[RPF] Beggars and blighters, ne'er-do-well cads

Oct 20, 2011 21:44

Titolo: Beggars and blighters, ne'er-do-well cads
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/PAAAHHRRRiring: Daniele De Rossi/Marco Borriello, Marco Borriello/Osvaldo; tra le comparse: Francesco Totti, Luis Enrique, Nico Burdisso, Adrian Mutu (cenni Mutu/Osvaldo), Riccardo Montolivo, Alberto Gilardino, Andrea Pirlo
Rating: R
Conteggio Parole: 12635 (fidipu) (no, non c'è una cifra di troppo)
Avvertimenti: AHRU AU, slash, angst, UST
Note: SHHHHHHHHH, SHHHHHHHHHH E ANCORA SHHHHHHH.
- Pirati. Sono tutti pirati.
- Io do la colpa a perlinha, perché sì, perché, insomma, sì. #cia(m)o.
- Ero partita con l'idea di ambientarla in un anno a casaccio dell'Età d'oro della pirateria (no, non avete idea del genere di ricerche che ho fatto per questa scemenza *ride*), ovvero Mar delle Antille, 1700, ma poi il tono e varie cose mi sono sfuggite di mano, perciò il mondo è geograficamente il nostro, cronologicamente più o meno anche quello, ma più Pirati-dei-Caraibi che non vero-1700-storicamente-giusto. *ride* #incapacitàiocel'ho *muore*
- UNA COSA IMPORTANTE (spoiler: NO). Il padre di Sborri (e di Fabio Sborri, chiaramente) si chiama(va) Vittorio, da cui il nome Vittoria Alata per la nuova nave di Fabio XD #thatshowiroll
- Sempre a proposito della dinastia Sborriello: l’altro fratello, il maggiore, si chiama Piergiorgio, che però è un nome che fa cagarissimo e ancor di più in una storia di pirati (*ride*), per cui mi sono presa la libertà di soprannominarlo Gigio \o\ Probabilmente IRL lo chiamano qualcosa tipo ‘Pigi’ o ‘Gio’, ma Gigio \o\ è così carino \o\ Gigio \o\ Topo Gigio \o\ Delpierocest \o\ omg, Perla! OMG. \o\’’’’’’
DisclaimAAAAHRRR: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo doblone.

~ Beggars and blighters, ne'er-do-well cads.

Ha un bel colore, il mare, quando Daniele si sporge a guardarlo.
La tempesta che li ha tormentati per una settimana intera è svaporata con l’alba, dopo che per tutta la notte il vento ha soffiato sul fianco gonfio delle nubi spaccate dai fulmini, e adesso tocca guardare bene, stringere gli occhi contro il riverbero caldo del sole, per distinguere un grumo grigio scuro che riposa là in fondo, sull’orizzonte. Il resto del cielo è azzurro e pulito e si specchia vanitoso nell’acqua tersa, che si muove appena, sorride, in una miriade gentile di increspature più chiare.
Daniele si gode la carezza dell’aria ancora frizzante del primo mattino, e la tensione gli scivola via dalle spalle come un cappotto. Ha avuto paura di morire, stanotte e per tutta la settimana, non c’è ragione di negarlo: l’ululato terrificante di onde alte tre volte l’albero maestro gli ha rubato il respiro, il fracasso dei tuoni pareva potesse spezzare le ossa e in mare, in mare, in mare, in mare la paura ti salva la vita, o forse no, non era così; forse il punto è, semplicemente, che quando il mare s’incazza panico e calma hanno lo stesso valore - nessuno, - e se sai cosa fare, bene, e se non lo sai, va bene comunque.
Ti annegherà, se ti vuole annegare; non c’è niente da combattere.
Daniele chiude gli occhi, inspira la salsedine pungente e ormai è quello l’unico sapore che riconosce. Alle sue spalle, esattamente otto passi di legno più indietro, l’ammiraglio urla qualcosa con quella sua voce ingiusta e roca; Daniele non resiste e si volta a guardare. Francesco sta lì in piedi accanto al parapetto, bianco come un fiocco di neve, si morde le labbra e ha l’espressione di uno che sta per fare qualcosa di stupido, per via del senso di colpa. Daniele gli sorride, tranquillo, e guarda oltre.
Al timone, un ufficiale che non conosce tiene in braccio un fagotto di stoffa, che si agita appena nella sua stretta. Si accorge che Daniele lo sta guardando e fa un cenno impercettibile col capo: si occuperà lui di Gaia, promette, fino al prossimo sbarco, e poi sulla terraferma la affiderà a qualche collegio di suore, che si prenderanno cura di lei meglio di quanto un padre marinaio avrebbe mai potuto sperare di fare. Daniele annuisce, si fida. Salta giù.
È tiepido, salato e magnifico, il mare, e ha un bel colore, persino da sotto.

*

Le vele si gonfiano, nel tempo di un battito. Francesco ruggisce i suoi ordini e l’ammiraglio si precipita fuori dalla cabina e si mette ad urlare pure lui, troppo forte; Daniele vede Erik ammainare la gabbia e Leandro, un momento dopo, buttarsi sulle sagole per tirarla su tutto da capo. Il vento non sta lì ad avere pietà, e strappa via metà delle vele, alzandole verso il coperchio cattivo delle nuvole come lenzuola stese ad asciugare.
Daniele ha un coltellaccio col manico d’osso che gli preme contro la caviglia, nascosto nello stivale destro, e deve soltanto scegliere quale cima cominciare a tagliare per tentare, almeno un po’, di salvare la nave, l’equipaggio, il carico e tutto quanto.
Corre sottocoperta, senza nemmeno doverci pensare.
Nico gli viene incontro scalciando via le brande rovesciate dal rollio terrificante delle onde; lo guarda, pallido e forse pure ubriaco, e gli porge Gaia, avvolta in una coperta, che trema spaventata e non ha neppure più la forza di piangere.
