Titolo: L'amore conta
Coppia: Nebiros/Aaron
Rating: PG13
Parole: 1.532 (Word)
Prompt: Preghiera del
Meme della Quaresima di
michiru_kaiou7.
Avvertimenti: shonen-ai; hurt/comfort.
Note: Ambientato dopo la discesa negli Inferi (XD) e prima della morte di Aaron (molto prima!). Il titolo è ripreso dall'omonima canzone di Ligabue - così come la citazione iniziale.
Dedica: al Tessoro, che ultimamente vuole dell'h/c ♥ tanti auguri, Tesso'! Mille di questi biscotti, tremila di queste bambole e millemila di questi conigli ♥
L’amore conta
Conosci un altro modo
Per fregar la morte?
(“L’amore conta” - Ligabue)
Aaron non ricordava d’aver mai pregato. Da piccolo, quando suo padre lo picchiava, ubriaco come sempre, si ripeteva mentalmente ti prego, ti prego, smettila; ma era una preghiera rivolta a nessuno in particolare, forse solo al suo genitore violento. Fino a quando Nebiros non l’aveva portato via da quella casa, non era mai stato troppo sicuro di credere in qualcosa, in Dio.
Poi le cose erano cambiate: aveva scoperto la maledizione che ogni notte faceva soffrire Nebiros, aveva conosciuto la sua solitudine, la sua paura di restare da solo - senza realizzare che non era la solitudine a spaventarlo, ma il vivere senza di lui.
Quando era finalmente tornato nel castello sperduto nella foresta, Aaron aveva iniziato a pregare tutte le notti quel Dio che non conosceva, che lo intimoriva perché da sempre si era chiesto come potesse permettere tanto male nel mondo - suo padre che lo picchiava, i clienti di Pamela che avevano sempre storie tragiche da raccontare e, alla fine, la sofferenza di Pamela stessa. Meritava davvero tanto dolore, la sua amica, per aver stretto un patto con un demone? Certo, non un demone qualsiasi…
Aaron, però, aveva iniziato a pregare comunque. Per Pamela, affinché la sua sofferenza trovasse una fine, che ci fosse un rimedio a quel male che l’angosciava; per suo padre, ché sperava non fosse finito in un posto orribile come l’Inferno che aveva visto; e infine per Nebiros. Soprattutto per lui, pregava tutte le sere che la sua punizione finisse presto - non era già durata abbastanza? Dall’inizio dei tempi? Non bastava davvero?
Ma soprattutto, man mano che il tempo passava e lui si vedeva crescere diventando alto quasi quando Nebiros, diventando adulto, si rese conto che pregava soprattutto per sé stesso. Non sapeva cosa lo aspettava, Al-di-là, ma sapeva una cosa: che non sarebbe riuscito a sopravvivere senza di lui.
Forse le sue preghiere non funzionavano per quel motivo: perché erano dettate dal suo egoistico bisogno di non restare da solo, senza Nebiros.
*
Il sole del mattino illuminava tutta la stanza, nonostante le tende oscuranti fossero tirate; quel modo naturale di svegliarsi era sempre piaciuto molto ad Aaron ed ormai, dopo tutti quegli anni, era abituato a quel genere di risveglio. Voltandosi fra le coperte, godendo di quel sonnacchioso tepore, aprì gli occhi, sorridendo davanti all’espressione assorta di Nebiros; trovarlo lì accanto a sé, a guardarlo dormire, gli sembrava rassicurante, nonostante da ragazzo l’avesse trovato piuttosto imbarazzante.
“Buongiorno.” Mormorò, allungando una mano per sistemare al compagno una ciocca di capelli che gli era scivolata davanti agli occhi. Nebiros, però, la fermò, portandosela poi alla bocca per baciargli le dita - come se non fosse abituato a quelle tenerezze, Aaron arrossì, tirando indietro la mano.
“A volta mi tratti ancora come se fossi un ragazzino.” Disse imbarazzato e amareggiato.
