Volevo aggiornare prima, ma per tutta una serie di motivi che non starò a elencarvi non ce l'ho fatta, scusate :P Questo capitolo è un po' più lento del precedente, io mi sono divertita a scriverlo (soprattutto la prima metà, poi ho avuto qualche giorno di crisi creativa :D), spero che a voi piaccia altrettanto ^_^
Donati Legacy - 1.2
Ormai erano quasi cinque mesi che mi ero trasferita, perciò decisi che era venuto il momento di fare una cosa importante, che forse avrei dovuto fare già molto tempo prima.
Suonai il campanello e aspettai che venisse ad aprirmi la porta.
“Nicoletta...” mi disse la sua voce senza riuscire a nascondere il sollievo.
“Ciao, mamma” le risposi. Ci guardammo per qualche secondo e poi lei mi abbracciò.
“Vieni dentro, raccontami tutto”. Doveva aver capito che qualcosa era andato storto.
Rientrare nel salotto familiare della mia vecchia casa mi fece un effetto strano: da una parte mi sentivo felice, sollevata, come ci si sente rientrando da una giornata particolarmente stancante. Dall’altra sentivo negli occhi uno strano bruciore di lacrime trattenute; riconobbi la versione più intensa di quello che avevo provato tante volte guardando le pareti spoglie della mia nuova casetta: nostalgia e malinconia.
Mi misi a sedere sul divano mentre lei mi portava un po’ dei suoi biscotti... Avevo sentito la mancanza anche di quelli. Era decisamente brava in cucina, era stata lei a insegnarmi quello che sapevo.
“Vi siete lasciati, vero?” mi domandò lentamente.
“Sì, mamma. Appena sono arrivata là”. Ormai ero da lei, dovevo dirle tutto “Sono andata a casa sua, pensavo che sarebbe stato felice di vedermi, eravamo stati insieme per diversi mesi dopotutto. Ma ha aperto la porta e...” feci un sospiro e continuai, sforzandomi di non crollare e di non mettermi a piangere: “mi guardava come se fossi una mezza sconosciuta. ‘Ti avevo detto di non seguirmi’, mi fa ‘perché non mi hai dato retta?’. Non ha voluto darmi spiegazioni, niente, sembrava anzi che lo stessi annoiando. Diceva che aveva bisogno di cambiare vita, che a vivere coi suoi e a stare con me si sentiva come un adolescente invece che come un adulto. Mi parlava come se non fossi stata veramente io la sua ragazza, come se fossi soltanto una vecchia conoscente a cui racconti le tue ultime vacanze. E allora ho capito... Ho capito che non gli era mai importato granché di me. Mi sono resa conto solo in quel momento delle sue bugie, dei suoi tradimenti, del mio essere stata troppe volte cieca di fronte all’evidenza, tutte le volte che non si faceva sentire perché aveva degli ‘impegni’, tutte le volte in cui non ho voluto ascoltare i pettegolezzi su di lui e sulle sue scappatelle... Sono stata una stupida. Ti prego non dirmi che me l’avevi detto, lo so già da sola”. Guardavo il pavimento aspettando la ramanzina, che non arrivò.
“Nicoletta, saresti potuta tornare subito a casa. L’avevo capito dai tuoi sms che non stavano andando bene le cose. ‘Tutto bene, ci sentiamo presto’” recitò “Non è da te un messaggio del genere. Potevi telefonare e dirmi tutto invece di evitare sempre di farti sentire... Non ti avrei fatto nessuna scenata. Non sei una bambina, puoi andartene di casa se ti va, ma ti voglio bene e sai di poter tornare quando vuoi, anche adesso: la tua camera è come l’hai lasciata”.
La mia camera... Tutte le mie cose, i miei libri, i film, i vestiti che non ero riuscita a far entrare nel borsone... Incredibile quanto avessi sentito la mancanza perfino degli oggetti più stupidi. Mi guardavo intorno e respiravo aria di casa.
Mia madre mi seguiva con lo sguardo mentre mi fermavo a osservare i dettagli della casa, quelli che quando ci vivi non noti neanche, spesso. Le tende. Le maniglie delle porte. Il bordo intarsiato di una cornice. Gli interruttori della luce. “Tuo padre è via fino a domenica, sarà felice di rivederti quando tornerà...”.
Sentii un nodo alla gola, e all’inizio non riuscivo a capirne il motivo. Velocemente mi passarono per la mente tutte le novità della mia nuova vita: il lavoro al ristorante che stava andando bene, la casetta che era un po’ spoglia ma che ormai sentivo come mia, la routine sveglia - bicicletta - lavoro - pausa - lavoro - amici... Alice e la sua sincera amicizia, Daniele e la sua allegria, Daniele e la sua timidezza...
“Mamma” dissi in fretta “Mamma, io non credo che mi fermerò qua”
“Che vuoi dire?”