«Grazie,» mormora Daniele, stringendosela al petto; Nico scuote la testa.
«Non farti trovare,» dice, a denti stretti, e poi aggiunge, prima di scappare via: «Que Dios nos ayude.»
Daniele si farebbe il segno della croce, se non avesse sua figlia tra le braccia.

*

Daniele ci muore, in mare, o, perlomeno, di esserci morto ha la netta impressione.
Potrebbe essere un Inferno, l’oceano. Non finisce mai, è uguale e uguale e uguale e uguale, anche se nessun’onda assomiglia a quella che le è appena passata accanto, e Daniele galleggia leggero come un’anima, e pesante, al tempo stesso, come se un’anima non ce l’avesse. La corrente lo trascina giù, di tanto in tanto: gli uncina un braccio o una gamba e lo tira, e Daniele si lascia inghiottire dal vorticare insensato del mare perché non c’è ragione di non arrendersi, non è così?
Ma il mare lo risputa fuori ogni volta, perché non se la vuole prendere, la sua vita bruciata dal sole in cima al ponte di una nave.
Non sa quanto tempo sia passato e non sa nemmeno, onestamente, se di tempo ne trascorra davvero, sopra il mare; gli sembra di dormire, di stare sognando, di non dover neppure respirare. C’è un’ombra, poi, che gli si allarga come una macchia su tutta la faccia arsa dal caldo e dalla sete, corrosa dal sale, e poi sul collo, sul petto, ed ha la forma affusolata, imponente, paurosa di un galeone, sì, un galeone, e sono voci, voci, vere voci di uomini e non gli strilli dei gabbiani che Daniele sente, lontane e ovattate attraverso l’acqua, fargli tremare i timpani, e il cuore.
«Uomo in mare!»
Sì, pensa Daniele, con gli occhi chiusi, ancora cullato piano piano dall’abbraccio gentile, crudele dell’oceano. Sì, sì. Sono qui.
La stessa voce, più forte, più forte persino dello sciabordio delle onde contro le fiancate del galeone immenso: «Uomo in mare!»
«Eh, cazzo, t’abbiamo sentito!» Una voce diversa, più lontana, irritata; Daniele si muove, quasi. «Piantala di strillare, non lo vedi che è un cadavere?»
No.
«Ma no che non è un cadavere!» La prima voce, di nuovo, e Daniele pensa, sì, pensa, sì, per la prima volta da che l’ammiraglio gli ha premuto la punta dello spingardino tra le scapole, spingendolo sul legno sottile della passerella della sua stessa nave, sì, sì, sono vivo. «Si gonfiano, gli annegati, razza di idiota! Ti sembra gonfio, quello lì? Ti sembra blu? Pensa alla tetta di tua madre, quella sì che è gonfia e blu, vedi che a quello lì non ci somiglia per nulla!»
C’è silenzio, per un momento, tutt’a un tratto, e persino il vento trattiene il respiro. Daniele apre gli occhi, le ciglia incrostate di sale che si separano a stento, e il blu del cielo è quasi insopportabile. Il rumore di uno sparo lo fa sobbalzare, poi, e dal galeone - lo vede, ora, e gli pare la nave più bella che abbia mai visto, gli pare la cosa più bella che abbia mai visto, - viene uno scoppio di grida, perlomeno venti persone e insulti in tre lingue diverse; Daniele, senza neppure accorgersene, si ritrova diritto nell’acqua, immerso fino al mento, con le onde bassissime che gli accarezzano il viso ed è vivo, non è mai, mai stato più vivo di così.
«Uomo in mare!» urla, senza un filo di voce, e la gola gli si contrae attorno al respiro ed è una sensazione magnifica. «Uomo in mare!» insiste, attorno al sapore di sale, di sabbia, di oceano che gli infesta la bocca.
Sul galeone continuano a strillarsi addosso, e allora non smette neppure Daniele, e mentre grida senza emettere nient’altro che un rantolo rauco agita le braccia sopra il pelo dell’acqua, schizza l’ombra lunga della murata, vivo dell’euforia dei morti.
«Ehi, ehi, ehi!» La prima voce, ancora, e Daniele si scopre contento che la schioppettata non gliel’abbia ammazzata, si accorge persino del sorriso compiaciuto neanche troppo nascosto nelle sue parole quando quella aggiunge: «Uomo in mare! Uomo in mare, vivo e ballerino!»
Gli lanciano una cima, dopo neppure un istante.
Daniele deve dare due bracciate a nuoto per raggiungerla, e poi la presa continua a sfuggirgli perché la canapa è intrecciata di alghe e muschio scivoloso e allora gli viene da ridere e ride, guardando in su senza un’intenzione precisa, come guarderebbe in su se stesse cercando Dio - però se l’è portato giù dalla passerella della Lupa, Dio, e forse lui non è più riemerso, ma Daniele non ci vuole pensare.
«Attorcigliala al polso,» gli suggerisce una voce, sempre la stessa; Daniele si dà dello sciocco, annuisce, guarda di nuovo in su e poi, senza preavviso, arriva il primo strattone, e poi il secondo, che lo manda a sbattere sul fianco del galeone con tanta forza che gli si mozza il respiro.
Daniele ascende al cielo ammaccandosi tutto e tremando, gelato, perché lì per aria fa freddo mentre il mare era perfetto. Lo tirano a bordo in quattro, due paia di mani che lo afferrano per le spalle e due paia per i pantaloni, e con uno spintone poco gradevole lo fanno sdraiare sulla schiena, le braccia spalancate sul ponte come un Cristo in croce. Ah, sua madre, quanto sarebbe fiera di lui.
Daniele respira con la bocca aperta, e tutto quello che vede sono spicchi di cielo nascosti dal panorama familiare di vele e sagole e l’albero maestro. C’è una macchia nera, là in cima, che, per un attimo, Daniele non capisce cosa sia; la guarda sventolare, sottile come la federa di un cuscino, nera, e ci arriva, poi, che è una bandiera, una bandiera pirata.
