[RPF] Tu no la ves pero mi alma respira

Feb 11, 2012 22:28

Titolo: Tu no la ves pero mi alma respira (y me gustas chiquillo)
Fandom: RPF Basket
Personaggi/Pairing: Juan Carlos Navarro(/Pau Gasol implied), il Regal
Rating: PG
Conteggio Parole: 2360 (fidipu)
Avvertimenti: fluff, slash
Prompt: Est @ Cow-T 2, come al solito su maridichallenge.
- Qualcosa di freddo @ Kyalendario.
Note: Giovedì il Barcellona è andato a Kaunas per giocare contro lo Zalgiris, nella medesima arena in cui, lo scorso settembre, la Spagna ha vinto l'Eurobasket e Juanca, nelle semifinali, ha tirato fuori una delle migliori performances della sua carriera. Tutto il resto è perlopiù sega mentale mia, ma di vero c'è tutto quello che dico della partita, e il fatto che JC stesso abbia detto, quella sera, che "gli ha fatto piacere tonare in quel palazzetto e vincere di nuovo", prova che, no, non gli è sfuggito il dettaglio XD
- Il titolo (Tu non la vedi, però la mia anima respira, e mi piaci così infantile) è roba di Huecco. ♥
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Tu no la ves pero mi alma respira
(y me gustas chiquillo).

È un po’ strano, il fatto di dover tornare laggiù.
Per un’intera settimana, Juan Carlos si sforza di non pensarci, neanche si sogna di nominare quel Paese lì o quella città e pensa, semplicemente, che andranno a est, e che farà freddo, che deve tirar fuori la sciarpa; si preoccupa di Javtokas, Jankunas e Kalnietis piuttosto che dello Žalgiris, perché Žalgiris ci si chiama anche il palazzetto e lui del palazzetto non vuole sentir parlare. Una mattina che Joe e Wallace si piazzano in ginocchio in un angolo a pregare tutti i santi del Paradiso affinché proteggano gli impianti di riscaldamento lituani, Juan Carlos è sveltissimo a schizzare via dagli spogliatoi prima che a uno dei due venga in mente di nominare l’albergo in cui alloggeranno.
Neanche da bambino, probabilmente, Juan Carlos è mai stato così infantile; neanche quando un arbitro distratto a ficcarsi le dita nel naso non fischia se qualcuno gli infila un gomito tra le costole mentre sta andando a canestro, neanche se il gomito lo infilano tra le costole di Victor o Fran o Pau. È una reazione assurda ed esagerata, non è che non se ne renda conto, ma perlomeno è un problema che rimane confinato nel suo cranio - e Vanessa può sfotterlo quanto vuole, dicendo che i capelli così lunghi gli fanno la testa tre volte più grande, ma non c’entra niente, - e Juan Carlos fa del proprio meglio per evitare che gli altri se ne accorgano, perché anche questo lo aiuta a distrarsi, a non pensare a miriadi di bandiere gialle e verdi e rosse.
E ci riesce persino, eh, a dissimulare il prurito intermittente che morde lo stomaco in un misto di disagio e nostalgia; forse lo aiuta il fatto che versino ancora tutti nel panico per via del suo piede, e gli si agitano attorno per prendersene cura manco fosse una minaccia alla sicurezza nazionale. Quale che sia la ragione, comunque, nessuno fa due più due, - neanche Xavi, e forse è quella la cosa più sorprendente; Juan Carlos sospetta, però, che il coach si sia limitato a non dire nulla per pietà nei suoi confronti, - nessuno fa domande o allusioni strane e Juan Carlos arriva alla vigilia della partenza miracolosamente indenne da qualsiasi trauma.
Non ci avrebbe scommesso neanche venti centesimi, in tutta onestà, e invece.
«Ci vediamo domani in aeroporto,» mormora, sistemandosi il borsone su una spalla. Xavi e Agustí erano chini su chissà che schema di gioco, e sollevano contemporaneamente gli occhi su di lui.
«L’imbarco è alle otto,» dice il coach, accigliandosi un poco.
«Alle sette e mezzo mi trovi lì, coach. E sì che mi ricordo il cappotto,» sorride Juan Carlos, quando Xavi fa per aprire di nuovo la bocca.
«E la sciarpa e i guanti,» ammonisce Agustí, e sta scherzando solo a metà. Juan Carlos ridacchia, li saluta agitando una mano per aria.

