«
Prima parte Daniele, ogni volta che torna sulla terra ferma dopo anche solo mezza giornata sul mare, si sente sempre stranamente stupido, perché gli manca, proprio d’istinto, avere sotto i piedi qualcosa di vivo, che respira, che lo costringe a controllare ogni singolo movimento che fa, se non vuole finire gambe all’aria sul ponte e farsi ridere addosso dall’intero equipaggio per i prossimi sette secoli. Oggi se la dimentica, quella sensazione, perché sbarca nel porto rumoroso, colorato della Tortuga, e accanto a lui un pirata la cui testa vale una fortuna si stiracchia pigramente, la camicia che gli scivola fuori dai pantaloni e si arriccia svogliatamente sulla sua pancia, scoprendo un fianco rotondo e un tatuaggio, scuro e definito contro la pelle ambrata.
Daniele fissa Marco e sente la bocca un po’ asciutta, ma un momento dopo un ragazzino gli sfreccia davanti, spintonandolo quasi, strillando qualcosa in una lingua che Daniele non riconosce, e lui si distrae, ancora, a guardare il porto.
Non è un porto davvero, quello dell’isola di Tortuga; la città, - case e baracche di non più di tre piani, costruite senza criterio, prostrate dai terremoti e dalle intemperie, tant’è che sono più i puntelli appoggiati ai muri che i muri stessi, e poi una quantità infinita di bancarelle protette da tende coloratissime e popolate di individui loschi, belle donne dalla scollatura vertiginosa, bambini che sorridono furbi e soprattutto mosche, santo cielo, Daniele non ha mai visto tante mosche tutte insieme, - la città si estende dalle pendici del monte fino, praticamente, all’acqua, come una radice incancrenita e ancora tumida di vita. Il chiasso è assordante, una cacofonia di lingue e voci rauche, il canto spensierato e attraente delle puttane, le risate dei ragazzini che alleggeriscono le borse degli ubriachi e Daniele, forse, è un po’ innamorato, perché Tortuga gli ricorda casa, gli ricorda Roma, l’Inferno del mercato in Campo de’ Fiori dove trascinava sua nonna, quand’era ragazzino, tutte le settimane.
«Ti piace,» dice Marco, chiaramente stupito dalla sua stessa osservazione. Daniele lo guarda e si accorge, solo così, di stare sorridendo, un po’ stupidamente. Si affretta a cacciare via l’espressione, si stringe nelle spalle.
«È solo che-- mi è familiare.»
Marco annuisce, sembra che capisca davvero, e poi il suo viso si spezza in quel ghigno sbilenco che a Daniele mozza un po’ il fiato, ma è un buon cristiano, lui, e non è il caso di pensare a certe cose.
«Coraggio, conosco il posto perfetto per trovarti dei vestiti. E poi andiamo a cercare quella sciagurata della mia nave, sperando che non me l’abbiano fatta colare a picco mentre non c’ero.»
*
«Ti odio.»
Marco scoppia a ridere, ma, ehi, non c’è proprio niente da ridere, Daniele è serio come un ritratto del Papa; lo odia, davvero, e lo odia sempre di più ad ogni passo, ad ogni bimbo grande appena per camminare che gli passa accanto, lo guarda e ride.
«Serve a qualcosa, se ti dico che ti dona molto?»
«Va’ all’Inferno,» brontola Daniele, e si stropiccia per l’ennesima volta il colletto pieno di svolazzi della camicia viola di seta che è l’unica cosa grande abbastanza per contenergli le spalle che Marco sia riuscito a rimediargli, in quella bottega muffita che ha avuto il coraggio di chiamare il sarto migliore da qui alla nostra vecchia Roma. La cosa più divertente, peraltro, è che, inequivocabilmente, si tratta di una maledetta camicia da donna, con tutti quei volant e i bottoni a forma di fiore e il modo in cui gli stringe il petto in tutti i punti sbagliati, e Daniele s’immagina già che razza di femmina ci vorrebbe, per riempire una camicia che a lui va appena un po’ stretta, e quasi trema. Si accorge, poi, di un dettaglio, e si ferma, proprio in mezzo alla strada che la sovrabbondanza di bancarelle e mendicanti hanno ridotto a poco più di un vicolo polveroso.
Marco ride di nuovo.
«Sono sincero, Daniele,» dice, e poi si accorge che Daniele non lo sta più seguendo, si ferma, si volta, gli si avvicina di un passo e lo guarda da sotto in su, curioso. «Che succede?»
«È... la prima volta,» mormora Daniele, accarezzandosi distrattamente la nuca, imbarazzzato. «È la prima volta che mando all’Inferno qualcuno.»
Marco subito sgrana gli occhi, e lo guarda con un’espressione che Daniele non sa decidere se sia di pietà o di tenerezza. Nessuna delle due cose lo entusiasma particolarmente, ma Marco è rapido a far passare tutto in secondo piano quando, d’improvviso, Daniele se lo ritrova quasi premuto addosso, vicinissimo, bello come nessun altro è mai stato bello, e il suo odore buono si beve e gli fa dimenticare l’olezzo di alcol da poco prezzo, sudore e sabbia che impregna tutta Tortuga.