Si tira su a sedere d’istinto, soffocando sul fondo della gola il gemito di dolore che pare gli sia sbocciato dalla base della spina dorsale. I pirati, una mezza dozzina, gli stanno lontani di un paio di passi, e lo scrutano seri, come a soppesare lui e il pericolo che rappresenta. Daniele apre la bocca, non sa per dire che cosa e né con che voce, comunque, potrebbe parlare, però apre la bocca perché sono pirati, non può certo star lì zitto zitto ad aspettare che gli infilino una spada tra le costole.
«È con la Marina,» osserva qualcuno alle sue spalle, e il commento poco brillante gli fa guadagnare quello che, dal rumore, sembrava un notevole schiaffo sulla nuca. «Ahio! Adi, porca miseria, mi hai fatto male!»
«È un buon segno, non lo sai?» replica un altro, Adi, probabilmente, e Daniele dovrebbe proprio voltarsi a controllare che non sia chi crede che sia, ma come può farlo, se i sei stronzi che ha davanti non la smettono di essere minacciosi e poco raccomandabili? «Se senti dolore, significa che allora qualcosa in quella zucca marcia ce l’hai.»
Qualcuno ride, ma l’attrazione del momento è ancora Daniele e nessuno gli stacca davvero gli occhi di dosso, anzi, un altro paio di persone si affacciano a curiosare.
«Dovremmo andare a chiamare il capitano,» azzarda, finalmente, una voce un po’ incerta. Daniele si morde la lingua. Gli dispiace un po’, dover morire così, ma non c’è molto che possa fare - vie di fuga non gli pare che ce ne siano, a meno che, naturalmente, non gli riesca di sterminare l’intero equipaggio e condurre tutto da solo il galeone fino al porto più vicino, che, poi, chissà qual è.
«Sì, vallo a chiamare,» s’intromette la prima, primissima voce, quella che ha salvato Daniele più di tutti gli altri, e c’è, dentro alle sue parole, un’asprezza sarcastica così marcata che lui quasi non la riconosceva. «Vallo a svegliare per dirgli che bel pesciolino gli abbiamo pescato.»
«Potrebbe andarci Adi,» ragiona il tizio poco intelligente, e si guadagna il secondo schiaffo, ma subito, tra gli altri pirati, si diffonde un mormorio d’assenso. Daniele sente Adi sbuffare.
«Non se ne parla,» dice. «Gli tagliamo la gola, o lo restituiamo al mare, e festa finita. Non c’è motivo di disturbare il capitano.»
«No, piano, piano,» fa la prima voce, ancora, conciliante, e Daniele si domanda, distrattamente, quante volte ancora dovrà essere debitore della propria vita a quest’uomo. «Lo abbiamo salvato, lo abbiamo portato a bordo, non ce ne possiamo sbarazzare come pesce marcio, per rispetto a tutta la fatica che abbiamo fatto a tirarlo su, se non altro,» continua, e d’improvviso la voce acquista un corpo, che si piazza in mezzo alle gambe schiuse di Daniele e lui ne vede solo la schiena, una camicia bianca sdrucita e un paio di calzoni larghi, di cotone grezzo, macchiati e rappezzati e oh, santo Dio, questo tizio porta infilata nella cintura la spada più grossa che Daniele abbia mai visto.
«Mettiamola ai voti, Sparrow,» ringhia Adi, aggirando la piccola folla e fermandosi proprio di fronte a Daniele, che trasale, e sbianca pure, perché, Dio, fantastico, meraviglioso, incredibile, è per davvero Adrian Mutu.
«Mettiamo ai voti chi è che deve andare a chiamare il capitano, piuttosto,» sogghigna ’sto Sparrow, la voce salvatrice, la sua schiena, - Daniele respira un po’ meno a fatica, non ricorda nessun ricercato con un nome così assurdo, - e poi, di punto in bianco, si volta verso Daniele e si accovaccia, e il suo viso è così vicino che Daniele riesce a contargli le lentiggini chiarissime che ha sparse sul naso. Ha degli occhi incredibili, Sparrow, castani come il legno di un albero maestro, venati d’ambra e di miele, e soprattutto sembrano gentili, niente a fatto quelli di un pirata. Daniele deglutisce e tenta di indietreggiare almeno un pochino, perché lo sa, lui, cos’è che dicono delle acque chete. «Stai tranquillo,» gli sorride Sparrow, però, incredibilmente bello com’è, e gli accarezza una guancia con la mano intera, e a Daniele nessuno l’ha mai toccato così. «Ce l’hai un nome?»
«Da... Daniele,» riesce a scollare, la gola secca, la bocca riarsa; Sparrow stringe un po’ gli occhi al suono roco della sua voce, ma annuisce, e sposta più in giù la carezza, verso il collo, e Daniele magari un po’ va incontro al suo tocco, ma solo perché gli deve la vita, gli deve la vita, cazzo.
«Daniele,» ripete Sparrow, come ad assaggiarne il suono; deve piacergli, perché sorride di nuovo. «Come mai eri in mare, ammiraglio?» Lo prende in giro, senza neppure farci caso: Daniele ha ancora addosso la giacca della divisa, e non ci sono i gradi di un ammiraglio, cuciti sulle sue spalle. «Sei caduto dal ponte?»
Rispondergli è difficile per un’infinità di motivi diversi, e Daniele sceglie il più semplice - perché ho tanta sete che mi sento morire, si dice, e se lo ripete fino a convincersene.
«Mi hanno... fatto scendere,» gracchia, e arriccia un angolo delle labbra in un sorrisetto straziante: «Dalla passerella.»
Sparrow sbatte le palpebre, e poi sbuffa una specie di risata. Daniele gli fa eco, si lecca le labbra spaccate, si domanda se la barba folta e nerissima di Sparrow sarebbe, sotto le sue dita, morbida come sembra.
