno dei giocatori è mai riuscito a sapere esattamente a cosa fosse dovuta la rottura, hanno sempre avuto ben chiaro in mente che non era uno di quegli screzi che si superano davanti ad una birra, magari con una scazzottata e poi amici come prima. Xabi, d'altra parte, è piuttosto certo che José Mourinho sia patologicamente incapace di gettarsi le cose alle spalle.
Certo, però, non si aspettava neppure da lui una reazione così plateale. Annunciare in conferenza stampa di esser stato cacciato a viva forza dai suoi datori di lavoro è un po' troppo anche per Mourinho. Deve avere qualcosa in mente.
"Ehi," lo richiama Inaki, "apri le orecchie, adesso viene la parte migliore."
"Ha già una destinazione, mister Mourinho?" chiede un giornalista del Mundo Deportivo, mordicchiando il tappo di una penna. La telecamera torna ad inquadrare Mourinho e quando Xabi vede il sorriso furbetto che gli arriccia gli angoli delle labbra ha la certezza che, sì, ovviamente Mourinho sta tramando qualcosa.
"Ho ricevuto... molte telefonate," dice, con appena una punta di orgoglio. "Mi ha chiamato il Presidente," e intende Moratti, "mi è stato proposto di allenare il Portogallo, mi hanno chiamato dalla Germania, mi hanno chiamato dall'America." Si ferma, osserva con attenzione la platea e poi, chinandosi quasi verso il microfono: "Ma ho deciso di andare a Liverpool."
Liverpool. Liverpool. Il cielo grigio e l'umidità e il porto e Anfield e- il cuore di Xabi gli si spalma sulle costole, ma lui soffoca la sensazione e un po' sorride.
"Riuscirà a coronare il suo sogno di allenare Steven Gerrard," sbuffa, complimentandosi con se stesso per essere riuscito a mantenere fino in fondo un tono perfettamente neutro, e Inaki ridacchia, deliziato. Un giornalista fa esattamente lo stesso commento, e Mourinho si stringe nelle spalle, divertito, ma non dice nulla. "Sono contento per lui."
"Aspetta, aspetta," ride ancora Inaki. "Non è finita."
"Mister Mourinho, mister Mourinho, quindi ha intenzione di lasciare la Spagna e andarsene in Inghilterra così, semplicemente? Si trasferisce immediatamente? Mister Hodgson la sostituirà qui a Madrid?" squittisce, nervosissimo, un giornalista minuscolo, talmente piccolo che deve saltellare sulla sedia per non restare nascosto dal tizio che gli è seduto davanti.
"No, sì e non lo so," risponde Mourinho, lapidario. "Conosco le prossime mosse di mercato del Real Madrid meno di voi, non sono tenuto a conoscerle. Non so chi mi sostituirà. Non ho intenzione di andarmene da solo, però." Si prende un'altra pausa ad effetto, e Xabi si accorge che il cuore ha ricominciato a battergli come un pazzo, ma ora direttamente dentro la gola. "La società mi ha offerto una buonuscita, per... ah, servizi resi, si dice così?" ridacchia, simpaticamente, ma nessuno nel mondo ha voglia di condividere la sua ilarità - sicuramente non Xabi, comunque.
"Sentilo adesso, sentilo adesso!" si esalta Inaki, e Xabi quasi riesce a sentirlo sbattere i piedi sul pavimento, eccitatissimo.
"Ho accettato la rescissione anticipata del contratto senza problemi," continua Mourinho, disinvolto e svogliato. "Ma ho fatto una richiesta alla società. Me ne vado - vogliono che me ne vada e quindi me ne vado. Ma Xabi Alonso viene a Liverpool con me."

*

Zlatan chiama. Più o meno chiamano tutti - chiamano Didi, Davide ("Non posso credere che andrai in Inghilterra!", dice alla segreteria telefonica, tutto allegro ed eccitato come se il Liverpool avesse voluto lui, "vedi di dargli una bella lezione, a quello là"), Rafa ("Buona fortuna," gli augura, sportivamente), tutta la dirigenza del Real Madrid si attacca al telefono e sono tutti più o meno incazzati con lui, e poi chiama Zlatan.