«Allora ne sono onorato, mio caro Daniele,» dice Marco, pianissimo, e per un istante Daniele è certo che lo voglia baciare. Marco - Marco Borriello, Marco Il Rosso Borriello, - probabilmente pensa la stessa cosa, perché i suoi occhi precipitano giù, a studiare le labbra di Daniele nascoste e un po’ no dalla barba. Fa un passo indietro, alla fine, e Daniele respira. Sogghigna, Marco, allora, inspiegabilmente, e poi punta un dito verso qualcosa alle spalle di Daniele. «L’abbiamo trovata,» dice.
A Daniele, la Cleopatra di Osvaldo era sembrata grande, perciò la nave di Marco - la Regina Margherita, e mentre gli divorava una pedina dopo l’altra Marco gli ha spiegato che quello è il nome di sua madre, ed è stato più o meno lì che Daniele ha cominciato a disarmare i cannoni con lui, - quasi lo spaventa, per le dimensioni che ha.
«Dovrebbe essere poco più di un vascello,» mormora, la voce che, improvvisamente, gli manca di nuovo, come se l’avessero ripescato proprio ora dal mare. «Dovrebbe essere molto più piccola di così.»
Marco gli si ferma accanto, le mani sui fianchi, e guarda con un sorriso sornione l’enorme galeone che dorme pigro un po’ al largo, troppo grande per trovare posto in mezzo alle altre imbarcazioni attraccate in porto.
«È questo che vi raccontano, alla Marina?» domanda, vagamentre sorpreso, e scoppia a ridere, quando Daniele annuisce. «Forse confondete la mia bambina con la Margherita di mio fratello,» ammicca, e, prima di avviarsi verso una scialuppa ormeggiata in fondo al molo, per incitarlo a seguirlo gli fa una carezza impercettibile sulla base della schiena, che Daniele sente come se fosse forte quanto uno schiaffo. «Sono di buonumore, se vuoi te la faccio vedere da vicino.»
Daniele dovrebbe sottrarsi al suo tocco, al suo sguardo, dovrebbe trascinarsi nella bettola più vicina - ce n’è una proprio lì in fondo, saranno quaranta passi, - e annegare quel che rimane della sua terribilmente vuota e inutile vita in quanto più alcol possibile; dovrebbe essere ripugnato, persino, da Marco e dalla sua razza, considerando che fino ad un attimo fa sbattere pirati sulla forca era il suo mestiere, - anche se dalla Lupa non è mai penzolato nessuno, in effetti, - e non ci riesce, non ci riesce, non ci riesce.
Si avvia lungo il molo, slega gli ormeggi, salta a bordo della barchetta a remi e riesce persino a non arrossire per lo sguardo un pochino troppo invadente, per il sorriso un pochino troppo compiaciuto che Marco neanche si prende la briga di nascondergli.
Daniele non ha mai conosciuto altro che la Marina, in vita sua; fin da bambino sapeva che sarebbe finito stretto in una divisa identica a quella che portava suo padre, ed è quello che ha sempre voluto, con una forza quasi disperata. La Lupa è stata casa sua così tanto a lungo che sarebbe stato semplicemente giusto, se gli avesse fatto pure da tomba.
E poi il mare è venuto a liberarlo.
*
La ciurma della Regina Margherita è l’accozzaglia più casuale di gente che Daniele abbia mai visto, e gli piace tantissimo. Si affannano sul ponte come formiche a caccia di provviste, gli occhi bassi e le espressioni concentrate, ma è talmente chiaro che non hanno combinato niente, nei due giorni d’assenza del capitano, che gli sembra quasi di essere tornato su una nave della Marina. Marco sbuffa, solo vagamente irritato, e si avvia verso il ponte di comando, dando qualche ordine qua e là e fermandosi a chiacchierare, di tanto in tanto. Daniele lo osserva, indietro di mezzo passo, affascinato e un po’ perso.
L’equipaggio è composto quasi esclusivamente da italiani, da quello che gli pare di capire dalle facce e dagli insulti che volano da una parte all’altra del galeone; qualcuno gli sorride, molti non sembrano accorgersi né di lui né di Marco e solo un paio si fanno avanti per presentarsi.
«Bella camicia,» gli dice un ragazzo con degli occhi azzurri incredibili. «Mi piace il colore. Sono Riccardo, io, comunque. Benvenuto? O magari no, capitano? Aiutami?» Riccardo, incerto, si volta a guardare Marco, che si stringe nelle spalle e sogghigna, bastardo. «Vabbè. Riccardo Montolivo, piacere.»
«Daniele De Rossi,» si presenta lui, stringendo con un attimo di ritardo la mano che Riccardo gli offre perché, insomma, non si aspettava un gesto così civile su una nave pirata. Riccardo deve cogliere il suo dubbio, perché sorride.
«Patria e Onore, eh?» dice. «Ero anche io della Marina, prima che-- beh, prima. E questo qui,» butta un braccio attorno alle spalle di un tizio imbronciatissimo che stava attorcigliandosi una cima attorno ad un braccio, attirandoselo contro, «Questo musone qui è Alberto, il Gila. Saluta Daniele, Gila, sii educato, dai. Non farmi fare brutta figura col capitano.»