*

11:12 pensavo che ci saremmo tornati insieme
11:14 ignorami, sono le due del mattino e sono esausto e dico solo sciocchezze
11:16 mi manchi
11:16 mi manchi.
11:17 posso dirlo la terza volta o sembro troppo disperato?
11:18 mi manchi

*

Marc ha giocato contro Ricky, durante la notte. Dopo cena, Juan Carlos si butta sul divano con una ciotola di popcorn, Elsa accoccolata sotto un braccio e Lucía che si siede appoggiando la schiena ad un bracciolo, piazzandogli i piedi in grembo. Barcellona non sarà la Lituania - a casa sua, con le sue bambine addosso e una fotografia dall’estate del Duemilasei sopra il televisore, Juan Carlos si sente tranquillo abbastanza da riuscire a pensarlo, quel nome, però piano piano, - ma fa freddo comunque, perciò, prima di far partire la replica della partita, Juan Carlos si allunga a frugare sotto la poltrona lì accanto - Elsa si lamenta un po’, perché l’ha disturbata, - e ne tira fuori un piumone tanto ripiegato e compresso che sembra una frittella.
«Vieni qui,» dice a Lucía, dopo un momento, e la bambina subito gattona sul divano fino a sistemarsi più comodamente che può contro un suo fianco; Juan Carlos sorride, le dà un bacio tra i capelli, sprimaccia la coperta e poi la drappeggia addosso a sé e alle proprie figlie, attento a rimboccarla per bene soprattutto dalla parte di Elsa, ché magari così riesce a tenerla ferma per un po’.
Lucía è tutto il giorno che ha su un’espressione pensierosa, e dopo un attimo si decide, finalmente, a vuotare il sacco - Juan Carlos pensava che sarebbe impazzito per la curiosità, davvero.
«Papi, ma in Li... Li... in Lifrufrania--»
«Si dice Lituania,» la corregge subito Elsa, sporgendosi un po’ sopra il petto di Juan Carlos e ficcandogli un gomito nel fianco. Lucía le fa una linguaccia, Elsa replica con una smorfia, Juan Carlos ridacchia e, gentilmente, scompiglia i capelli di entrambe.
«In Lituania,» riprende la più grande, con un’altra occhiataccia alla sorella. «Siccome a settembre era già inverno, adesso è estate?»
Juan Carlos le sorride e basta, per un po’.
«Fa molto più freddo che qui,» risponde, alla fine. «Fa più freddo che dallo zio Ricky, in effetti.»
Le bambine sgranano gli occhi contemporaneamente.
«Ma papi!» esclama Elsa, scandalizzata. «Se è più freddo che dallo zio Ricky, allora è freddissimo! Lo zio Ricky aveva la neve! Perché ci andate? E se ti ammali?»
Juan Carlos ridacchia di nuovo, scuote la testa.
«Ci copriamo bene, non ti preoccupare. Hai visto che la mamma ha tirato fuori il cappotto pesante, no?»
«Sì, però se fa tanto freddo, perché non possono venire loro qui? È meglio per tutti, no?»
«Oppure vi vogliono fare ammalare!» s’intromette Lucía, accorata. «Papi! E se lo fanno apposta per... per sabotarvi?»
Juan Carlos la guarda, colpito - dov’è che le imparano, certe parole, i bambini?
«Si dice satobare,» interviene ancora Elsa, e Lucía si acciglia, imbroncia un pochino le labbra.
«No, credo di no,» dice.
«E invece sì! Satobare!»
«No, amore, stavolta ha ragione la Lucía, si dice sabotare,» mormora Juan Carlos, con un sorriso. Elsa s’immusonisce per un momento, ma non dura tanto, perché papà le dà un bacino sul naso, facendola ridere. «Ma potete stare tranquille, prometto che non ci prenderemo neanche un raffreddore.»
«Ti fai coprire bene dalla mamma, prima di andare?» domanda Lucía, tirandogli la barba e spingendo in fuori il labbro inferiore. Juan Carlos le sorride.
«Le chiederò di coprire bene bene tutti quanti, amore,» dice, intenerito, e questo sembra tranquillizzarla un po’. Juan Carlos, onestamente, non ha più voglia di guardare la partita, - non ha più voglia neanche di alzarsi alle sei, domani, e di partire, o di muoversi anche solo di mezzo millimetro da dov’è, in effetti, - ma lo sa che Elsa ci tiene, perciò si costringe a recuperare il telecomando e premere play.