Zlatan. Zlatan chiama e José risponde - dopo trecentocinquantasei volte che il cellulare trilla a vuoto l'assurda suoneria che Zuca ha scelto per lui, José risponde. Non dice nulla, si chiude sul balcone e ascolta.
Zlatan respira forte, ma forse sono solo le statiche.
José chiude gli occhi e si preme il telefonino contro l'orecchio, come se questo bastasse ad avvicinarlo a Milano, e magari sta solo impazzendo del tutto, ma gli sembra quasi di sentire, attraverso il microfono di infima qualità, nonostante tutti i chilometri e i colori sbagliati, gli sembra di sentire la (non più) (sua) città che si sveglia, che sbadiglia educatamente; gli sembra di vedere Zlatan in mutande sul letto, con un braccio a coprirgli gli occhi e le gambe un po' divaricate e le lenzuola sfatte, la pelle già calda e appiccicosa di umidità.
"Allora è Liverpool?" chiede Zlatan, dopo un secolo, e c'è qualcosa, nella sua voce, che José (sente tirargli con forza le arterie attorno al cuore) non riesce a decifrare.
"È Liverpool," replica, piatto, imperturbabile. Zlatan sbuffa. Sta per dirgli, a Liverpool non posso seguirti, non posso raggiungerti. Sarebbe inopportuno, quasi offensivo, e terribilmente vero.
"Ti servirà il tuo ombrello," dice, invece. Quasi con dolcezza, quasi con un sorriso.
E José ricorda Parigi, all'improvviso: la ricorda bellissima, viva come nessun'altra città nel mondo e neanche lontanamente a metà strada tra Madrid e Milano, ma poteva bastare. Ricorda l'afa incredibile a luglio e il freddo quasi paralizzante di dicembre, ricorda la neve, le mani fredde di Zlatan e la sua bocca calda. Non ricorda ogni singola stanza d'albergo e neanche i ristoranti o le strade o i negozi, ma ricorda una macchia di gelato sulla maglietta di Zlatan; ricorda un pomeriggio di neppure due settimane fa, che pioveva da morire e i giardini del Louvre erano ridotti ad un pantano di fango ed erba calpestata.
Zlatan correva ridendo, e lui dietro bestemmiava in ordine alfabetico tutti i santi del calendario mentre tentava di tener su l'ombrello, combattendo un braccio di ferro già perso contro il vento. Ricorda, poi, la corsa su per le scale dell'albergo e l'ombrello abbandonato sul sedile posteriore del taxi.
Non ricorda il sesso, quello José non se lo ricorda mai, si sforza sempre di dimenticarlo, ma ricorda le dita di Zlatan intrecciate alle sue e, nel buio, il suo sorriso imperfetto.
José pensa ai capelli di Zlatan sparsi confusamente sul cuscino, lo immagina mordersi le labbra, incerto sull'espressione che dovrebbe indossare e, per un attimo, gli viene voglia di essere sincero, perciò quasi gli dice, "Sì, Zlatan, dovresti restituirmi l'ombrello," quasi gli dice, "Perché non vieni a Liverpool con me?"
Si riprende in fretta, basta un respiro e Parigi e Milano sono di nuovo lontanissime, niente affatto disciolte crudelmente nel suo sangue.
"Ne ho comprato uno nuovo."
È una bugia, e Zlatan (lo sa) dà un colpo di reni e rotola sul materasso finché non si ritrova sdraiato sulla pancia, i gomiti puntati nel cuscino e gli occhi piantati sul muro bianco. Per un attimo gli viene voglia di essere sincero - quasi apre la bocca e dice "Ti amo, José," quasi dice, "Mi manchi." Si riprende in fretta.
"Buona fortuna, allora."

*

Il Bernabéu sembra una tomba.