Gila dà a stento un grugnito, prima di allontanarsi da Riccardo con uno strattone, ma riesce comunque a strappare a Daniele uno sbuffo divertito. Riccardo alza gli occhi al cielo, solleva le mani.
«Può bastare, Ricky,» interviene Marco, una nota appena di fermezza nella voce morbida. «Ci servono quelle rotte, partiamo non appena Mastro Cassetti avrà montato il nuovo fiocco.»
«Agli ordini, capitano,» annuisce Riccardo, scattando un po’ sarcasticamente sull’attenti; sorride a Daniele un’ultima volta, prima di schizzare via e perdersi tra gli altri marinai.
«Il miglior cartografo che ti capiterà mai d’incontrare, Riccardo,» dice Marco, e intanto superano la grande botola quadrata che dà sulla stiva e sulla santa Barbara, e Daniele spia di sotto, ma c’è un reticolo di corde sfilacciate che gl’impedisce di vedere granché. «Quando riesce a rimanere concentrato su quello che fa.»
«Mi sembra un bravo ragazzo,» commenta Daniele, sovrappensiero, e Marco non replica nulla, per cui suppone di avere ragione. Daniele, di punto in bianco, scarta a sinistra, andando ad affacciarsi dal parapetto; il mare gli sembra lontanissimo, distingue appena le onde. «Questa nave è enorme.»
«Ed è anche bellissima,» dice Marco, alle sue spalle.
Daniele si volta, d’istinto segue con gli occhi l’albero maestro, lucido e possente contro il cielo cristallino, e quando arriva a scorgerne la cima sottile, in un lampo di bianco la vela si srotola, grande quanto una nuvola, e subito il vento la gonfia, squassando la nave ancora ormeggiata.
«CASSETTI!» urla Marco, con le ginocchia piegate per opporsi allo scossone, e a lui si uniscono le grida ben più incazzate di tutto il resto della ciurma, e soprattutto di quelli che non sono riusciti a rimanere in piedi.
«Chiedo scusa, capitano!» fa una voce dalla coffa, e in fretta e furia la vela maestra viene ammainata, e la nave smette di oscillare paurosamente.
Daniele, aggrappato al parapetto con entrambe le mani, scoppia a ridere; Marco lo guarda, e lui non sa come dirgli che vorrebbe rimanere per sempre.
«Vieni,» mormora Marco, vagamente imbarazzato dalla palese cretinaggine dei suoi uomini, e si passa una mano tra i capelli. «Penso di avere una camicia della tua taglia, in cabina.»
Daniele lo segue con molto entusiasmo lungo la metà di ponte che manca loro per arrivare alla cabina del capitano; Marco tiene aperta la porta per lui, e a Daniele sfugge uno sbuffo divertito mentre varca la soglia, e poi ammutolisce, perché non è una cabina, la stanza di Marco; piuttosto, è una grotta rimpinzata di tesori.
«Porca miseria,» mugugna Daniele, sgranando gli occhi davanti alla montagna d’oro gettata alla rinfusa su una scrivania di legno scuro.
«Ah, scusa il disordine,» dice Marco, e raccoglie da terra un grosso quaderno foderato di cuoio; lo lancia verso un baule spalancato, e manca clamorosamente il bersaglio.
«Non è il disordine, Marco,» replica lui, ed è vero, seriamente: non gli interessano affatto i dodici miliardi di cose assurde ammassate in tutta la stanza, - un candelabro di bronzo con la forma di una mano scheletrica, un’armatura completa di lancia, elmo e scudo, un’intera arca di Noè di animali di legno grandi quanto un pugno, una botte, mezza dozzina di quadri accatastati contro la parete, un mappamondo argentato, una spada smussata e arruginita, un lampadario di vetro, tre tappeti arrotolati e ammonticchiati sopra una credenza, e tutto questo è quello che Daniele vede con la coda dell’occhio, badando appena ai dettagli, - è, piuttosto, scandalizzato dalla quantità d’oro in forma di monete e gioielli che siede lì placidamente, come se nulla fosse.
Marco la smette di ravanare tra i vestiti appesi in un armadio e segue il suo sguardo, sospira.
«Oh, quello,» agita una mano per aria, poi, e torna a cercare chissà cosa nel suo guardaroba. «Ho diviso le ultime paghe, prima di andarmene.»
Daniele schioda a fatica gli occhi da quel patrimonio e si avvicina al letto, perché è l’unico posto dove gli pare di potersi sedere. C’è una poltrona, in mezzo alle cianfrusaglie, ne riesce a intravedere i piedi, ma non osa mettersi a investigare oltre.
«Come mai ti sei intrufolato sulla nave di Osvaldo?» chiede, perché non è mai stato un gran conversatore. Marco interrompe la sua frenetica ricerca - ha seminato sul pavimento perlomeno dodici pantaloni e quattordici giacche, più vestiti di quanti Daniele ne abbia mai avuti in tutta la sua vita, - e si volta di scatto verso di lui, la fronte corrucciata.