«Stai tranquillo,» gli ripete Sparrow, sottovoce, poi si rialza, e Daniele subito sente la mancanza della sua mano. Scuote la testa, cercando di tornare in sé. «Avete sentito?» sta dicendo Sparrow, intanto, le braccia spalancate e la voce carica di qualcosa di profondo, carismatico, quasi seducente. Daniele aggrotta le sopracciglia, si sforza di ricordare; davvero non ha mai sentito di un pirata con quel nome? «Il nostro Daniele, qui, la Marina l’ha buttato fuori a calci. Possiamo mai ammazzare a sangue freddo un nostro fratello?»
Sono fin troppi, i pirati che sono d’accordo con lui. Adrian Mutu è parecchio indispettito, ma fa comunque un passo in avanti, le braccia incrociate al petto.
«Come vi pare,» dice. «Vado a chiamare il capitano.»
«Non ce n’è bisogno, Adi.»
Daniele si volta di scatto, e, a onor del vero, lo stesso fanno pure tutti gli altri; e non è soltanto a lui che si mozza il respiro in gola per la fottuta paura, quando Osvaldo, in un tintinnio di braccialetti e collane, viene giù dal ponte di comando scendendo le scale con una lentezza quasi regale, il tacco spesso degli stivali che schiocca sul legno come il martello isterico del giudice che ti condanna a morte.
Toc, toc, toc, Osvaldo avanza coperto d’oro, di gioielli d’osso e di cocco, di legno e d’avorio, e Daniele capisce perché lo chiamano il Faraone.
Sparrow lo accoglie con un cenno del capo, s’intravede un sorriso sulla sua faccia.
«Capitano,» dice, e c’è qualcosa di incredibilmente simile ad una specie di scherno nel suo tono di voce; chiaramente, il Faraone non gli mette addosso lo stesso terrore che è capace di incutere al resto degli esseri umani.
Osvaldo si ferma a mezzo passo di distanza da lui.
«Marco,» gorgoglia, dal fondo della gola, e la sua espressione è indecifrabile, la voce ferma. Mutu si soffoca col suo stesso respiro, per qualche ragione, e comincia a tossire convulsamente; Sparrow si limita a sorridere, le mani sui fianchi, e inclina appena la testa da un lato.
«Come vanno le cose?»
«Meno bene di quanto sperassi,» replica Osvaldo, stringendo gli occhi. Daniele comincia, di nuovo, a temere per il proprio immediato futuro. Dannazione. «La mia nave è appestata dall’olezzo di ospiti sgraditi, e a quanto pare nessuno dei miei uomini ha intenzione di intervenire.»
«Mi hanno congedato, dalla Marina,» interviene Daniele, tentando di alzarsi ma le ginocchia non gli danno retta per niente, e d’altra parte pure la voce gli è appena appena pigolata fuori dalla gola. «Con disonore,» aggiunge, perché, non si sa mai, potrebbe essere una nota di merito, su un galeone pirata.
Osvaldo lo degna appena di un’occhiata.
«Non parlavo di te,» dice, e poi torna a fissare Sparrow, - Marco, l’ha chiamato? - assottigliando lo sguardo. «Da quanto tempo sei a bordo?»
Sparrow gli fa, in piena faccia, un sorriso a dir poco accecante.
«Oh, un paio di giorni, niente di che.»
L’accesso di tosse di Mutu ricomincia, stavolta persino più violento di prima. Osvaldo, invece, scoppia a ridere.
«Un paio di giorni?» dice, e si lecca le labbra, scuote la testa. «Stai peggiorando.»
Sparrow si stringe nelle spalle con aria indifferente.
«C’è stato un imprevisto,» sorride, accennando a Daniele col mento. «È la mia natura pietosa e caritatevole che mi rovina.»
«Te l’ho sempre detto,» replica Osvaldo, guardandolo da sotto in su come se, beh, come se se lo volesse mangiare. Si volta verso Daniele, poi, e in quella frazione di secondo che impiega a girarsi, la sua faccia diventa gelida, inespressiva come un libro in bianco. «E tu? Che diavolo vuoi?»
...che domanda difficile. Daniele annaspa per un momento.
«Uh. Vivere?» tenta, e non è che non sia vero, è solo che lui non è proprio sicuro che sia la cosa giusta da dire ad un pirata. Sparrow sorride, in un modo diverso rispetto a come finora ha sorriso ad Osvaldo - meno da predatore e più, in qualche modo, onesto, morbido; il Faraone solleva un sopracciglio, chiaramente poco impressionato.
«Qualcuno ti tiene una pistola puntata alla testa?» domanda, annoiato. Daniele controlla, e poi fa cenno di no. «E allora vivi, no? Che vuoi da me?» Daniele è piuttosto certo che sia una buona idea rimanere zitto. E ha ragione, per una volta, perché subito Osvaldo si disinteressa di lui e, ancora, si rivolge a Sparrow. «Sei qui per le rotte dei francesi, suppongo?»
Sparrow sorride.
«Ho già tutto quello che mi serve, ti ringrazio,» dice, e Daniele, per un momento, è sicuro che Osvaldo lo farà sbranare da qualcuno dei suoi uomini. Non succede niente di tragico, però: il Faraone si limita ad un’occhiataccia, si volta e fa per andarsene. Sparrow lo segue, e da sopra la spalla fa a Daniele un sorriso e ammicca, per farlo stare tranquillo. Non serve, veramente, non serve, ma Daniele apprezza lo sforzo.
«Capitano,» s’intromette Mutu, che ha smesso di tossire come un tubercolotico, fortunatamente, ma ha un broncio offeso che non finisce più. «Che ne facciamo dell’ufficiale? Le prigioni abbiamo dovuto riempirle con le casse di rum.»
Osvaldo neppure si prende la briga di fermarsi.
«Lasciatelo lì, o sbattetelo in una cabina e chiudetecelo dentro, che volete che me ne freghi? Basta che non me lo fate vedere.»

