Titolo: Dentro i miei vuoti
Fandom: Harry Potter
Beta:
iosonosaraPostata il: 02/07/2007
Prompt: #19: Bianco @
fanfic100_itaPersonaggi: Theodore Nott, Neville Paciock, Nott Sr.
Pairing: Theodore/Neville
Rating: G
Conteggio Parole: 1.228 (W)
Avvertimenti: Pre-slash, What If
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
~ Ambientata come post-serie, ma non c’è nessun riferimento particolare agli eventi del settimo libro. È ‘what if’ perché si suppone che il padre di Theodore sia impazzito in seguito alla guerra e quindi ricoverato al San Mungo.
~ Titolo - come la citazione - dall’omonima canzone dei Subsonica.
Dentro i miei vuoti
Due solitudini si avvolgono,
Due corpi estranei s’intrecciano,
Duemila esitazioni sbocciano.
Stai con me.
Dentro i miei vuoti - Subsonica
Ogni volta che mette piede in quel posto, diventa tutto di un bianco accecante. È certo che non sia così, in realtà, magari le pareti hanno gradevoli gradazioni azzurrine o gialline, ma lui non può vederle, vede solo bianco.
C’è stato altre volte, da bambino. Capita a tutti i piccoli maghi di cadere dalla scopa o di doversi vaccinare, e mai quelle pareti e quei pavimenti erano stati tanto accecanti. Nemmeno il terribile dottor Robson, che gli aveva curato la gamba fratturata anni e anni prima, gli ha reso odioso il San Mungo quanto stanno facendo ora quelle visite settimanali.
Ogni domenica, Theodore affronta quel bianco, con gli occhi bassi, il tipico ronzio di voci sconosciute e confuse nelle orecchie.
Primo piano, secondo piano, scale che sembrano interminabili, terzo piano, la fatica che si fa sentire e il cesto con la frutta che pesa sul suo braccio sinistro. Quarto piano, il capolinea.
Stringendo gli occhi per difendersi dal bianco e dalla luce artificiale delle lampade, Theodore varca la porta del reparto Lesioni da Incantesimi. Riapre lentamente gli occhi, solo per vedere il necessario, e si dirige a passo spedito verso il centro della grande sala.
Sorride distrattamente ad una Guaritrice senza nemmeno metterla a fuoco, non accenna a fermarsi, non si guarda nemmeno intorno, nonostante le voci stuzzichino la sua curiosità. Va dritto e rallenta solo quando scorge lo schienale della poltrona bordeaux e la capigliatura canuta e rada dell’uomo che vi è seduto.
Rallenta e poi si ferma.
“Ciao, papà.”
L’uomo si volta sorpreso, sgranando gli occhi. Lo guarda attentamente, da capo a piedi, inclinando la testa di lato. Continua a fissarlo per qualche istante, senza dire nulla, e Theo sposta il peso da un piede all’altro, decisamente nervoso.
Poi, come tutte le volte, il padre si appoggia allo schienale della poltrona e stende un braccio in avanti, indicando il cesto che tiene in mano.
“Frutta!” esclama, con un sorriso felice.
Theo riporta gli occhi su di lui, stira le labbra in un sorriso stentato e annuisce. “Sì, papà, ti ho portato la frutta.”
È possibile che dopo tutti questi mesi, faccia ancora male come il primo giorno? Sì.
Fa male poter essere riconosciuti dal proprio genitore solo grazie ad un oggetto. La Guaritrice gliel’ha spiegato tante di quelle volte, ormai, ma l’abitudine proprio non vuole arrivare.
“È difficile per tuo padre riconoscerti, vede tanta di quella gente, qui,” aveva detto alla prima visita. “Ti conviene portare con te qualcosa che ti identifichi, gli oggetti vengono distinti con più facilità.”
E Theo aveva ubbidito. Da allora, ogni domenica, porta con sé quel cesto con dentro delle mele, o delle fragole, o dell’altra frutta di stagione. Sa di farlo felice, la frutta gli è sempre piaciuta.
E così ora siede su uno sgabello lì accanto a sbucciargli una mela.
Suo padre, nel frattempo, sembra fissare qualcosa fuori dalla finestra. Non sa dirlo con certezza, però, il suo sguardo è troppo vacuo e potrebbe benissimo essere solo perso nel vuoto. Theodore lo osserva, di tanto in tanto, solleva la testa, ma il bianco dei muri lo ferisce, così torna a puntare gli occhi sulla buccia rossa della mela. Diventa quasi riposante osservare la lama del coltello che lentamente scopre la polpa e, inoltre, gli dà la sensazione di fare qualcosa per suo padre, di aiutarlo, in qualche modo.