«Non mi sono intrufolato,» dice, quasi fosse un’offesa. «Mi sono regolarmente imbarcato come mozzo, e in tutta onestà, quel cretino di Osvaldo dovrebbe anche ringraziarmi. Ho lavorato più io di tutto il resto della sua ciurma messa assieme.»
Daniele stenta un po’ a crederci, ma gli concede il beneficio del dubbio e fa un sorriso asimmetrico, divertito. Marco lo guarda, scuote la testa, torna a rovistare nel guardaroba. Alla fine, dà un verso di gioia, e ne estrae una bella camicia di cotone, quasi pulita, e un gilet di cuoio marrone. Daniele si acciglia.
«Non sono della mia taglia,» dice, a chiunque basterebbe un’occhiata per rendersene conto.
«Oh, certo che no,» lo blandisce Marco, distrattamente. Si sfila, da una manica della camicia che ha indosso, una pergamena arrotolata stretta, dall’aria preziosa; il cipiglio di Daniele si approfondisce, ma lui non dice nulla.
Marco tentenna per un po’, il documento in mano e gli abiti ripiegati su un braccio; fa mezzo passo verso la scrivania, poi ci ripensa e torna indietro, poi ci ripensa e si riavvicina, poi ci ripensa, e alla fine si risolve a nascondere il rotolo in un cassetto del comodino accanto al letto.
«L’hai rubata ad Osvaldo, quella?» chiede Daniele, sempre in virtù della sua rovinosa incapacità conversazionale; Marco sorride, butta i vestiti puliti sul letto, comincia a sbottonarsi la camicia.
«Naturalmente,» dice, e Daniele annuisce, meccanicamente, senza neppure sentirlo: i due lembi di cotone si spalancano sul petto muscoloso di Marco, abbronzato e bello, come quello di certe statue che un paio di volte si sono trovati a dover caricare sulla Lupa per qualche museo. Daniele non è che intenda fissarlo, ma Marco è lì e la sua pelle pure, increspata da qualche taglio ancora fresco, dal marchio vecchio di una lama, baciata da quel tatuaggio che per metà si nasconde sotto la cintura.
E poi Marco si volta, si sfila la camicia e Daniele trasale, rumorosamente, perché la sua schiena è spaccata da troppe cicatrici per poterle contare, di sbiadite e di nuove, slabbrate e pulite, segni di frustate più e meno in rilievo e per fortuna dura soltanto un attimo, perché subito Marco indossa la camicia pulita e Daniele ricomincia a respirare.
Gli prudono le mani, per la voglia che ha di toccarlo, di abbracciarlo.
Marco si volta, si accorge del suo turbamento e si morde le labbra, accenna un sorriso.
«Non è niente,» dice, senza la minima convinzione. «E comunque, non è carino spiare.»
Daniele avvampa.
«Scusami,» mugugna, distogliendo lo sguardo, e arrossisce ancora un po’ quando sente Marco ridacchiare.
«Tranquillo, tranquillo... se avessi mandato in passerella tutti quelli che hanno buttato un’occhiata dove non dovevano, sarei il capitano di un veliero fantasma,» dice, e poi si ferma un attimo, guarda Daniele, stringe gli occhi. «...chiedo venia.»
Daniele impiega un attimo a capire per cos’è che si sta scusando, e poi c’arriva, ah, giusto, la passerella.
«No,» scuote la testa, sorridendo tra sé. «Non è niente. Non ci avevo pensato affatto, in realtà.»
Marco lo guarda con una punta di sospetto negli occhi, mentre s’infila il gilet. Sorride, alla fine, evidentemente si fida della sua parola, e poi pesca una camicia a caso dall’armadio, gliela tira in testa e stavolta il bersaglio lo acchiappa: l’indumento finisce a drappeggiarsi con precisione millimetrica sulla testa di Daniele.
«Coraggio, marinaio, fammi vedere cos’è che nascondi sotto quella bella camicetta.»
Daniele arrossisce, il viso ancora nascosto dalla camicia, e si alza in piedi; si spoglia e si riveste più in fretta che può, e Marco, tutto allegro e spensierato, se la ride del suo imbarazzo. Va a sedersi dietro la scrivania, quindi, e Daniele è piuttosto sicuro che questo significa che la conversazione è finita, e che può andare via, tornare a terra e alcolizzarsi o morire in una rissa da taverna.
Invece, Marco intreccia le dita davanti al viso e lo guarda negli occhi, con un’intensità che lo fa scattare sull’attenti, persino schioccando tallone contro tallone.
«Cos’è che sai fare, Daniele De Rossi?» chiede Marco, con la sua bocca piena, i capelli scompigliati e il colletto della camicia troppo largo, che lascia intravedere le clavicole magre. Daniele ricorda un gemito, una risata, un altro gemito.
«Ero vicecapitano, sulla Lupa.»
Marco scuote la testa.
«Voglio sapere cos’è che sai fare, Daniele, non cos’è che ti hanno messo a fare.»
Daniele fa un po’ fatica a capire la differenza, ma aggrotta le sopracciglia e ci prova comunque.
«So fare il vicecapitano,» dice; Marco ride, lui sorride, bene così, pensa. «So leggere le carte, ma avete già Riccardo per quello. So lavorare, bene come chiunque altro.» Il sorriso s’arriccia in un ghigno. «Meglio degli uomini di Osvaldo.»