*

Lo sbattono per davvero in una cabina, però, con sua somma sorpresa, è una gran bella cabina, persino più grande di quella che aveva sulla Lupa, e Daniele era il secondo in comando, lì - beh, lo è stato almeno finché non hanno incrociato il brigantino mezzo naufragato dell’ammiraglio Enrique, e hanno preso a bordo lui e i suoi settantasette sottufficiali. A quel punto è stato come se Daniele fosse retrocesso di almeno una quindicina di gradi, e non è che gli sia dispiaciuto, eh, allentare un pochino il ritmo per un paio di settimane, scaricarsi di dosso qualche responsabilità e badare a Gaia sottocoperta e svaccarsi sul ponte mentre quegl’imbranati degli spagnoli mettevano sottosopra la sua povera nave, però, insomma, considerando il modo in cui s’è conclusa la sua avventura da facente funzione di marinaio semplice, magari non è stata proprio la cosa migliore che gli sia mai capitata.
D’altra parte, avrebbe potuto andargli peggio.
È vivo, in fondo, e, anche se ha avuto la capacità di farsi salvare nientemeno che dall’equipaggio della Cleopatra, a quanto pare riuscirà a tenersi addosso la pelle ancora per un po’. È molto più di quanto non si fosse aspettato, mentre si costringeva a fare quel passo in più, giù per aria e verso il fondale nero dell’oceano.
Mutu ha chiuso la porta a chiave, dopo averlo spinto dentro la cabina con tutta la malagrazia di cui può essere capace un uomo; Daniele, allora, va ad ispezionare l’oblò che dà sulla murata, perché magari è fortunato e proprio là fuori hanno appeso una scialuppa. No, non è fortunato, chiaramente, e comunque l’apertura è troppo stretta per le sue spalle; anche volendo, non sarebbe riuscito a passare. Non gli dispiace, onestamente.
Si sfila la giacca fradicia, la butta via senza neppure curarsi di dove va a finire, e poi, con le gambe che si muovono ancora con qualche incertezza, si avvicina al bel letto incastrato nella parete corta della cabina. È un po’ polveroso, e ha quell’aria rigida che prendono i letti quando sono passati anni dall’ultima volta che qualcuno ci ha dormito dentro, ma Daniele è stato, Dio, non sa neppure quanto a lungo a mollo nell’oceano. Ha fame, ha sete, ma più di ogni altra cosa è esausto, stanco anche solo di sentirsi pensare, perciò si lascia cadere più pesantemente che può sul materasso, e crolla addormentato senza neppure rendersene conto, in un attimo.
Si sveglia dopo quello che gli sembra un mese, e invece non sono passate neppure due ore, tant’è che i vestiti non gli si sono neppure completamente asciugati addosso; è ancora spossato, per un attimo neppure capisce dove si trova e poi se lo ricorda, il salto giù dalla passerella, l’oceano che voleva berselo ma non ammazzarlo, e i pirati, ah, i pirati - Osvaldo e Sparrow e la carezza di Sparrow, soprattutto; la sua mano grande, calda contro la pelle, il suo sorriso gentile, - si ricorda tutto e glielo ricorda la fame, in effetti, glielo ricorda la sete. Sospira, si preme le mani sugli occhi.
Si sente debole e pigro, ma non esattamente stanco, e ha un po’ di timore ad addormentarsi di nuovo, ora, perché sa che non riuscirebbe a ripiombare nel sonno dei sassi e delle montagne, e non vuole doversi mettere a fare i conti con gli incubi che, ne è sicuro, lo tormenterebbero. Dio, gli basta chiudere gli occhi per sentire ancora l’acqua accarezzargli il collo e sorreggere tutto il suo peso.
E poi lo distrae un rumore che proviene dall’altro lato della parete - un gemito.
Daniele schiude gli occhi e butta le braccia lungo i fianchi, sul materasso. Tende le orecchie, e ne sente un altro. Gli sembra di dolore, all’inizio, e un po’ si preoccupa, perciò ascolta meglio, e, di nuovo, un altro gemito, e un altro, e ancora, e poi non riesce più a contarli e ha smesso di preoccuparsi, Dio, sì, perché è troppo impegnato ad arrossire come un ragazzino, e a cercare di concentrarsi su qualcos’altro, qualsiasi cosa, perché sono gemiti, gemiti, un fiume in piena di gemiti maschili, vocali, di piacere - di più: di un piacere bello ed eccitante e Daniele si nasconde la faccia tra le mani, avvampa, vorrebbe poter scappare indietro fino in Italia, fino a casa, da Gaia.
Sente una risata bassa, che gli pare di conoscere, e rabbrividisce.
«Se devi fingere, perlomeno cerca di essere convincente,» dice Osvaldo, e Daniele schiude le dita e fissa il soffitto, sconcertato.
«Non sto mica fingendo,» ride ancora Sparrow, divertito; Daniele sente di essere diventato viola per l’imbarazzo, in tutta sincerità. E poi i gemiti ricominciano, un po’ meno osceni di prima, forse più sinceri davvero, e Daniele pensava di essere troppo stanco e drenato e di avere abbastanza dignità da non eccitarsi, e invece no, c’è chiaramente qualcosa che gli si stiracchia, nei calzoni ancora umidi di acqua salata, ma grazie a Dio, grazie, grazie, grazie a Dio nella cabina accanto finiscono prima che, per Daniele, la cosa diventi insostenibile. Sparrow miagola, decisamente, il nome di Osvaldo, e questi, un attimo dopo, scoppia a ridere. Daniele sente un tonfo e poi un mezzo grido indignato, e suppone che uno dei due abbia buttato l’altro giù dal letto; il solo pensiero gli basta per arrossire ancora di più.