Dopo la conferenza stampa di Mourinho il presidente ha deciso di dare allo stadio un po' di respiro, e allora manca il vociare confuso dei turisti, mancano i tafferugli familiari dello staff, per il quartiere non passa l'ombra di una macchina e Dio, non c'è neppure uno straccio di passerotto a cinguettare in mezzo alle gradinate, neppure un misero piccione a becchettare allegramente sul campo: Xabi sta marciando per i corridoi più interni dello stadio ed è piuttosto sicuro che nel raggio di due chilometri i suoi passi siano l'unico suono distintamente percepibile.
La bolla di silenzio e lutto in cui annega il Bernabéu è quasi surreale e Xabi, che fuma rabbia, pensa con una certa soddisfazione che, tra dieci secondi - il tempo di raggiungere gli spogliatoi dove supponesperaprega di trovare Mourinho, che è tutta la mattina che lo cerca in giro per il mondo e non lo trova, - un silenzio eterno e irreversibile calerà anche sulla boccaccia incontrollabile di quel diavolo d'un portoghese.
Spalanca la porta degli spogliatoi con appena un po' più forza del necessario: la manda a sbattere contro la parete con tanta forza che l'intonaco si crepa, e l'eco della botta rimbomba forse fino a Marte.
E Mourinho è lì, tutto tranquillo, seduto su una panca con addosso la sua camicia bianca più elegante e una terribile cravatta rossissima, pettinato, sbarbato, che si guarda le unghie con aria immensamente interessata e a malapena solleva lo sguardo su Xabi - a malapena dà segno di aver sentito il terribile rumore che deve aver fatto tremare lo stadio e la città fin nelle fondamenta.
"José."
A guardarlo così, non si direbbe che Xabi è furibondo: resta fermo sull'uscio dello spogliatoio, composto e dritto, una mano agganciata al fianco e l'altra che penzola indolente accanto alla coscia. Non digrigna i denti, non assottiglia gli occhi, non sbatte nervosamente i piedi per terra e l'unico indizio che lascia intendere una lieve alterazione nel suo umore è la linea dura e sottile delle labbra.
"Buongiorno, Xabi," saluta José, educatamente, e poi torna a studiarsi le dita; ha persino la faccia tosta di mettersi a trafficare con una pellicina del pollice e di fare una smorfia di dolore quando, suppone Xabi, tenta di tirarla via.
Lo spagnolo sospira pesantemente e fa un passo avanti; entra nello spogliatoio e poi avanza ancora un pochino, fino a lasciarsi cadere sulla panca accanto a José. Non appena piega le ginocchia, non appena appoggia le spalle all'indietro contro il muro, Xabi rabbrividisce, e ha la sensazione di aver perso una guerra. Si rimprovera in fretta, però, mi sono solo seduto, si dice, non è che ho firmato un contratto a vita col Liverpool. E poi, chissà se me lo proporrebbero mai, un contratto così.
"Dal modo in cui hai soavemente aperto la porta," la voce di José lo strappa dai suoi pensieri, grazie a Dio, "devo dedurre che hai parlato con Inaki?"
Xabi sospira e appoggia la nuca al muro, guarda il soffitto, così José è poco più che una macchiolina scura ai margini del suo campo visivo e non l'uomo che con ogni probabilità ha appena fatto polpette della sua vita e della sua sanità mentale.
"Ho parlato con Inaki," conferma. "Ho visto la conferenza stampa."
José annuisce; si porta il pollice ferito alla bocca e succhia pensosamente. Xabi sa che dovrebbe trovare la scena a dir poco esilarante - sa che dovrebbe chiedergli se per caso non vuole un bacino sulla bua o qualcosa di altrettanto stupido e mostruosamente divertente, - sa che dovrebbe tirar fuori il cellulare e fare un video e mandarlo a Sergio e tutta la squadra, a tutto il mondo, seduta stante, ma è troppo preoccupato, no, terrorizzato.