Marco sembra contento di lui.
«Sei anche capace di sopravvivere al mare, a quanto pare,» dice, e si rilassa contro lo schienale della sedia. «Beh, benvenuto a bordo.»
*
Daniele ora è un pirata.
*
Passano otto giorni prima che Daniele riesca a restare sveglio dopo il tramonto; ha scoperto che, per quanto la mancanza della divisa gessata sia una benedizione di Dio, la vita da pirata non è per niente più riposante, o priva di cose da fare. Daniele trascorre il tempo ad essere quello che fatica di più di tutta la ciurma e, anche se è entusiasta da far paura di poter lavorare fino allo sfinimento, gli dispiace di non essere mai sveglio abbastanza, la notte, per andare a godersi un chiaro di luna sul ponte del galeone, che poi è la sua parte preferita della vita per mare.
Si trascina fino alla sua branda come una specie di morto vivente, per i primi otto giorni, appunto, ma ogni sera con un po’ più di energia rispetto alla precedente, e poi, finalmente, dal ponte di comando arriva l’ordine di spegnere le lanterne sul ponte e di tornare sottocoperta, e Daniele alza la testa dalla balaustra che stava martellando, guarda il cielo che diventa di un vellutato blu scuro, e scopre di non essere stanco per niente.
Cena in tutta fretta, senza davvero prestare attenzione alle chiacchiere di Riccardo che, seduto accanto a lui, è una settimana che gli racconta la vita di ogni singolo membro dell’equipaggio, perché deve metterlo in pari, sostiene, e sostiene pure di non essere arrivato neppure a un quarto delle persone, anche se Daniele ha l’impressione che stia parlando dall’alba dei tempi e che neppure si fermi mai per respirare; è forse il primo ad alzarsi dalla tavola, e gli ci vuole una fatica impensabile per attraversare la sala stipata di persone come un treno merci.
S’intrufola in cambusa, poi, e Andrea, il cuoco, che al contrario di Riccardo parla poco, e quindi va d’accordo con tutti, e sorride pure di meno, e quindi va d’accordissimo col Gila, gli preme tra le mani una borraccia intera del rum migliore che hanno, dalla riserva personale del capitano.
«Sicuro di non volerla dividere?» domanda Daniele, e Andrea scuote la testa, accennando vagamente al nugolo di aiutocuochi che gli infestano la cucina, e soprattutto alla quantità di piatti sporchi ammassati un po’ ovunque.
Daniele abbozza un sorriso e scappa via, arrampicandosi su per una scorciatoia per il ponte.
Non si era sbagliato: la notte sulla Regina Margherita è uno spettacolo straordinario. Forse c’entra il silenzio, così insolito su una nave, disturbato appena dal brusio soffocato proveniente da sottocoperta; forse c’entra il fatto che la luna è piena e rotondissima, bassa nel cielo, e questa luce argentata era capace di rendere bella persino la Lupa infestata dagli spagnoli; forse c’entra il rum che Daniele continua a bere come se fosse acqua, perché oramai si è abituato al sapore, alla botta di calore dell’alcol, e ha persino quasi imparato a digerire in fretta lo stordimento - o magari no, magari si sopravvaluta un po’, perché gli ci vuole un secolo e mezzo per accorgersi che qualcuno ha messo fuori la passerella e che, oh, c’è Marco, lì in piedi, proprio sul bordo.
Ma è nudo?
«...Marco?» chiama Daniele, avvicinandosi cauto, non sa neanche perché.
Marco lo sente, si volta verso di lui, lo saluta con un cenno - gli fa l’occhiolino, pure, ma Daniele è troppo lontano per vederlo, - e poi si tuffa.
Daniele rimane come paralizzato, per una frazione di secondo, e pensa di aver immaginato tutto; poi dal mare proviene un rumore diverso, sbagliato, un tonfo e uno schizzo e si precipita a guardare di sotto, sporgendosi dalle balaustre fino alla vita.
«MARCO!» chiama, di nuovo, e non vede niente, niente che si muova, niente, perché la luna non è il sole e il galeone è troppo grande. «MARCO!»
E infine la sente, maledizione, la sente, la risata di Marco, e quando stringe gli occhi riesce finalmente a vederlo, più indietro sul nero screziato d’argento del mare, una macchia scura sul pelo dell’acqua che nuota pigramente lungo il fianco della nave.
Marco raggiunge Daniele e da sotto in su lo guarda, lo saluta.
«Ehilà!» dice, tutto contento, il cretino, il pazzo, lo stronzo. «Da quanto tempo non ci vediamo, hm?»
«Tu sei pazzo!» urla Daniele, per tutta risposta. «Sei pazzo! Ti ha dato di volta il cervello? Potevi morire!»
Marco ride di nuovo.
«Daniele, vecchio mio,» dice, sputacchiando un po’ d’acqua, «Da chiunque mi sarei aspettato di sentirmi dire una cosa del genere, tranne che da te!»