Si alza, con uno scatto di reni, e prende a camminare su e giù come posseduto; si mette a contare le venature del legno delle pareti, e poi, affacciandosi all’oblò, le onde che si rincorrono sull’oceano. Si sfila gli stivali - si aspettava di veder rotolare fuori il coltello, e solo dopo un momento ricorda che, invece, pure quello gliel’ha portato via Enrique, - e strizza via quel poco d’acqua che rimane ad impregnargli le calze; non ha voglia - minimamente - di levarsi i pantaloni, per cui si rassegna a restare bagnaticcio dalla vita in giù, e siccome non ha più niente da fare sta lì a fissarsi le mani, interessato come se riuscisse a vedere le vene e le ossa sotto la pelle.
Poi, non sa neppure definire quanto tempo dopo, la serratura dell’enorme porta di castagno annerito dal fumo dà uno scatto rumoroso, che quasi echeggia nella cabina poco arredata. Daniele alza la testa, e rimane a guardare Sparrow che apre la porta con una pedata e la richiude con un colpetto dei fianchi, perché ha le mani ingombre di un vassoio di legno pieno di piatti. Solo che non è Sparrow per davvero, quello che gli viene incontro con i capelli stropicciati e un sorriso raggiante.
«Ti ho portato da mangiare,» dice, sistemando il pesante vassoio sul letto, accanto a Daniele. Nota la sua giacca, poi, buttata in un angolo come uno strofinaccio, e la raccoglie, scuotendone via la polvere. «Sono degli animali, su questa nave. Non lo fanno neanche di proposito, sono solo scemi, probabilmente, ma si vede lontano un miglio che stai per morire di fame. E di sete.»
Torna indietro per porgergli la giacca, allora, e Daniele la prende con un gesto meccanico, gli occhi sgranati fissi sul suo viso. Si è rasato, Sparrow, e adesso Daniele lo riconosce.
«Marco Borriello,» mormora, e lui stesso fa fatica a crederci.
Sparrow - Marco Borriello - solleva le sopracciglia, sorpreso, e poi sorride tra sé.
«Al tuo servizio,» dice, e fa un inchino elegante. «Sono sinceramente lusingato dal fatto che tu conosca il mio nome, sai?»
Daniele, è più forte di lui, alza gli occhi al soffitto, esasperato dalla falsa modestia. Borriello ridacchia, gli fa il secondo occhiolino della giornata e poi avvicina al letto l’unica sedia della cabina, una poltrona imbottita, rivestita di cuoio, con delle enormi borchie di bronzo sugli spigoli. Ci si lascia cadere su con un sospiro allegro, e accavalla le gambe.
Daniele si stringe al petto la giacca e non dice nulla.
Borriello gli fa un sorriso magnetico.
«Mangia, Daniele,» dice, la voce bassa, suadente, e indica il vassoio. Daniele si volta un po’, e osserva, corrucciato, il ben di Dio che Borriello ha ficcato alla rinfusa in tre piatti. Non sente neppure l’ombra di un odore, ma dev’essere perché è tutto freddo; il suo stomaco, comunque, si mette a ruggire come un animale selvatico, e Borriello ridacchia gentilmente. «Guarda che non è avvelenato.»
«Ecco, adesso che me l’hai detto sto proprio tranquillo,» brontola Daniele, sarcastico, facendolo ridere ancora. Più che il sospetto, però, potè ’l digiuno, e Daniele si arrende in fretta. Si piazza il vassoio sulle ginocchia, e più mangia, in realtà, e più gli viene fame. È pure buona, accidenti, la roba che gli ha portato Borriello - pollo alla brace, riso, una pagnotta ripiena di cavoli e una quantità vertiginosa ancora di carne rossa, roba che sulla Lupa assaggiavano sì e no una volta l’anno, e Daniele, la sua pancia, soprattutto, sta cominciando a sentire il fascino della pirateria.
«Niente male, eh?» sorride Borriello, furbo, appoggiando i gomiti ai braccioli della poltrona e intrecciandosi le dita davanti al viso. Daniele annuisce distrattamente, perso a rincorrere in lungo e in largo per il piatto una lenticchia fuggiasca. Sta ficcando una fetta di formaggio in mezzo ad un panino grande quanto il suo pugno, quando gli viene un dubbio.
«Perché usava quel nome lì? Uh, ...Sparrow?» chiede, buttando giù un boccone di, boh, che sarà stato, coniglio?, che se ne scende splendidamente pure nella sua gola secca - ha troppa fame, berrà dopo, berrà quando sarà sazio, berrà quando sarà morto, - per quanto era intriso di saporitissimo sugo. «Mutu, voglio dire. Non ti conosce?»
«Oh, la barba funziona sempre,» sghignazza Borriello, e Daniele, pure se c’è cascato anche lui, e come un allocco, fa lo sforzo di accigliarsi.
«Con Osvaldo non ha funzionato.»
«Lui, beh... lui mi conosce meglio,» e Borriello - Marco - sorride, con semplicità; per un attimo, Daniele rimane fermo con la forchetta a mezz’aria, e poi gli si abbatte addosso l’eco fin troppo distinta di quei gemiti. Avvampa, e si rituffa nel cibo.
Borriello lo guarda, incuriosito; Daniele arrossisce di più e allunga una mano alla brocca d’acqua sistemata in un angolo del vassoio. Borriello continua a fissarlo, poi sposta lo sguardo sulla parete e un attimo dopo sgrana gli occhi.
«Hai... uhm. Ci hai sentito?» domanda, sottovoce. Daniele non risponde, non ha intenzione di farlo in questa vita né nella prossima né in quella dopo ancora, e si svuota in gola un sorso abbondante di acqua che, però, non è acqua, è un rum di pessima distillazione che gli fa andare a fuoco il corpo intero e attorno al quale lui quasi si soffoca. Borriello gli si precipita accanto e lo riempie di gentili pacche sulla schiena, ma non può fare a meno di ridere.
«Credevo... fosse acqua,» ansima Daniele, ma comunque il calore improvviso è più che bene accetto, e così pure il bruciore che gli invade persino lo stomaco, perché si sente non solo ancora più vivo, ma anche reale, e se stesso, e irrimediabilmente stupido.