“Ciao, Theodore.”
Sì è lasciato sommergere dai pensieri. Suo padre mangia in silenzio continuando a guardare fuori dalla finestra e lui è rimasto a fissare il pavimento bianco, completamente assorto nel nulla.
La voce lo riporta alla realtà e non può proprio fare a meno di sorridere quando solleva gli occhi e li posa sul ragazzo che ha parlato. È un sorriso sincero, questo, non assomiglia affatto a quelli di cordialità che ha rivolto in giro da quando ha messo piede nell’ospedale.
“Ciao,” risponde, andandogli incontro.
Neville è appoggiato al paravento che delimita lo spazio riservato al genitore e ricambia il sorriso. Non è certo la prima volta che s’incontrano, tutt’altro. È da quando suo padre è stato ricoverato che, ogni domenica, si ritrovano lì, nel medesimo reparto del San Mungo, per il medesimo motivo. Neville è lì per i propri genitori, lesi dai Mangiamorte, e lui è lì per il proprio padre che, ironia della sorte, ha fatto la stessa fine.
Theodore non ha mai saputo chi sia stato a ridurlo a quel modo. Ci sono due possibilità: il Signore Oscuro, o chi per lui, irritato per qualche sconosciuto motivo, o gli Auror, durante la loro caccia ai cattivi. Nessuno gli ha detto la verità, si sono limitati a mandargli un gufo al momento dell’arresto, avvisandolo delle condizioni in cui il proprio genitore era stato ritrovato.
Poi c’era stato il processo. E lì si era deciso per il ricovero di Nott sj., ormai innocuo, salvandolo dal Bacio dei Dissennatori. Il risultato, ad ogni modo, sarebbe stato pressoché lo stesso.
“Come sta tuo padre?” gli chiede Neville, quando si ritrovano uno di fronte all’altro.
Theo scrolla le spalle. “Come al solito. E i tuoi genitori?”
“Come al solito,” risponde e, di nuovo, sorride.
Mai una volta l’ha visto o sentito rivolgersi all’uomo con cattiveria. Neville sembra aver rimosso la battaglia al Ministero e tutti i suoi crimini nello stesso momento in cui ha compreso la situazione. E non ci sono dubbi che Neville abbia compreso.
A volte, a Theodore sembra che Neville comprenda tutto persino prima di quanto faccia lui stesso. Non gli servono parole, si volta e nei suoi occhi nocciola ci trova calore, ci trova tutto quello di cui ha bisogno.
E si sente strano, perché non gli succede di provare certe sensazioni dagli anni della scuola, quando aveva ancora il tempo e l’umore per le cotte adolescenziali.
Quei sorrisi e la sua semplice presenza inondano la stanza di colori. È l’unico momento in cui li vede, lì al San Mungo, in cui, finalmente, il bianco sparisce e le pareti non sembrano schiacciarlo. Si sente leggero e calmo tutte le volte che Neville compare. Ed è piacevole, dopo che la Guerra gli ha tolto praticamente tutto, poter contare nuovamente su qualcosa.
Ridono e chiacchierano serenamente e i ricordi di ciò che hanno perso per un po’ sbiadiscono, messi in confronto con quello che hanno trovato.
E poi Neville fa un passo verso quel nuovo mondo.
“Tra--tra poco vado via. Hai…” deglutisce, abbassando lo sguardo e arrossendo. “…voglia di bere una Burrobirra con me ai Tre Manici di Scopa?”
Theo sgrana gli occhi, indubbiamente sorpreso e, per un attimo, indugia. Non può negare di essere spaventato dalla possibilità di errore, di tornare a quel bianco accecante.
“Cioè, se… se non vuoi non c’è problema,” riprende Neville, mordendosi l’interno della guancia e continuando a non guardarlo.
“Sì che voglio,” risponde, prima di rendersene realmente conto.
E il sorriso che riceve in cambio è capace di cancellare qualsiasi dubbio.
Quando saluta suo padre, pochi minuti dopo, Theo riesce quasi a non sentire il senso di vuoto nello stomaco per quel sorriso assente che sembra dire: «Non ho idea di chi tu sia». Riesce, poi, mentre si dirigono insieme verso l’uscita dell’ospedale, a non sentirsi sovrastare dal bianco e dalle voci. C’è il sorriso e la voce di Neville, al di sopra di qualunque cosa.
E, infine, quando sono fuori dal San Mungo, il cielo gli sembra persino più azzurro del solito.