“Perché ti comporti come tale.” Lo prese in giro l’altro e lui gli lanciò un’occhiataccia.
“Ho quasi quarant’anni, sai…”
“Ne hai trentotto. Sei ancora giovane.” Lo rassicurò Nebiros, carezzandogli i capelli con gesti gentili.
Aaron ridacchiò. “Per te che sei un essere millenario sarò giovane anche quando avrò ottant’anni. Ma per gli esseri umani non funziona così…” Disse con tono casuale, apparentemente indifferente; ma il sorriso era inquieto e gli occhi, fissi sul soffitto, sfuggivano lo sguardo dell’altro.
Il demone si limitò a fare uno sbuffo spazientito, non smettendo le sue carezze; non disse nulla, perché Aaron già sapeva che preferiva non ascoltare quei discorsi, né di prima mattina né mai.
“Sai, ho fatto un sogno stanotte.” Esordì quindi l’uomo, continuando a fissare il soffitto. “Ho sognato di risvegliarmi e scoprire d’avere ancora sedici anni. Tu mi sorridevi e mi dicevi che avevamo tutta la vita davanti, ed io capivo che era l’eternità ad aspettarci.” Aveva iniziato a tormentare le ciocche scure dell’altro, mentre raccontava, ma i suoi occhi non si erano mai posati sul suo viso.
Nebiros fece un piccolo sorriso di scherno. “Dio ha creato i sogni per ridere di noi quando ci svegliamo dopo averli fatti.”*
“Non mi piace quando parli così.” Lo rimproverò Aaron, temendo che in quel modo tutte le sue preghiere sarebbero state inutili.
“Ma è la verità.” La voce di Nebiros sembrò improvvisamente dura, mentre smetteva di carezzargli i capelli e si alzava dal letto. “Come hai detto tu: ho vissuto tanto a lungo, e queste cose le so.”
Aaron si alzò a sedere contro la testata del letto, guardandolo uscire dalla stanza con espressione accigliata.
Ti prego, non ascoltarlo. Ascolta solo le mie preghiere, pensò chiudendo gli occhi e giungendo le mani strette - come se stringerle fino a farle diventare bianche, servisse a rendere più intensa la sua invocazione.
*
Forse aveva fatto uno sbaglio a raccontargli il suo sogno: Nebiros era stato di cattivo umore per tutta la giornata e quella era una cosa che proprio Aaron non sopportava, perché lo metteva a disagio il silenzio ostinato dell’altro e poi anche perché gli sembrava che in quel modo perdessero del tempo prezioso - aveva timore di formulare quel pensiero coerentemente, ma la paura di non usufruire del tempo limitato che avevano a disposizione era sempre latente in lui, in ogni istante della loro vita insieme.
A sera, quando finalmente Nebiros sembrava tornato ad un umore ‘normale’, Aaron si azzardò a sedersi accanto a lui sulla poltrona. Immediatamente, le braccia dell’altro gli cinsero la vita, costringendolo a sedersi sulle sue ginocchia, in un gesto possessivo e imbronciato, come quello d’un bambino; l’uomo rise tra sé, intenerito da quel comportamento, ma non rifiutò l’abbraccio.
“Dobbiamo essere piuttosto ridicoli, visti da fuori.” Commentò divertito, immaginando sé stesso - ormai un uomo adulto - seduto in braccio all’altro.
“Se tu la smettessi con tutte queste critiche a te stesso…” L’apostrofò il demone, spingendolo via.
Aaron si alzò di malavoglia, guardandolo dispiaciuto. “Scusa.” Sussurrò a disagio.
“Invece di scusarti, dovresti smetterla di avere tutte queste paranoie.” Rispose Nebiros, passandosi nervosamente una mano fra i capelli. “Non c’è nessuno che ci guarda.”
“No.” Rispose dopo un attimo l’altro, mortificato, ma soprattutto amareggiato. “Ma io mi vedo ogni giorno allora specchio. Vedo i cambiamenti ed ho paura… Lascia perdere, tanto non capiresti, no?”