*

01:04 buonanotte, juanca
01:05 spero di non averti svegliato

*

Victor, giacché è uno coraggioso per natura e, insieme a Juan Carlos, è pure l’unico che in Lituania ci sia già stato recentemente, per cui può rendersi conto se per caso non hanno clamorosamente sbagliato destinazione, è il primo ad affacciarsi dal portellone dell’aereo; tuttavia, come mette fuori la punta del naso - che è l’unica parte visibile del suo corpo, imbacuccato com’è tra cappotto col bavero imbottito e rialzato, sciarpona fatta a maglia spessa tre dita, due cappelli, il paraorecchi e uno scaldacollo, per buona misura, - non fa in tempo a dare neanche mezza occhiata alla pista di atterraggio o al panorama al di là: dà uno strillo poco dignitoso, infatti, e salta dentro di nuovo, correndo ad aggrapparsi drammaticamente al collo di Kosta.
«Io là fuori non ci vado,» dice, la voce un po’ soffocata da tutta quella lana, e, per sottolineare l’irreversibilità della propria decisione, attorciglia le gambe attorno alla vita di Kosta.
Juan Carlos ridacchia, e, come lui, la stragrande maggioranza dei presenti, anche se Erazem, per dirne uno, sta lì tutto curvo perché se tenta di raddrizzare la schiena rischia di sfondare il soffitto dell’aereo.
«Dai, prima o poi dobbiamo scendere,» dice Wallace, ragionevole, e sguscia fuori dal proprio sedile per dirigersi verso l’uscita.
«Oh, prego, vai pure,» mugugna Victor, e s’è infagottato in talmente tanti strati di vestiti che, quando Kosta - arrossendo come un pazzo - gli stringe le mani sulle cosce per reggerlo un po’ meglio, lui a malapena se ne accorge. «Io di sicuro non ti fermo.»
Wallace sogghigna, si calca in testa un cappello arcobaleno sormontato da un enorme pon-pon color panna, e, impavido, fa cenno all’hostess di riaprire il portellone. Marcelinho s’infila agilmente dietro di lui, sistemandosi la sciarpa, e tutto l’aereo trattiene il fiato quando uno spiffero - di aria che, oh, non è aria, no, è ghiaccio e freddo e gelo che finge di esser aria, - li avvisa che il portellone, là in fondo e dietro l’angolo, s’è aperto davvero. Per un momento lunghissimo non succede nulla, e Juan Carlos è proprio lì lì per recuperare le speranze che a febbraio Kaunas sia un posto quasi vivibile, a dispetto della reazione di Victor, quando sentono Wallace bestemmiare a voce alta e tirata, e Marcelinho tentare una risata che si smorza in un colpo di tosse poco promettente.
«Spicciatevi a venire fuori, Cristo, voglio andare in albergo!» strilla Marcelinho, un attimo dopo, e tanto basta a spezzare l’incantesimo; tutti annaspano a recuperare il bagaglio a mano, e poi si mettono in fila, nel corridoio centrale, pronti a procedere verso il martirio. Juan Carlos ha l’accortezza di piazzarsi dietro Boni, che, grosso com’è, dovrebbe riuscire a proteggerlo dal vento, sempre ammesso che di vento ce ne sia.
Tira fuori il cellulare, perché probabilmente è meglio se evita di pensare all’Inferno di ghiaccio che lo attende tra, uh, massimo venti passi; aspetta che si riconnetta alla rete, e non si stupisce quando gli arriva un nuovo messaggio di Pau, no, due, no, no, aspetta, sono tre.