Borriello - Marco - è vicinissimo, sorride e la sua pelle ha un odore buono, che non c’entra niente con la salsedine né con l’alcol e neppure con la polvere da sparo.
«Se speri di trovare acqua sulla Cleopatra, temo di doverti deludere, mio caro Daniele,» dice, e, dopo avergli dato l’ultima pacca ed essersi così assicurato che non lo vedrà diventare cianotico sotto i suoi occhi, se ne ritorna tranquillo a sedere sulla poltrona.
«Siamo davvero diretti a Tortuga?» chiede Daniele, dopo un po’, mentre sta ripulendo uno degli ultimi ossi di pollo. Borriello annuisce.
«Non ci vorrà molto ad arrivare, se il vento tiene saremo lì per il tramonto,» dice, e Daniele sgrana gli occhi. Quando l’ammiraglio Enrique l’ha buttato a mare, la Lupa era salpata dal Nuovo Mondo già da nove giorni, e nonostante la tempesta e tutti i guai causati dagli spagnoli, s’erano allontanati già di qualche centinaio di miglia; com’è possibile che siano già a mezza giornata di viaggio dai Caraibi? Forse è vero che i capitani dei vascelli pirata vendono l’anima al Diavolo per una giara di venti. Borriello si accorge del suo stupore, e ne sorride. «La corrente ti ha portato parecchio fuori rotta, marinaio.»
«Devo essere rimasto a lungo in acqua,» osserva Daniele, ma Borriello scuote la testa, si allunga a rubargli un sorso di rum. Ha le labbra piene, Daniele se ne accorge guardandolo anche solo con la coda dell’occhio, quasi troppo carnose, gonfie, da mordere, non che sia giusto o morale o accettabile il pensiero di mordere le labbra di un uomo, di un pirata, di Marco ‘Il Rosso’ Borriello, naturalmente.
«Non più di due giorni,» dicono quelle labbra, e Daniele fa fatica a distrarsi quel poco che gli basta per accigliarsi un momento. «Sono dei pazzi sconsiderati, i vostri navigatori; la Lupa segue correnti spaventosamente forti, più che la distanza che hai percorso è sorprendente il fatto che tu sia riuscito a non annegare,» spiega Borriello, e prima che Daniele possa dire qualsiasi cosa - come diavolo fai a sapere il nome della mia nave?, per esempio, - sorride e accenna alla sua giacca, appoggiata al bordo del letto: sul bavero, spicca dorata e ossuta l’immagine della lupa che Francesco ha voluto far ricamare sulle divise di tutto l’equipaggio.
Daniele fa una specie di smorfia, e giochicchia con un ossicino spolpato rimasto nel piatto.
«Non mi stupisce che neanche il mare mi abbia voluto,» mormora, sovrappensiero, e non appena s’accorge di averlo detto ad alta voce si morde le labbra, e vorrebbe potersi rimangiare le parole ad una ad una. Borriello, però, sta sorridendo un pochino.
«Al posto tuo, quella caraffa di rum io l’avrei svuotata già da un pezzo, così, per festeggiare,» dice, e Daniele sbuffa, quasi divertito, gliela porge. Borriello - Marco - sembra, per un attimo, che voglia obiettare qualcosa, ma rinuncia in fretta davanti all’offerta di alcol, e quando prende la brocca le sue dita sfiorano quelle di Daniele.
«Alla salute,» mormora lui, guardandolo prendere un sorso che non finisce più. Marco - Borriello - sorride con le labbra ancora schiuse attorno al bordo, e poi beve Daniele, persino più a lungo di lui.
«Dunque!» esordisce Borriello, stranamente gioviale, battendosi le mani sulle cosce. Daniele lo sogguarda, incerto. «Abbiamo un bel po’ di tempo libero davanti a noi, Daniele, e ho come l’impressione che non sei il tipo di persona che facilmente racconta la storia della propria vita, non è così?»
Daniele abbassa gli occhi, ci pensa un momento e poi scuote la testa.
«No, in effetti no,» dice, e Borriello, comunque, sorride.
«Appunto. Non puoi biasimarmi per averci provato,» solleva le mani, in segno di resa, e, no, Daniele a biasimarlo non ci pensa proprio. Sospira, il pirata, e accavalla le gambe. «Ebbene, qualcosa da fare dobbiamo pure trovarla. Fosse per me saremmo già fuori di qui a renderci utili, ma non è la mia nave, e il nostro povero Osvaldo non ti ha preso granché in simpatia.»
«Che peccato,» brontola Daniele, spostando il vassoio ormai vuoto dalle proprie ginocchia e posandolo a terra.
«Davvero,» annuisce Borriello, distratto. Si mordicchia la punta di un indice, mentre pensa, e Daniele è fin troppo affascinato dal gesto. Alla fine, il pirata dà un sospiro rassegnato. «C’è una scacchiera, di là. Sai giocare a scacchi, sì?»
«Non... non molto bene, in realtà.»
«Ah, non c’è problema. Abbiamo tempo a sufficienza per farti diventare un campione.»

*

Daniele osserva il profilo della costa definirsi, in lontananza, sempre più chiaramente ad ogni respiro che prende. Non ce l’ha fatta a rimanere confinato nella cabina, quando dal ponte sopra di lui sono esplose le prime grida di terra! Terra! Terra!, e Marco è stato più che contento di accompagnarlo fuori, attraverso una miriade di passaggi nascosti per farlo sbucare alle spalle della gomena - un blocco di legno scuro e così tanto levigato dai venti che, controluce, brilla come fosse di pietra, - senza che nessuno si accorgesse di loro.
E adesso guardano l’orizzonte, tutti e due, appoggiati al parapetto e nascosti da una piramide di botti e cime consumate. Marco sembra incantato dalla Tortuga che cresce davanti a loro esattamente quanto Daniele, come se fosse anche per lui la prima volta.