"Cosa vuoi fare?" chiede, infine, José, e per un secondo intero Xabi ride, un po' confuso e un po' spaventato.
"Cosa voglio fare?" ripete, con tutta la calma e la compostezza di questo mondo, e se non fosse Xabi Alonso probabilmente sarebbe nel bel mezzo di una crisi di nervi. E forse questa affabile serenità è proprio il modo in cui Xabi Alonso soccombe all'isteria. "José, ho visto la tua conferenza stampa neppure due ore fa. Non... non ho avuto neanche lontanamente modo di pensarci."
José sbuffa, indispettito e sarcastico e Xabi vorrebbe chiedergli cosa ci trova di tanto assurdo e fastidioso - non si può pretendere che un uomo decida così su due piedi una cosa del genere (cambiare Paese, cambiare casa, cambiare vita, tornaredaStevenGerrard e questo è un pensiero che attraversa in un lampo la mente di Xabi e lui non si concede di crogiolarcisi, anzi si affretta a spazzarlo sotto un tappeto qualunque sul retro del suo cervello). Non ha bisogno neppure di aprire la bocca, però, perché José è sempre lì pronto a sciorinare al prossimo la sua sacrosanta opinione:
"Non essere assurdo, Xabi," pontifica. "Non devi scegliere una pizza o un vestito - lì, te lo concedo, è meglio riflettere con calma," dice, e la cosa peggiore è che è perfettamente serio, e Xabi, adesso sì, ride di cuore.
"Ma ti ascolti, quando parli?" dice, e José si acciglia ma lo lascia continuare: "Mi piace la mia vita a Madrid, José. Non posso decidere da un minuto all'altro di buttare nel cesso tutto quello che ho e seguirti a Liverpool. Dio, non posso credere che tu sia serio. Ci sono... cose su cui devo riflettere, a lungo, e devo parlarne con Nagore, non è una cosa che posso decidere in trenta secondi."
"E invece dovresti," sbuffa José, per tutta risposta. "Possibilmente anche meno," dice, e Xabi quasi ride di nuovo, ma l'occhiataccia che José gli riserva basta a farlo desistere. "Quando sei in mezzo al campo," comincia, e il suo tono è sereno, annoiato, come se stesse parlando della cosa più ovvia del mondo, mentre Xabi vorrebbe soltanto morire, ed è snervante, spaventoso, incredibile, "non ci metti duecento anni a decidere se passare a Cristiano o Ricky. Non hai cose su cui riflettere a lungo, non stai lì a consultare Nagore per ogni passo, eppure, correggimi se sbaglio, dalle cose che fai in campo, dalle decisioni che prendi in campo dipendono cose importanti. Dai tuoi passaggi dipendono trofei, soldi, valanghe di soldi, e tutte le speranze dei tifosi. Ma non stai lì a pensarci per ore, Xabi. Ti bastano trenta secondi, anche meno."
Xabi si preme i palmi delle mani sugli occhi, la nuca poggiata al muro, e scuote pianissimo la testa. Non vuole ascoltare, non vuole, non. Vorrebbe solo che (José, il fantasma di Liverpool e quel rosso, il ricordo vivido e doloroso di Anfield in piedi a cantare il suo nome, il ricordo di Stevie) smettessero di tormentarlo.
"Ci vieni a Liverpool con me, Xabi?" chiede José, e Xabi trattiene il fiato.