10:13 mi sei già diventato un omino di ghiaccio?
10:13 sai che non trovo più i calzini di lana? Spero ti stiano comodi, capitá
10:13 mi manca vederti con la barba piena di neve

Juan Carlos sorride, si tira giù il cappello per coprirsi le orecchie. I calzini sono comodissimi, gli tengono più caldo di tutto il resto dei vestiti che ha addosso e lui non ha la minima idea di come spiegarlo a Pau.
È assurdo essere di nuovo in Lituania perché sono passati quasi sei mesi e Juan Carlos ancora se le sogna la notte, le strade di Kaunas, il parco pubblico dove Sergio li portava a passeggiare; certe volte gli capita di svegliarsi e per un attimo va nel panico perché non sa dove si trova - perché la sua testa è convinta che avrebbe dovuto trovarsi in quella camera d’albergo e invece è a casa propria, nel proprio letto, e Vanessa non è Pau e non è costretta a stringerglisi addosso perché non c’è spazio sul materasso.
Ma non è solo la Lituania. Sarebbe stato strano anche andare in Giappone, e in Polonia, e in Svezia, così come è sempre strano dover andare ad Atene e, insomma, muoversi a est della Spagna, a est di Barcellona, a est del Palau. A est di casa. Juan Carlos non è uno che si aggrappa tanto irrimediabilmente al passato, gli piace molto di più scornarsi con quello che succederà domani, questo pomeriggio, tra dieci minuti, e grazie al cielo, perché se così non fosse avrebbe smesso d’interessarsi alla vita qualche paio di medaglie fa, e parecchi record più indietro, però poi pretendono di mandarlo in Lituania, a Kaunas, sullo stesso campo e nello stesso albergo - non è riuscito a non scoprirlo, alla fine, - e ci manca solo che sia pure la stessa stanza e, insomma, è un po’ inevitabile che ci ricaschi, no?
Ed è altrettanto inevitabile che non ci voglia ricascare, perché già normalmente è difficile riuscire a tenere tutto diviso - la testa da una parte, il cuore dall’altra, le mani il più lontano possibile e delle ginocchia non parliamone neppure; la divisa blugranata qui e quella rossa in una tasca diversa e ricordarsi che gli alley-oop con Fran sono una cosa del tutto diversa da quelli con Pau, e Ricky, Dio, adesso gli tocca separare anche Ricky dal resto, toglierlo dal Barcellona e conservarlo solo per l’estate, la prossima, per ultima, - e la Lituania è un ricordo ancora nitido e luminoso abbastanza da graffiarlo più del gelo affilato.
Però Cristo e quanto fa freddo.

*

Juan Carlos è ancora un po’ incantato, all’inizio della partita, perché il palazzetto è uguale e irriconoscibile insieme, come il Palau quando ci giocano i ragazzi del calcio a cinque; è ancora un po’ incantato, però poi Xavi lo butta in campo e silenziosamente lo implora di fare qualcosa, di risolvergli ’sto guaio di svantaggio in cui quel canestro smaliziato - che, oh, probabilmente è lo stesso della finale - li ha infilati; Juan Carlos, allora, si impone di smettere di pensare, e non funziona proprio malissimo, eh, ma neanche pienamente bene.
Ne viene fuori al primo tiro, però, ché il pallone schizza all’insù e Juan Carlos se lo sente nelle ossa che entrerà, che ha fatto tutto giusto, traiettoria e rotazione e forza del lancio e parabola e tutto, lo sa, lo sa come sa che non c’è niente che non farebbe per le sue figlie, lo sa come sa che Pau è Pau e che Marc è un cretino senza il minimo pudore, lo sa, e invece il pallone rimbalza sul ferro e scappa via.
L’incantesimo si spezza, allora, e subito Juan Carlos si accorge di un sacco di cose - che il canestro è mostruosamente piccolo e cattivo, stasera, che lo Žalgiris non è la Francia, che stanno perdendo e che non può permettersi di essere un idiota; alla seconda tripla che non entra, Juan Carlos sorride e si rende conto che sente ancora, sulle guance e tra i capelli, le labbra di Pau, e che quei baci glieli ha dati lì e lì e lì, dove s’incrociano le linee sul parquet, al centro del campo, e un po’ più indietro, e, ancora, davanti alla panchina.
Si rende conto che la Lituania è la Lituania, ma il mondo è rotondo, come un pallone, e a est di qui c’è l’America, e ancora più a est la Spagna di nuovo, perciò non c’è niente per cui impazzire, e la tripla successiva s’infila a canestro senza sforzo, come una cosa semplice.

» challenge: kyalendario, rpf basket: juan carlos navarro, } 2012, rpf basket, › ita, » challenge: cow-t 2, rpf basket: pau gasol

Previous post Next post
Up