«Io sono stato fortunato, razza di scellerato! E anche tu, grazie a Dio, e,» e niente, Daniele si zittisce perché, di punto in bianco, un sacco di cose acquistano senso - soprattutto, le battute di Riccardo sui fantomatici bagni notturni del capitano, che Daniele ha sempre pensato si riferissero a, cazzo, una sua ossessione per l’igiene, inusuale in un pirata, e invece! E invece! «Oh mio Dio, ma ce l’hai per vizio.»
Marco non si è neanche preso la briga di smettere di ridere.
«Non lo sapevi?» grida, chiaramente compiaciuto. «C’è una ragione se la gente mi chiama il Rosso di Notte!»
«Tu sei pazzo!» ripete Daniele, in caso Marco si fosse distratto. «Torna su, maledizione, prima di congelarti!»
«Oh, no, l’acqua è fantastica! E ti dirò di più; se non fosse completamente indelicato, considerando i tuoi precedenti, ti direi di fare un tuffo anche tu!»
Daniele chiude gli occhi, sospira.
«Non sono abbastanza ubriaco, mi dispiace molto.»
Marco scoppia a ridere, e poi sparisce sotto la superficie dell’acqua. Daniele rimane a guardare, e non è preoccupato, oh, no, è proprio spaventato al punto che potrebbe farsela sotto. Si calma un po’, quando Marco riemerge, e continua a seguire ogni suo minimo movimento finché il pazzo non decide di avere pietà della sua ansia - anche se Daniele dubita che sia per questo, - e comincia ad avvicinarsi piano piano alla murata.
«Ti butto una scala?» domanda Daniele, ma Marco si è già aggrappato alle reti stese sui fianchi della nave e in un batter d’occhio s’è arrampicato fin su, e sta scavalcando la balaustra.
E, sì, comunque, è nudo.
Daniele si volta di scatto verso il ponte, avvampando. Marco rimane lì seduto a cavalcioni del parapetto, con un’espressione confusa, finché non capisce e fa un sorrisino deliziato.
«Daniele,» lo chiama, con la sua voce più densa, e Daniele quel brivido maledetto che gli percorre tutta la schiena proprio non riesce a fermarlo. «Saresti così gentile da fare un passo più in là? Non voglio infradiciarti.»
Daniele boccheggia, lo guarda, se ne pente immediatamente perché Dio santo, Marco è nudo e il suo corpo è magnificamente imperlato di gocce d’acqua e quella maledetta luna ha pensato bene di sistemarsi proprio alle sue spalle, incorniciandolo d’avorio e baciandolo ovunque di riflessi argentati, ma perlomeno si rende conto di essergli d’intralcio, e si sposta.
Marco viene giù con un mezzo balzo molto aggraziato, e come se nulla fosse - anche se, in tutta sincerità, è arrossito anche lui; è solo che essere un pirata, e per di più un capitano pirata, ti costringe ad imparare a nasconderle, certe cose, bene e in fretta, - si avvia verso le scale che portano al ponte di comando, dove ha lasciato i vestiti.
Daniele, di nuovo, trasale e trattiene il respiro a vedere il campo di battaglia della sua schiena, ma non dice nulla.
Marco si riveste con tranquillità, ma gli tremano le dita. Si pettina nervosamente i capelli bagnati, tirandoli all’indietro e poi stropicciandoli e quando torna accanto a Daniele li ha torturati al punto che quelli gli si sono quasi asciugati contro il palmo.
«Rum?» domanda, accennando alla borraccia che Daniele stringe convulsamente, e lui, per un attimo, pensa di mentire, perché non è esattamente autorizzato ad avere quella qualità di rum, però, che diamine. Annuisce, e Marco gli fa cenno di essere un bravo compagno e condividere le sue fortune. Daniele obbedisce, Marco beve un lungo sorso di liquore e poi lo guarda, arricciando la punta del naso.
Daniele sorride.
«È buono, eh?»
«Sì, è buono,» dice Marco, semplicemente, e stringe un po’ gli occhi, ma si accontenta del sorrisino colpevole di Daniele, e decide di lasciar perdere.
Restano a guardare il mare scivolare sotto la Regina Margherita, la notte tutta uguale e nera, blu scuro, grigia attorno a loro, e la luna, grandissima, che si sposta impercettibilmente nel cielo. Dividono il rum in silenzio, ma Daniele non ha bisogno di bere per sentirsi bruciare, gli basta appoggiare le labbra sull’orlo della borraccia, dove Marco ha premuto le sue.
Gli deve la vita, la libertà, e tutto quello che può fare per lui è scrostare molluschi dal ponte della sua nave. È una cosa talmente patetica - talmente tipica della vita di Daniele, - che gli viene da ridere.
«Fa’ ridere anche me,» dice Marco, arricciando all’insù gli angoli delle labbra e dandogli una leggera spinta contro il fianco. Daniele scuote la testa, gli ruba dalle mani la borraccia perché no, non è ancora abbastanza pieno di rum per affrontare l’argomento.
«Non è niente,» mormora, la gola in fiamme per il liquore, il cuore impazzito per le sue labbra sul segno delle labbra di Marco. «Dicevi che hai un fratello?»
Neanche il rum, chiaramente, basta a guarire la sua inettitudine. Marco, comunque, annuisce.