“Che ormai mi sono rifatta una vita. Non è perfetta, ma ho delle cose che mi piacciono, un buon lavoro e due amici a cui voglio un sacco di bene. Ormai è quella casa mia”. Vidi la tristezza nei suoi occhi, anche se cercava di nasconderlo. Dannazione quanto mi assomigliava, sempre a cercare di tenersi per sé le emozioni brutte. “Mi dispiace...” aggiunsi.
“Promettimi che ti farai viva più spesso”
“Ti chiamerò anche tutti i giorni! E devi venire a vedere casa mia... Magari quando sarà un po’ sistemata...”. E iniziammo a parlare del più e del meno, del mio nuovo lavoro, dei miei amici, e poi della sua nuova vicina appena sposata, e del fatto che mi sarei dovuta portare un po’ delle mie vecchie cose in casa nuova.
Decise di aiutarmi a inscatolare un po’ di roba e di accompagnarmi fino a casa mia con la macchina, in treno o in autobus da sola sarebbe stato impensabile.
Mentre lei andava a recuperare degli scatoloni io mi misi a fare un veloce inventario delle mie cose: scelsi un po’ dei vestiti da portarmi via, lenzuola e biancheria varia, e sistemai tutto sul letto. Poi i miei libri... Mi sarebbe servita una libreria nuova, non potevo lasciarli lì.
Mi misi a sedere alla scrivania sfogliando uno dei miei quaderni di ricette, e mentre lo sfogliavo scivolò fuori una cartolina. Quando mi chinai a raccoglierla la riconobbi: Barcellona. Senza neanche pensare a quello che stavo facendo la voltai e iniziai a leggere:
Cara Nico, qua è tutto fantastico, ci stiamo divertendo un mondo. La sera abbiamo sempre qualcosa da fare.
A presto, ti chiamo appena torno.
Vittorio
Eccome se la riconoscevo. Che strano, al tempo in cui me l’aveva spedita mi era sembrata una cosa così dolce, “ti chiamo appena torno”... Adesso che avevo riacquistato la lucidità persa nei mesi passati con lui attirava di più la mia attenzione la frase “La sera abbiamo sempre qualcosa da fare”. Non avevo dubbi. Non si faceva problemi a passare da un letto all’altro. Probabilmente nemmeno in quelli degli alberghi barcellonesi. Chissà quanto aveva riso insieme ai suoi amici nello scrivermi quella frase ambigua...
Alzai lo sguardo sbuffando sarcasticamente e vidi mia madre sulla porta, impassibile.
“Questo è da tenere” e buttai il quaderno di ricette sul mucchio di libri che avevo accatastato poco prima sulla scrivania “Questa è da buttare” e sventolai la cartolina un paio di volte prima di strapparla e gettarla nel cestino.
Non mi ero portata dietro troppe cose, quindi la mattina dopo non fu difficile far entrare tutto nella macchina di mia mamma. I 70 Km di strada furono abbastanza piacevoli, le differenze rispetto alla volta precedente in cui avevo percorso quella strada erano evidenti: la prima volta ero su un pullman con un borsone con poca roba, con l’ansia e l’attesa della felicità che avrei provato riunendomi al mio amore - evidentemente una speranza vana - ora ridevo e scherzavo in automobile con una delle persone a cui volevo più bene al mondo e con tutti gli oggetti a me più cari nel bagagliaio.
Non che la solita malinconia di sottofondo mi avesse abbandonata, comunque. Ma ci stavo facendo l’abitudine.
Durante il viaggio avevo telefonato ad Alice e Daniele per invitarli a cena, dato che mia madre voleva conoscerli, e quando si presentarono a casa mia noi eravamo ancora impegnate a montare la libreria comprata nel pomeriggio.
Ero in condizioni pietose, perciò mia madre si offrì di preparare la cena mentre io andavo a farmi una doccia.
Mi lasciavo scorrere addosso l’acqua calda ripensando alle due giornate particolari appena passate. Particolari perché piene di nostalgia, malinconia e ricordi che fino a poco prima mi avevano fatto male. Fino a poco prima però, appunto. La cartolina non mi aveva messo tristezza, e così nemmeno le foto che ritraevano me e Vittorio allegri e spensierati. Vittorio. Riuscivo anche a pensare, forse pure pronunciare il suo nome adesso: Vittorio. Sorrisi. Ero sempre malinconica, ma pensare a lui non mi faceva più venire voglia di scappare piangendo o fare cose insensate, e probabilmente avrei addirittura potuto incontrarlo per strada e rimanere impassibile.
Quando rientrai in salotto mi arrivarono il profumino della cena e le risate di tutti e tre.
“Nicoletta, non ci avevi mai detto di avere una mamma ancora più brava di te in cucina!” mi disse Alice
“Aiuto, stanno cercando di rapirmi questi due!” esclamò mia madre ridendo e indicandoli con un mestolo.
