SherlockBBC; maritombola; A hug is like a boomerang

Dec 12, 2010 22:28

0.

Sua madre l’abbracciava spesso quando era piccolo e a volte Mycroft lo prendeva tra le braccia, stando attento a non farlo cadere a terra, prima di andare via perché doveva occuparsi di dirigere il consiglio studentesco dell’asilo (che esisteva esattamente dal giorno in cui Mycroft aveva messo piede nel cortile e l’aveva creato, ovviamente).

Sherlock, però, non ricordava di questi abbracci - come avrebbe potuto? Sebbene fosse un genio, e su questo non c’era alcun dubbio, c’erano alcune cose che andavano anche oltre le sue capacità - quindi non rientravano nel suo conto.

Andavano menzionati, però, perché derivava probabilmente da quelli la sensazione di calore che provava, per un secondo, quando qualcuno l’abbracciava ancora adesso - una sensazione che svaniva nel secondo in cui il suo cervello registrava il fatto che qualcuno lo stesse toccando.

1.

La prima volta, a che si ricordava, in cui qualcuno l’aveva abbracciato era stata quando lui aveva sette anni e mezzo e una delle amiche di mamma, una di quelle particolarmente stupide (Mary Ferguson, 52 anni, disoccupata, aveva mangiato un’insalata con molto olio per pranzo, suo marito la tradiva con la cameriera e con la sua segretaria e forse con la fornaia, aveva bisogno di maggiori studi), vedendolo entrare nel salotto - e sì, questo era stato un errore di Sherlock, un errore imperdonabile - aveva pensato che Sherlock fosse estremamente adorabile.

Sua madre l’aveva chiamato, per presentarlo alle donne e Mary l’aveva abbracciato, complimentandosi perché stava diventando davvero un ometto.

Sherlock aveva la risposta pronta (quell’affermazione era assolutamente stupida perché ovviamente stava crescendo, era intrinseco nella natura umana crescere e, comunque, ometto non era una parola e non era nemmeno una fase della crescita quindi…) ma poi era stato sommerso dal suo odore - sudore, profumo e l’aroma dell’olio che ancora rimaneva attaccato alla sua pelle - e dal calore eccessivo che proveniva dalla sua carne.

Si era divincolato velocemente, ripugnato e un po’ spaventato (non gli piaceva essere toccato, non particolarmente, gli arrivavano troppe informazioni al cervello e non era in grado di fermarlo) «Suo marito la tradisce!» aveva urlato, mentre correva via.

Da quel minuto in poi la signora Mary Ferguson, ormai tornata Mary O’Hain, non era andata più a casa Holmes e nessuna delle amiche della mamma l’aveva più toccato.

Sherlock era soddisfatto per entrambe le cose.

2.

Quando quella ragazza gli si era buttata addosso Sherlock era rimasto paralizzato cercando di capire cosa stesse facendo.

In tutto il suo liceo Sherlock veniva considerato lo strano, quello da cui stare lontani. A Sherlock andava bene, non c’era nessuno d’interessante nella sua classe, né nel resto della scuola quindi il fatto che non gli parlassero era una vera manna dal cielo - non aveva, comunque, bisogno che lo facessero per poter capire per chi avevano una cotta, che voto avevano preso o se avessero studiato.

Poi, un giorno, una ragazza l’aveva avvicinato durante la pausa pranzo. Sherlock era, come al solito, seduto sotto un albero nel cortile della scuola che osservava il modo in cui delle formiche disponevano del corpo di un ape quando lei era arrivata.

Si chiamava Anne Hatteway, era della classe accanto a quella di Sherlock, faceva scherma ed equitazione, aveva mangiato in fretta e furia - probabilmente per arrivare lì prima che suonasse la campanella - si era rifatta il trucco poco prima e quella mattina era arrivata a scuola con la bicicletta. E apparentemente si stava dichiarando a Sherlock.

Gli stava dicendo che gli piaceva la sua compostezza, i suoi occhi e qualcosa riguardo ai suoi vestiti… Sherlock non capiva. Non capiva perchè lo stesse tediando a quel modo o perché fosse così interessata a rivelargli i suoi pregi.

Poi lei gli si era lanciata addosso - okay, no, probabilmente era accaduto in maniera un po’ meno brutale, ma per una volta Sherlock riteneva di potersi permettere di essere meno obbiettivo - e Sherlock era rimasto impietrito mentre i suoi capelli gli solleticavano la guancia e le sue braccia gli stringevano la gabbia toracica con un po’ troppa forza.