«Due, in realtà. Solo uno fa il pirata, però. Fabio,» dice. Daniele sbatte le palpebre. «Il Fiore?» sogghigna.
«Oh!» Daniele s’illumina, schiocca le dita. Non c’è una gran taglia, sulla testa del Fiore, ma è comunque una taglia. «Sì, mi ricordo. Non si chiama Margherita, la sua nave, però. Era più una cosa come... Vittoria? Vittoria Alata, forse.»
«Ah,» Marco si acciglia, beve un altro sorso di rum, sorride, con un’amarezza che a Daniele incrina il cuore e un paio di costole. «Sono due anni che non lo vedo,» scuote la testa. «E tre che non vedo il vecchio Gigio. Un brindisi a quanto sono un fratello di merda?»
Daniele scuote la testa, si rifiuta di lasciargli la borraccia e giocherella un po’ con la cinghia. Dovrebbe bere ancora, ma si accorge di non averne voglia. Prende un respiro bello profondo, che sa di sale e dell’odore di Marco.
«Avevo una moglie,» dice, pianissimo. Marco si volta verso di lui con un sorriso gentile, gli occhi profondi, scuriti dalla notte.
«Sì, ce l’hai addosso, l’aria da marito tormentato,» mormora, e Daniele, forse per l’alcol o forse per la sua voce, riesce pure a ridere. Aspetta di essersi calmato un po’ e guarda Marco, lo guarda per un sacco di tempo, abbastanza per imparare almeno la linea dritta del suo naso e il colore delle sue labbra.
«Era venuta fino in America per me, sai? E... è morta di febbri malariche... sotto i miei occhi,» continua, sottovoce, con un sorriso che è più una smorfia di dolore a spezzargli il viso. Marco gli si avvicina, impercettibilmente, e poi si avvicina di più. Daniele rivede Tamara, le occhiaie profonde, ridotta ad uno scheletro, poco più di uno spiffero di vita nel petto; si rivede con le ginocchia sbucciate per il troppo pregare, e a cullare Gaia per farla dormire e inventare bugie per giustificare l’assenza della mamma, giurare che fosse lì in cielo, in mezzo agli angeli, a vegliare su di loro. Marco si avvicina ancora. «E poi siamo dovuti ripartire, il giorno stesso. Non ho potuto neanche darle un funerale.»
«Daniele,» Marco gli tocca la nuca, Daniele s’inarca, premendosi quanto più può contro il suo palmo calloso, e Marco sposta la carezza al lato del collo, con il pollice gli sfiora una guancia, gli stropiccia la barba.
«Abbiamo una figlia,» dice lui, e solo il pensiero di Gaia lo fa sorridere un po’. Anche Marco s’illumina, china un po’ il capo, curioso.
«Come si chiama?»
«Gaia. Fa tre anni, il mese prossimo,» e Daniele aveva un suo ritratto, sulla Lupa, dentro la federa del cuscino. Si sente un po’ sprofondare. «Non avevo nessuno cui lasciarla, Marco, non sapevo cosa fare. Tamara non c’era più, e io... Gaia è tutto quello che mi rimane.»
«L’hai portata a bordo,» non è una domanda, ma Daniele annuisce comunque. «Ed è per questo che ti hanno...?»
«È la procedura,» Daniele sorride amaramente, e quando guarda Marco, l’espressione inequivocabilmente arrabbiata e la furia che gli cresce sul fondo degli occhi, si sente in dovere di aggiungere almeno un po’ di dettagli. «Il mio capitano non l’avrebbe mai fatto, se fosse stato per lui,» e questo già sembra calmare un po’ Marco. «Ma lungo la rotta abbiamo incontrato un ammiraglio spagnolo in difficoltà, e siccome andava anche lui a Buenos Aires, abbiamo pensato bene di prendercelo a bordo, assieme a tutto l’equipaggio... e per ringraziarci, quelli si sono messi a dettar legge. Francesco è riuscito a strappare all’ammiraglio il permesso di portare Gaia in un orfanotrofio, appena sbarcati in Argentina, e ha provato a intercedere anche per me, ma a quel punto non m’interessava di nulla, purché di lei si prendessero cura.»
Daniele allunga le braccia oltre il parapetto, lasciando le mani a penzolare nel vuoto; Marco smette di accarezzargli il viso, ma in compenso gli si avvicina tanto da premerglisi addosso per tutto il fianco, per cui, insomma, tanto di guadagnato.
«Se prima avevo qualche dubbio, Dani, adesso lo so con certezza che sei un coglione,» sorride Marco, con una tale dolcezza che Daniele non può non sorridere a propria volta. «Da capitano, sono orgoglioso di averti a bordo.»
«Amen,» scherza Daniele, e brindano con un altro sorso di rum.
«Sai che ti dico?» riprende Marco, dopo un po’ che sono rimasti in silenzio, solo ad ascoltarsi respirare a ritmo con la marea. «Ho sempre voluto vedere l’Argentina. Ad essere sinceri, ho sempre voluto vedere le miniere d’oro dell’Argentina. E poi,» sorride, sogguardando Daniele e i suoi occhi scintillano, Dio santo, è bello. «A voler essere forse un po’ troppo sinceri, ho sempre voluto vedere le navi dei mercanti d’oro dell’Argentina. Vederle da dentro, mi capisci? Con i mercanti possibilmente morti o in catene.»