La serata continuò su quel tono finché non crollai quasi addormentata sul tavolo, dopodiché Alice e Daniele se ne andarono.
“Simpatici i tuoi amici” commentò mia madre “E Daniele... Io ci farei un pensierino, se fossi in te”
“Mamma, ma dopo quel che ho fatto con quell’altro non credo sia il caso...”
“Bimba mia, sai probabilmente meglio di me che non devi continuare a tenere per lui le tue attenzioni. O hai paura che possa finire di nuovo allo stesso modo?”
Non risposi, aveva colto nel segno: era quello il motivo principale, oltre al fatto che fino al giorno prima avevo continuato a pensare a Vittorio. “Beh, Daniele lo conosci sicuramente meglio di me, ma io non ce lo vedo a fare certi gesti... Pensaci, se ti piace - e so che ti piace”.
“Buonanotte, mamma” le risposi sorridendo e mi infilai nel letto.
Aveva ragione? Mi piaceva Daniele? Di sicuro gli volevo bene come amico, e di sicuro la sera in cui si era dichiarato mi ero sentita emozionata come se fosse quello che desideravo. Però avevo continuato a rifiutarlo, e anche dopo i due giorni in cui ero riuscita a non sentire la mancanza di Vittorio probabilmente avrei finito per dirgli di no. Mi sentivo pesantemente confusa...
La mattina dopo non ricordavo più se tutti quei pensieri li avevo fatti da sveglia o in sogno, ma avevo poco tempo per pensarci: mia madre si era alzata molto prima di me e stava rientrando in casa con due secchi di vernice:
”Su, sveglia, diamo un po’ di vita a questa stanza!” mi disse mettendomi un pennello in mano
“Mamma, ma io ho ancora gli occhi appannati dal sonno, aspetta un attimo!”. Menomale avevo ancora un paio di giorni di ferie.
Effettivamente quella di ridipingere le pareti non fu una cattiva idea: i muri, che ora erano di un piacevole giallo pastello, davano un po’ più di luminosità e di allegria all’interno della mia casetta. Per l’esterno avevo ancora tempo...
Erano stati tre giorni piacevoli, ma non fui troppo triste quando ripartì mia madre, perché sentivo che qualcosa si era messo per il verso giusto: avevo ritrovato un po’ di stabilità, e questo mi rendeva ottimista.
Temevo che l’euforia nata in quei giorni potesse svanire col passare del tempo, invece tre settimane dopo ero ancora allegra e spesso mi sentivo spensierata come se fossi tornata ad avere sedici anni. Non sentivo quasi mai la mancanza di Vittorio, se non ogni tanto di notte prima di addormentarmi, e quando succedeva la mattina dopo mi rendevo conto che non lo pensavo davvero, ma la notte, si sa, la malinconia prende più facilmente, perciò finii per non dare troppo peso a quegli episodi. Anche perché temevo che Alice avrebbe potuto strangolarmi, se mi avesse scoperta a rimuginare ancora su di lui...
La sera del mio compleanno avevo invitato a cena Alice e Daniele e mi ero data da fare per preparare qualcosa di buono e di diverso dal solito. Prima del dolce tirarono fuori un regalo per me: dentro c’era un set di barattoli da cucina.
“Un piccolo contributo per la tua casa nuova” disse Daniele sorridendo. Li abbracciai entrambi per ringraziare, il regalo mi piaceva davvero tanto.
Mentre mangiavamo il dolce mi resi conto di una cosa: le varie sensazioni di euforia e spensieratezza degli ultimi tempi erano più accentuate in compagnia di Daniele, e non solo quella sera, non solo negli ultimi giorni, ma anche prima di rivedere mia madre; più o meno da quando l’avevo conosciuto, o poco dopo, insomma. Forse aveva ragione mia mamma, non avrei dovuto rifiutarlo...
Sarà stato per l’aria spensierata della serata, per la felicità per il regalo, sarà stato perché avevamo brindato un po’ ed eravamo più allegri del solito, ma mi decisi. Appena Alice fu fuori dalla nostra portata presi Daniele da parte e gli dissi:
“Senti, che ne dici se... Be’, potremmo uscire insieme, da soli intendo, qualche volta. Ti va?”
“Mi stai chiedendo un appuntamento?” mi fissava un po’ stranito, non se l’aspettava
“Be’, sì. Sempre se ti va...”
“Eccome! Ehm, sì, d’accordo”. Sorrisi. Povero Daniele, quanto tempo l’avevo fatto aspettare... Ma passò il resto della serata sorridendo costantemente, e io pure.
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Vi dico subito che non so quando riuscirò a finire il prossimo capitolo, perché in questi giorni ho abbastanza da fare con l'università. Ma cercherò di aggiornare prima possibile ^_^ (sperando di non cadere di nuovo nella crisi creativa avuta durante la scrittura di questo capitolo :P)