Vorrebbe dirgli che non è un gioco - è la sua cazzo di vita, e José è un uomo improponibile, se davvero riduce tutto al calcio. Nella vita reale - nel mondo reale - non ci si affida a quella sensazione di stomaco che in mezzo al campo ti circonda di luci gialle al neon la traiettoria per il passaggio perfetto, quello che porterà la palla in rete. Dio, sarebbe un sogno se sul serio potesse funzionare così, ma non funziona così, e Xabi -
(Uno, due, tre, quattro)
- Xabi è sempre stato quello razionale, quello intelligente, quello che le cose le sa, e adesso, adesso Xabi lo sa fin troppo bene che, no, non può permettersi di dar retta al suo cuore che fa le capriole al pensiero di tornare a Liverpool -
(cinque, sei, sette, otto)
- e tantomeno non è il caso di fidarsi di questo pazzo d'un portoghese, -
(nove, dieci, undici)
- che, dipendesse da lui, segnerebbe il centro dell'universo sulla punta del proprio naso. No, no, Xabi è un uomo maturo e responsabile e ha una famiglia cui pensare, i bambini sono piccoli, non può decidere di levare le tende e portarli in Inghilterra solo in base a ciò che vuole e non vuole, -
(dodici, tredici, quattordici)
- José e il suo delirio non l'avranno vinta.
(quindici)
Anche se.
(sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti, ventuno)
Anche se magari crescere in Inghilterra potrebbe essere un vantaggio, per Ane e Jon. E l'appartamento che avevano a Liverpool - per il quale Xabi non ha mai smesso di pagare l'affitto e le bollette e le tasse e tutto - è grande quasi due volte la casa che hanno a Madrid, e d'altra parte Nagore adorava il tramonto sulla Mersey -
(ventidue.)
"Va bene," bisbiglia Xabi, e squarciando il silenzio dello stadio (persino José tratteneva il fiato) gli sembra di aver tirato giù una valanga. "Va bene, ci vengo."

*

Nagore si arrabbia. Jon ed Ane sono dalla nonna e Nagore si arrabbia così tanto che appena Xabi s'è chiuso la porta di casa alle spalle lo aggredisce con uno schiaffo e un'occhiata ferita. Lui si blocca sull'uscio, sorpreso, ma neanche tanto, perché sa di portare scritta in faccia la risposta che ha dato a José. Sospira, stanco come un Atlante.
"Nagore," dice, e lei si irrigidisce.
"Xabi," replica, fredda come ghiaccio, come una donna tradita. "Andiamo in cucina."
Xabi pensa distrattamente al nuovo set di coltelli che fa bella mostra di sé in mezzo al tavolo, e forse Nagore vuole sul serio ammazzarlo e farlo a pezzi; non trova da nessuna parte, dentro di sé, né la forza né un motivo per biasimarla.
Ma Nagore non ha intenzioni violente, non nel senso omicida del termine: si limita a sospirare e siede a capotavola - è il posto che occupa di solito, perché nella loro famiglia non c'è spazio per le formalità e non importa se è mamma a sedere al posto d'onore mentre papà lava i piatti e scalda il latte per Ane, - facendo cenno a Xabi di sistemarsi dove meglio crede.
Lui opta per il ripiano di marmo accanto al frigorifero, a distanza di sicurezza dai coltelli, e vi appoggia i fianchi e le mani. Non sa cosa dire. Lascia vagare lo sguardo per la cucina, cercando ispirazione e le parole che sembrano non volerlo raggiungere.
"Perlomeno dimmi che ti dispiace," mormora Nagore, la voce un po' arrochita che pianta pelle d'oca lungo il collo di Xabi. "Dimmi che hai pensato a noi, ai bambini, a me, dimmi che ci hai pensato e che sai che ci ferirai tutti. Dimmi almeno che ti dispiace."
"Nagore, naturalmente ci ho pensato," replica Xabi, sorpreso, e una parte di lui scalpita, oltraggiata, ma lascia correre. Fa un passo in avanti e si inginocchia davanti a Nagore, le prende le mani, cerca i suoi occhi e prega che lei capisca (capisce sempre, Nagore, perché non dovrebbe, stavolta?). "Sai che ci ho pensato. Sai che siete il mio primo pensiero, sempre - tu, Jon, Ane. La nostra famiglia è importante, lo sai. Non voglio che ne dubiti."
