[RPF] È tutto scritto, ed è qui dentro

Nov 25, 2010 23:12

Titolo: È tutto scritto, ed è qui dentro (Tu che cosa vedi?)
Fandom: RPF Real Madrid/Liverpool FC
Personaggi/Pairing: Steven Gerrard/Xabi Alonso, OFC
Rating: PG14
Conteggio Parole: 2099 (OOo)
Prompt: Anniversario @ bingo_italia  [ cartellina]
Avvertimenti: slash, invenzioni, amore
Note: Il titolo è rubato a Ligabue (~ Atto di fede).
- Buon compleanno, Xabs!!! \O/
- Questa cosetta, se permettete, vorrei dedicarla alla sanzina89 ♥ Ti voglio bene, sei bella come solo una cosa particolarmente bella e ti meriti un sacco di fluff su questi due *ride* *abbraccia*
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; a parte i nomi e gli infortuni vari, è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo. Tutto questo è successo, lo so che è successo!!!


~ È tutto scritto, ed è qui dentro.
(Tu che cosa vedi?)

Stevie deglutisce così forte che riesce a sentirsi. Le mani strette attorno ad una tazza di tè troppo calda, gli occhi pizzicati dal fumo che insiste a salire, Stevie è tanto stanco da non vergognarsi neppure di essere Steven Gerrard, Captain Fantastic, nascosto, nel pieno di novembre, sul fondo di un bar un po’ troppo luminoso e un po’ troppo colorato nel cuore di Madrid. Tanto stanco da non riuscire a concentrarsi neppure sulla carta da parati a righe, neppure sulla cameriera che continua a passare vicinissima al suo tavolo e lanciargli occhiate curiose; non riesce a concentrarsi neppure su Xabi, neppure quando gli tocca una spalla prima di comparire nel suo campo visivo: Stevie alza debolmente gli occhi, lo guarda, non sa più come metterlo a fuoco per bene.
Xabi scosta una sedia, esitando appena, e non sceglie quella accanto a lui, come l’etichetta di un informale incontro tra uomini impone, ma quella di fronte. Il tavolo è piccolo e Stevie è un po’ troppo curvato in avanti, perciò sente il profumo del dopobarba di Xabi e il suo respiro caldo sul viso quando si china per sedersi, e d’improvviso ripiomba nel proprio corpo, ripiomba nelle sue ossa: guarda Xabi e lo vede perfettamente, la curva del naso e l’angolo forte della mandibola, gli occhi scuri, le guance sbarbate arrossate dal vento. È Xabi. Preoccupato, imbarazzato, composto e dritto sulla sedia, è Xabi. A Stevie sfugge un sorriso.
“Sei venuto,” dice, pianissimo, quasi non ci credesse, e vede Xabi - le sue labbra piene, gli occhi d’ambra, le ciglia lunghissime - accigliarsi, stupito.
“Abito in fondo alla strada,” replica; vorrebbe aggiungere, sei tu quello fuori posto, sei tu quello che non dovrebbe essere qui. Non dice altro, però, perché sa che Stevie capirà - si dannerà l’anima - comunque. Il suo inglese è giusto un po’ appesantito dall’ombra dello spagnolo - dall’ombra del disuso, pensa Stevie, e stringe più forte le dita attorno alla tazza di tè, la sente bruciargli la pelle ed è un dolore buono. Per un attimo perde le forze di nuovo, quasi ripiega la testa fino a toccarsi il petto col mento, e non sa perché - forse perché è passato un tempo che gli sembra infinito, dall’ultima volta che le sue ginocchia hanno incontrato quelle di Xabi sotto il tavolino di un bar, e altrettanto ne passerà prima della prossima, e questo è un pensiero che ferisce persino uno come lui; forse perché non è sicuro che Xabi voglia essere qui, forse perché non è sicuro che, se avesse scelto un bar due quartieri più in là, Xabi sarebbe venuto, e questo è un pensiero che, honest to God, Stevie non sa neppure da dove cominciare ad affrontare.
Xabi si allarma subito, però. Si sporge un pochino sul tavolo, tocca una mano di Stevie con la sua, grande e fredda, finché Stevie non lascia la presa attorno alla tazza e lascia che le dita di Xabi, invadenti, si stringano troppo forte attorno alle sue. Guarda l’intreccio delle loro mani, bianche come neve per il freddo di Madrid contro il legno scuro del tavolo, e pensa che non ha mai visto niente di più bello, neppure il sorriso incerto di Xabi al mattino, neppure il cielo su Anfield tinto di rosso.
Stevie sente il peso delle ossa di Xabi contro il palmo, e i piccoli calli sparsi dappertutto sulla sua pelle, sente il modo in cui il suo pollice gli accarezza in piccoli cerchi la base del polso, dove sporgono le vene e il battito cardiaco, e ancora si chiede come riescano ad esistere, così lontani, quando solo toccarsi così basta a cancellare tutto il male, basta ad aggiustare qualsiasi cosa.