“Mi sforzo di capire. E sai che non lo farei per qualcun altro.”
“Sì, lo so.” Sorrise Aaron, tenendosi i bordi della camicia come avrebbe fatto un bambino.
“Quello che però non capisco è perché le mie rassicurazioni non servano a nulla.” Confessò infastidito il demone, guardandolo di traverso.
Lui quasi indietreggiò dietro quello sguardo penetrante - come quand’era un ragazzino impaurito e lo guardava con terrore e riverenza.
“Non mi credi?” Incalzò quello, facendo un breve ghigno senz’allegria.
“Vorrei. E non lo faccio per mancanza di fiducia, ma per mancanza di autostima.”
“Che sciocchezza…”
“Pensaci! Pensa un attimo dalla mia prospettiva, dannazione!” Gridò improvvisamente Aaron, sull’orlo del pianto. Non piangeva da anni, eppure sembrava così facile abbandonarsi alle lacrime… Ma invece no, sarebbe stato ridicolo alla sua età. La rabbia montò ancora di più, dopo quella riflessione.
“Non posso. Non sono mai stato un essere umano, non ho mai avuto un tempo limitato.” Nebiros alzò la voce, ma non gridò; lo faceva infuriare il fatto che nonostante tutto riuscisse a mantenere il controllo, a sembrare così gelido ed indifferente. Eppure ricordava la sensazione delle lacrime calde che gli cadevano sul dorso delle mani, mentre tentava di trattenerlo e chiedergli perdono, quando aveva tradito la sua fiducia, quando era diventato un licantropo.
Aaron si prese la testa fra le mani e crollò sulla poltrona di fronte, continuando a combattere stoicamente contro la sensazione pungente che gli chiudeva la gola e gli pizzicava gli occhi. Passò diverso tempo - gli sembrò tanto, ma non sapeva quanto né se la sua percezione era falsata dal silenzio - prima che Nebiros gli si avvicinasse e gli posasse una mano fra i capelli.
“Se pensi che ti lasci andare dopo tutto quello che ho fatto per ritrovarti e riportarti da me, vuol dire che non hai mai capito niente e che ho solo perso tempo.” Gli disse e, quando provò ad alzare la testa per guardarlo, lui strinse la presa, facendogli tenere il capo chino. “Non importa come sarai fra dieci, venti, cinquant’anni. Sarai sempre tu e questo mi basta.”
“Non potremmo fare un sacco di cose…” Protestò debolmente Aaron, ancora con la testa china.
“Non mi mancherà il sesso: sei sempre stato scarso.”
“HEY!” Esclamò l’umano, alzando la testa di scatto, per vedere il sorriso beffardo dell’altro. Non poté far altro che sorridere a sua volta, consapevole che quella battuta era solo la scusa per non pensare al resto - tutto quello che davvero non avrebbero potuto fare.
Dopo avergli dato un buffetto affettuoso, Nebiros si voltò, incamminandosi verso la porta. Prima di uscire dalla stanza, però, si fermò sull’uscio; non si voltò che di poco, in modo che il suo viso rimanesse celato nell’ombra. “Non dimenticartelo, Aaron. Odio ripetere le cose.”
L’uomo sulla poltrona sorrise, poi annuì. “Sì.” Disse poi, ricordandosi che l’altro non poteva vederlo; ma nonostante ciò, il demone si era già allontanato, perdendosi nell’ombra del corridoio.
Quando quella sera Aaron si coricò, fece le sue solite preghiere: per Pamela, per suo padre, per Nebiros.
Poi, mentre osservava il demone riposare accanto a lui, carezzandogli i capelli con l’espressione dolce e tenera di chi ama, fece un’ultima preghiera, per sé stesso: ti prego, fammi restare con lui il più a lungo possibile.
* citazione dal film "Cuori estranei".
E non è finita...