"Allora perché lasciare Madrid? Perché? Siamo felici, qui, tu sei felice, ci sono tutti i tuoi amici - la tua famiglia è qui in Spagna, è il tuo Paese e io- Xabi, io non capisco." Le trema la voce, stringe forte le dita di Xabi tra le proprie e lui, ora, è ufficialmente in crisi.
Come glielo spiega, a Nagore, che, per tutto il tempo che ha passato a Madrid - Madrid bellissima col suo cielo terso e il caldo e mai abbastanza pioggia, mai abbastanza ombrelli, - per tutto il tempo che ha scarrozzato in giro il bianco abbagliante della sua maglia, lui, Xabi, stava soltanto aspettando Liverpool? Aspettava di sentire la chiamata di Anfield, aspettava di vedere la squadra comparirgli sulla porta di casa, Jamie con quel sorriso troppo invadente e Nando di nuovo annegato tra le lentiggini e aspettava che Pepe gli battesse una mano sulla spalla, aspettava che gli dicesse "Basta con le cazzate, è ora di tornare a casa". Aspettava che Stevie.
Aspettava.
Per tutto il tempo - tre anni splendidi, tre anni di successi e risate e trofei (campionicampionicampioni del Mondo) e vittorie e tutto sommato tre anni perfetti, - ogni cosa non è stata che una quieta, quietissima presa in giro, perché Xabi aspettava soltanto che il sogno finisse, aspettava soltanto di svegliarsi a Liverpool.
Aspettava che qualcuno (Stevie) gli desse uno schiaffo e gli dicesse che non era più ora di lasciarsi piovere addosso, impermeabile, assorto nell'attesa. Aspettava che (Stevie) un salvagente venisse a strapparlo dal gorgo di apatia che ha cominciato ad inghiottirlo mentre firmava la sua condanna (all'esilio) a Madrid; sarebbe andato bene anche solo un ombrello, magari non fedifrago e traditore come quello che l'ha portato via dall'Inghilterra, quando credeva che Liverpool non avesse più posto per lui.
E adesso. Come glielo spiega, a Nagore, che tutto quello che ha atteso e sperato negli ultimi tre anni ora è vero, ora è possibile, e che lui vuole - vuolevuolevuolevuole terribilmente - andarsene a Liverpool?
Con che coraggio le chiederà di seguirlo? Con quali parole?
Xabi sospira, si guarda i piedi e tace. Aspetta.
Nagore lo guarda. Lo conosce troppo bene per non capire. Lo conosce troppo bene per aver bisogno di sentirlo parlare. Le bastano trenta secondi (forse anche meno), e poi, purtroppo per lei, purtroppo (per fortuna) per Xabi, eccola, capisce. Trattiene bruscamente il fiato, una lacrima le rotola giù lungo la guancia, precipita sulle sue mani ancora strette a quelle di Xabi, ma la sua voce è incredibilmente ferma quando dice:
"Non è abbastanza." Non è una domanda, non c'è nulla da chiedere. "Noi non siamo abbastanza."
Ed è senz'altro un'ottima maniera di riassumere la situazione - talmente ottima che Xabi dovrebbe alzarsi in piedi e farle un applauso. Peccato che abbia a stento la forza di guardarla, e non riesca quasi a sopportare di vedere nei suoi occhi nessuna incertezza, nessun dubbio e neppure rabbia, ma solo una quieta tristezza.
"Mi dispiace," è l'unica cosa che gli riesca di dire, in un sussurro debolissimo contro le nocche magre di Nagore. Lei annuisce piano, chiude gli occhi, preme le labbra tra i suoi capelli in un bacio materno che Xabi sente bruciare.
"Dispiace anche a me," bisbiglia Nagore, e per un attimo trema. "Dispiace anche a me, Xabi."

seconda parte

rpf calcio: steven gerrard, rpf calcio: nagore aranburu, » challenge: bigbangitalia, } 2010, rpf calcio: zlatan ibrahimovic, rpf calcio, › ita, rpf calcio: inaki ibanez, rpf calcio: josé mourinho, rpf calcio: xabi alonso

Previous post Next post
Up