“Come stai?” chiede Xabi, piano, e il movimento delle sue labbra, del suo respiro, soffia il fumo del tè contro il viso di Stevie, nelle sue narici, e lui è avvolto da una vertigine di zucchero e bergamotto e dall’odore di Xabi, dalla mano di Xabi che si è spostata lievemente più su e sembra si sia stretta tutta attorno a lui, non solo al suo polso, non solo attorno alle sue povere dita. Stevie lo guarda e non vede nient’altro che amore, e gli sembra di impazzire. “Mi dispiace per l’infortunio.” Non c’era bisogno di dirlo, naturalmente, ma Xabi l’ha detto comunque, perché voleva, e Stevie sente il cuore battere un po’ più forte.
“Grazie,” gracchia, piegando di nuovo lo sguardo sul tè scuro, sulla tazza bianca. Xabi resta in attesa, Stevie sente la sua tensione, quasi sente i suoi pensieri attraverso la pelle premuta contro la sua. Sbuffa, dal nulla, e sorride a Xabi, onestamente. “Scusa,” dice, “non so che mi prende, oggi.” Non sono mai stato così insopportabilmente melenso, intende dire, e mi dispiace che tu debba vedermi così; Xabi sembra ferito dalle cose che Stevie non dice - non dal fatto che non le abbia dette, perché lo sa che Xabi comunque capisce, - e Stevie non lo ha mai amato così tanto, probabilmente. (Non è vero.)
La cameriera compare accanto al tavolo, cinguetta svenevole qualcosa in spagnolo che Stevie non capisce, e Xabi è svelto a sfilare la mano dal suo nido attorno al polso di Stevie, è svelto a sorriderle educatamente, è svelto a picchiettare un piede contro quello di Stevie, quasi in un gesto di scuse.
“Il solito tè, Maria, grazie,” dice, e lei annuisce brevemente prima di correre via, stringendosi al petto il vassoio di legno, le guance in fiamme per l’imbarazzo e gli occhi di Stevie piantati sulla schiena.
“Le piaci,” osserva, quando la vede sparire oltre il bancone. Si volta a guardare Xabi e trova un sorriso indulgente sul suo viso, - Ti amo, pensa; risponde con una smorfia. “Le piaci davvero.”
“Sono Xabi Alonso,” soffia Xabi, pianissimo, e lo guarda da sotto in su e Stevie, senza pensare, si solleva dalla sedia e, da sopra il tavolo, da sopra il tè, lo bacia, perché vuole, perché stava per soffocare. Le labbra di Xabi sono appena appena tiepide, come sempre d’inverno, e vengono incontro alle sue subito, come sempre, come ad Istanbul; Stevie non vorrebbe più separarsi da lui, ma ha imparato a costringersi a farlo, perciò si ritrae con giusto un attimo di ritardo. Vede Xabi mordersi le labbra, leccarle con la punta della lingua come a cercare ancora un po’ di Stevie. Sorride, e solo quando si risiede si accorge che le dita di Xabi sono di nuovo strette attorno al suo polso.
Maria torna col tè di Xabi, in una tazza identica a quella di Stevie, ma meno fumante e più profumata, e loro due si scambiano un sorriso complice mentre lei appoggia sul tavolo anche un piattino di biscotti.
“Offre la casa,” balbetta, avvampando, e Xabi le fa un sorriso che, in realtà, scioglie cose anche sul fondo dello stomaco di Stevie. Ti amo, pensano entrambi, Stevie e Maria, ma Xabi sente solo quello di lei, e scuote piano la testa quando la guarda allontanarsi a passi incerti nel locale vuoto.
“Xabi,” lo chiama Stevie, pianissimo, e Xabi lo guarda e lo vede accennare alle loro mani ancora strette assieme, e Xabi si stringe nelle spalle. Ha le orecchie un po’ rosse.
“Mi hai appena baciato,” borbotta, girando la tazza con due dita fino a portare il manico sulla sinistra. Beve un sorso, e i suoi occhi si fanno più caldi, come quando ricorda qualcosa. “Non smetteranno mai di mancarmi, le teiere,” dice, con un sorriso timido sulle labbra, posando la tazza.
Stevie prende un biscotto, lo addenta, mastica pensosamente, e sorride.
“Le teiere, eh?” dice, con un sorriso furbo, e Xabi arrossisce e sotto il tavolo gli dà una ginocchiata talmente lieve che Stevie quasi non la sente.
“Di certo non quel prepotente del capitano del Liverpool,” gli dice Xabi, orgogliosamente, e Stevie ride piano, ficcandosi in bocca quel che resta del biscotto e prendendo un sorso di tè - è ancora troppo caldo, gli brucia la punta della lingua, è buono. Xabi sospira. “Stevie,” mormora, serio, e Stevie vorrebbe guardarlo, ma, siccome lo stava già guardando da prima, può solo guardarlo più forte, aspettando di sentirlo continuare, aspettando di sentirsi dare del matto.