Daniele sorride ma corruga la fronte, perché sta capendo, e forse non vuole capire.
«Non ti seguo,» dice, e il fianco rotondo di Marco s’incastra perfettamente contro il suo.
«Non puoi,» replica il capitano, sgranando un po’ gli occhi. «Sei sulla mia nave, certo che mi segui.» Daniele ride, Marco si morde la punta della lingua e sorride. «Allora è deciso,» continua, serio, serio, serio, bellissimo. «Facciamo rotta per Buenos Aires.»
E vorrebbe brindare, ma Daniele non può permetterglielo.
«Marco, no,» dice, raddrizzandosi di colpo, le labbra tese in una linea sottile. «Non posso chiederti tanto, di-- di arrivare fino a Buenos Aires, per ritrovare mia figlia.»
Marco si acciglia.
«Chi ha parlato di figlie da ritrovare?» chiede, e sorride quando Daniele sbuffa, esasperato. «E non sbuffare, è una domanda seria.»
«Marco--»
«No, non con quel tono, signorino,» lo prende in giro, agitandogli un indice davanti alla faccia. Daniele non ha mai avuto tanta voglia di baciare una persona e al tempo stesso sbattere la testa contro uno spigolo. «Interessi esclusivamente economici, pirateschi e di conseguenza meschini attireranno questo splendido veliero fino in Argentina, e chiunque voglia sostenere il contrario è chiaramente uno sciocco, o un pazzo, o entrambe le cose.»
Daniele annaspa alla ricerca di qualcosa da replicare, un’obiezione che stia in piedi e gli permetta di convincere Marco che è una pazzia, maledizione, è semplicemente troppo e lui non ha fatto niente per meritarselo, niente, assolutamente niente; non gli riesce di trovare una scusa che sia una, tuttavia, e d’altra parte non ha di fronte un ufficiale un po’ tordo, ma il Rosso, terrore dei sette mari e dei quattro punti cardinali, non ha speranze di spuntarla.
Si arrende, quindi, e si odia per questo, ma non può fare altro. Il fatto che Marco gli sorrida, raggiante, e che per un attimo allunghi una mano e gliela stringa attorno ad un polso un pochino lo aiuta.
«Io... ti ringrazio,» mormora, sconfitto. È solo l’inizio, la prima di un oceano di cose che vorrebbe dire, ma Riccardo non è ancora riuscito ad attaccargli la sua parlantina sciolta, per cui Daniele, di nuovo, si deve accontentare di un risultato più o meno mediocre.
Marco ridacchia.
«Ringraziami quando l’avremo ritrovata,» dice, e poi si acciglia. «Quando avremo saccheggiato le navi dei mercanti d’oro dell’Argentina, voglio dire.»
Daniele ride, si gratta la nuca, si guarda attorno, prende fiato.
«Non solo per quello,» ammette, alla fine. «Io... Marco, ti devo tutto, e non ti avevo ancora nemmeno ringraziato.»
«Non dire sciocchezze,» brontola Marco, e sembra quasi che sia imbarazzato, sembra quasi che sia arrossito, e Daniele si sente elettrico come un temporale, solo a guardarlo.
«Non è una sciocchezza,» insiste, prendendolo per le spalle perché vorrebbe stringergli il viso tra le mani ma non ne ha il coraggio. «Mi hai salvato, dal mare e da Osvaldo. Mi hai ridato una vita, Marco, prendendomi a bordo, Dio santo, mi hai addirittura vestito, e adesso vuoi portarmi in Argentina e-- io non ho idea di come fare a sdebitarmi, probabilmente non posso e basta, però grazie, grazie. Grazie.»
Marco non riesce a tenergli gli occhi addosso, preferisce distrarsi a seguire una cima che svolazza attorno al fusto dell’albero maestro. Sospira, comunque, alla fine, e Daniele è certo che lo stesse ascoltando.
«Dani,» bisbiglia, e lascia ciondolare la testa sul petto per un attimo, e alla fine lo guarda, da sotto le ciglia. «Penso che tu ti sia sdebitato più che a sufficienza. Non ho mai visto questo ponte così pulito.»
Daniele ridacchia, si china un po’, abbastanza per sfiorare appena la fronte di Marco con la propria.
«Però hai capito che intendo?» chiede, perché è importante, è fondamentale che Marco capisca.
«Ho capito,» mormora lui, e Daniele gli crede. Pure se è un pirata, un capitano pirata, con una taglia vertiginosa sulla testa e le labbra piene, gli occhi quasi neri così nel buio, Daniele gli crede.
And Jesus was a sailor
when he walked upon the water,
and he spent a long time watching
from his lonely wooden tower,
and when he knew for certain
only drowning men could see him
he said, "All men will be sailors then,
until the sea shall free them".
But he himself was broken
long before the sky would open,
forsaken, almost human,
he sank beneath your wisdom like a stone.
Leonard Cohen, Suzanne