«Appena sbarchiamo,» dice, passandosi una mano tra i capelli scompigliati, che sembra siano sopravvissuti per sbaglio ad un incontro troppo ravvicinato con un paio di forbidi ben affilate, «la prima cosa da fare sarà trovarti dei vestiti nuovi.»
Daniele si scosta di mezzo passo dalla balaustra, abbassa la testa e si guarda. Ha indossato di nuovo la giacca azzurra della Marina, perché il ponte è ben meno temperato del ventre del galeone, ma la stoffa pesante è lacerata sui gomiti e ai bordi, e ampie chiazze più chiare e più scure, gentile dono dell’acqua di mare, ne hanno alterato il colore; le decorazioni sulle spalle, sul petto e sulle maniche sono ridotte a poco più di frammenti d’oro sfilacciati, e i bottoni penzolano, semiscuciti. La camicia bianca, al di sotto, è stropicciata e macchiata di sale e qua e là anche di un rosa sbiadito, slavato, che sarà sangue, vecchio di giorni; persino il cinturone alto tre dita della divisa si è logorato al punto che sembra abbia cent’anni, e invece non sono neppure tre mesi che Daniele lo usa.
I pantaloni d’ordinanza, scuri, di cotone pesante, larghi fino al ginocchio e poi avvitati sui polpacci ed infilati negli stivali da bordo sono rovinati quanto il resto dei suoi vestiti, appesantiti dalla salsedine, e forse stanno anche cominciando a marcirgli addosso, chissà. Si sono salvati soltanto gli stivali, si rende conto, perché il cuoio granitico di cui sono fatti saprebbe resistere anche ad un incendio, e Daniele si è spesso domandato perché nessuno abbia mai pensato di usarlo come materiale da costruzione; sono un po’ fradici, d’accordo, specialmente dove si piegano, attorno al collo del piede, ma i rinforzi di metallo sulle punte e dietro i talloni sono lucidi come durante un’ispezione, e il resto della pelle è perfettamente intatta.
Daniele abbozza un sorriso.
«Probabilmente hai ragione,» dice, e Borriello lo squadra, da capo a piedi, mordendosi le labbra, e alla fine annuisce.
«Certo che ho ragione. Non ti possiamo fare andare in giro conciato come un naufrago, anche se, beh, pare che le donne apprezzino il fascino del vagabondo.»
Daniele ride, e poi si ferma, guarda Borriello - Marco - e gli sembra stranissimo, che gli sia scappata una cosa tanto sincera e allegra come una risata. Marco, comunque, gli sorride quietamente, e Daniele la smette di sentirsi stupito, e s’imbarazza soltanto.
«Sì, non è che mi interessi poi molto, far colpo sulle donne,» brontola, tornando a guardare la schiena gonfia e curva della Tortuga che emerge ormai chiaramente dalla nebbia sull’orizzonte.
Borriello non replica nulla, sta lì e sorride e basta, anche lui concentrato di nuovo sul panorama, almeno finché non sentono l’inconfondibile tintinnio che annuncia l’avvicinarsi di Osvaldo. Si voltano insieme, Marco e Daniele, e il capitano della Cleopatra si ferma, sul ponte, a tre passi da loro, le mani sui fianchi e un’espressione che Daniele non riesce a decidere se sia irritata o divertita.
«Credevo di aver detto che non lo volevo vedere in giro sulla mia nave,» dice Osvaldo, accennando a Daniele ma fissando Borriello. Questi sorride, gli va incontro.
«Perdonami, devo essermi distratto mentre parlavi,» Daniele non può non notare il modo in cui Borriello ancheggia un pochino, come una donna, quasi. «Non ti avremo certo fatto arrabbiare, hm?»
«Affatto,» mormora Osvaldo, seguendo con gli occhi, famelico, una linea diritta giù lungo il corpo di Marco. Lo guarda da sotto in su, poi, molto meno minaccioso, e Daniele distrattamente si domanda se non dovrebbe intervenire, magari frapporsi a spada sguainata tra Osvaldo e la sua preda. Considerando che una spada non ce l’ha, e che Osvaldo invece è il capitano di un centinaio di energumeni, e che Borriello sembra riesca a cavarsela egregiamente da solo, Daniele decide di no; ad ogni modo, fa un passo in avanti perché è fatto così, lui, è scemo. «Non mi aspettavo niente di meno, a dire la verità.»
Marco fa una risata incredibilmente finta; Daniele, che ha passato la giornata a scherzare di sciocchezze con lui da sopra una scacchiera, rabbrividisce, ma Osvaldo sembra non accorgersene.
«Sempre a prevedere la mia prossima mossa, hm?» mormora Marco, talmente piano che il mare quasi inghiotte la sua voce. Si piega un po’ in avanti, per provocare Osvaldo, mordendosi le labbra a un centimetro dalla sua faccia. Gli occhi del Faraone s’inabissano sulla sua bocca, e tornano in su con evidente fatica, ma il capitano sta sorridendo, sogghignando, quasi.
«Vi voglio fuori dai piedi, quando cominciamo le manovre per lo sbarco,» dice, con la voce con cui un uomo da meno sedurebbe una donna. Tocca il collo di Marco con la sinistra bene aperta, le dita che gli sfiorano l’orecchio. «Tutti e due, Marco.»
Marco sorride, annuisce con un inchino profondo. Osvaldo lo guarda ancora per un momento e poi se ne va, senza neppure curarsi di Daniele; Marco, invece, non appena si risolleva si volta a fargli una smorfia poco impressionata, e subito torna ad affacciarsi al suo fianco.
Daniele non sa cosa dirgli, principalmente perché avrebbe così tante domande che non sa da quale cominciare. Sceglie di stare a sentire la paura fottuta che ha di farlo arrabbiare, alla fine, e rimane zitto, ma gli si avvicina un po’ troppo, col gomito che sfiora il suo, e non si muove di lì.
Seconda parte »

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