Xabi, però, non dice più nulla. Beve un po’ di tè, si perde a seguire il movimento delle proprie dita sul dorso della mano di Stevie, e Stevie non riesce a capire cosa stia pensando, ora, miracolosamente, perciò sospira e si chiede, che gli dico? Si chiede, che faccio? Prega di non fare, almeno stavolta, la scelta sbagliata.
“Buon compleanno,” dice, alla fine, e dal modo in cui gli occhi di Xabi scattano in su a cercare i suoi deduce che forse è la cosa giusta da dire. Sorride. “Sono felice di essere venuto a dirtelo.”
Xabi lo guarda come se fosse un alieno - lo guarda come se gli fosse appena cresciuta una seconda testa e quella seconda testa avesse la faccia di Lampard. Lo guarda come se davvero non riuscisse a capire, e Stevie si chiede vagamente cosa ci sia da capire, e poi perché Xabi non riesce a capire, e comincia a salirgli un mal di testa infernale per via di tutti i perché e i capire e gli occhi di Xabi che sono belli da morire.
“Io- Stevie, ma che dici?” sillaba Xabi, a fatica, e Stevie piega un po’ la testa da un lato, perplesso.
“Buon compleanno,” ripete. “È il tuo compleanno, no?”
“Io- sì, certo, è il mio compleanno, ma-” Xabi sembra colpito, no, fracassato, come da qualcosa di terribilmente assurdo e terribilmente inspiegabile. La presa delle sue dita attorno al polso di Stevie si fa più salda, come ad assicurarsi che sia vero, che sia lì, che sia. “Stevie,” soffia, gli occhi chiusi in un’espressione concentrata che si scioglie lentissimamente in un sorriso in cui Stevie, semplicemente, ritrova la ragione dell’esistenza del mondo e del cioccolato. “Sei venuto fin qui per il mio compleanno,” dice, e non è neppure una domanda, perché sarebbe ovvio anche per il più scemo degli scemi che la risposta è sì, Stevie è venuto fino a Madrid per il compleanno di Xabi, e per che altra ragione, poi, avrebbe dovuto?
Xabi ride, un po’ istericamente, e poi solleva su Stevie quei suoi occhi enormi e scuri e Stevie rabbrividisce nel vederli appena un po’ lucidi di lacrime - di punto in bianco vorrebbe essere stanco di nuovo, senza più sangue di nuovo, per non dover mettere a fuoco la tristezza infinita e dolcissima che legge in quelle due polle ambrate.
“Quando ho visto il messaggio,” bisbiglia Xabi, timido, imbarazzato, forse un po’ arrabbiato con se stesso, chissà perché, si chiede Stevie, sei così bello e perfetto, chissà come fai ad arrabbiarti con te. “Ho pensato- non lo so, che volessi- non lo so. Non ho minimamente pensato che volessi- mi sono spaventato, per la verità. Non so neppure io perché.” Fa un sorriso, ancora. “Grazie.”
Stevie china il capo, con modestia, e sogghigna, contento, spavaldo. Solleva la tazza con la mano libera, guarda Xabi dritto negli occhi.
“Auguri,” dice, e suggerisce l’idea di un brindisi sventolando la tazza avanti e indietro per aria. Xabi ride, scuote il capo, il battito accelerato del suo cuore rivela a Stevie che sta pensando ‘grazie’ e ‘che idiozia’, ma stringe anche lui le dita attorno alla tazza e la solleva, picchiettandola con attenzione contro quella di Stevie.
Bevono in silenzio, Xabi con la compostezza che lo caratterizza e Stevie come se stesse scolando una bottiglia di scotch; gli sorride, strizzando piano la sua mano nella propria, e Xabi, arrossendo dietro la tazza, chiude gli occhi e annuisce.
Maria, dal bancone, li guarda discretamente sorridersi l’un l’altro, e forse intuisce le parole non dette di cui quel tavolo ora trabocca. Forse lo vede, brillare sulle labbra di Stevie, che d’incanto ha smesso di appassire, e forse lo vede tremare negli occhi, sulle guance di Xabi, che è più vecchio di un giorno ma pare abbia perso vent’anni, quando ha messo piede nel bar - forse lo vede, scorrere rosso e come sangue attraverso il contatto delle loro dita intrecciate, quel piccolissimo ‘ti amo’ che, tutto intero, si mangerebbe il mondo, non saprebbe restarsene quieto in poco più che una stanza d’albergo ogni tanto o una telefonata alle tre del mattino, e perciò si nasconde dietro un ‘grazie’, si traveste da ‘buon compleanno’.

rpf calcio: steven gerrard, } 2010, • gift, » challenge: bingo_italia, rpf calcio, › ita, rpf calcio: xabi alonso

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