L’incidente si era concluso con Anne in lacrime e Sherlock che si chiedeva, per l’ennesima volta, perché mai gli esseri umani si sentissero obbligati ad infliggere un tale supplizio a chi stava loro vicino.

3.

All’università Sherlock aveva deciso che era arrivato il momento di scoprire perché un’abbondante parte del cervello umano era divorato dal sesso. Sherlock non capiva perché fosse così attraente agli occhi di tutti (c’erano giorni in cui i ragazzi che occupavano il tavolo accanto al suo in mensa non parlavano d’altro).

Dunque un giovedì sera Sherlock decise di provare.

Sebastian (suo coetaneo, aveva mangiato un cheeseburger per cena, aveva una relazione con Lisa da un anno, ma in realtà si stavano per lasciare perché Lisa aveva trovato un altro) era la cavia perfetta. Sebastian lo prendeva in giro più di tutti gli altri e spesso l’aveva chiamato “checca” con molto più odio di quanto chiunque altro avesse mai dimostrato.

Sherlock ne aveva dedotto che Sebastian, in realtà, provava qualcosa per lui ma che, come ogni povero essere umano che non possedeva la sua intelligenza, riteneva di poterglielo nascondere - a Sherlock, come a tutti i suoi amici - comportandosi da stronzo.

C’era un motivo se era Sherlock il genio e non lui. Il punto, comunque, era che ora c’era Sebastian, che lo toccava e lo baciava ed era peggio, decisamente peggio, di quanto Sherlock avesse immaginato.

Il tocco di Sebastian era invadente, sporco e ogni volta che toccava la sua pelle, Sherlock provava l’istinto di spingerlo via, il più lontano possibile, o di colpirlo in testa con la sveglia che si trovava sopra il comodino.

Invece Sherlock era rimasto fermo mentre Sebastian spingeva e si affannava. Quando tutto era finito e Sebastian s’era buttato addosso a lui, in una specie di abbraccio, Sherlock aveva deciso che sarebbe stata l’ultima volta. Che non ne valeva assolutamente la pena.

4.

Sherlock sapeva  di avere esagerato, anche nello stato di completa confusione in cui si trovava sapeva di aver raggiunto ed oltrepassato il limite. Non riusciva a pensare bene, il che era inammissibile e i suoi movimenti gli sembravano estranei, come se qualcun altro stesse manovrando il suo corpo.

Era insopportabile, asfissiante e Sherlock voleva che finisse. Non ricordava perché avesse cominciato a farsi - probabilmente un esperimento, era sempre un esperimento - ma fino a quel minuto si era sempre contenuto abbastanza da permettere alla sua mente di reagire velocemente agli stimoli e al suo corpo di scattare quando ce ne era bisogno.

Quel giorno, però, aveva deciso di vedere fino a che punto sarebbe potuto arrivare, spinto dalla noia e dalla voglia di sapere aveva lasciato che più sostanza gli entrasse nelle vene, mandandolo in un mondo che non era il suo, in cui gli stimoli non riuscivano ad arrivare a quella parte del suo cervello che li catalogava in utili ed inutili. Semplicemente non riusciva a funzionare.

Quando Mycroft era arrivato - l’aveva chiamato Sherlock? Una delle sue spie l’aveva avvertito? Aveva installato una telecamera in casa sua? - e l’aveva fatto alzare da terra senza molta grazia, Sherlock non si era ribellato. Non era capace di tenere testa a Mycroft che, gli seccava ammetterlo, era una delle persone che possedevano una mente che poteva anche sperare di rivaleggiare con la sua (sebbene per pochi minuti). Quindi si era affidato a suo fratello, come non faceva da anni ed anni - come forse non aveva mai fatto - e l’altro l’aveva tenuto in piedi, abbracciandolo e rifiutando l’aiuto della donna dai mille nomi e di tutti gli altri suoi tirapiedi.

Il giorno dopo Sherlock avrebbe cominciato, costretto da Mycroft, la riabilitazione, ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro che non al braccio dell’altro attorno alla sua vita. E per una volta un abbraccio non gli era sembrato così orrendo.

5.

Il criminale stava scappando e Sherlock si era buttato al suo inseguimento immediatamente, lasciando l’intera squadra della polizia a corrergli dietro.

Sherlock aveva raggiunto il criminale sul ponte e questo l’aveva gettato nel fiume - Sherlock non era particolarmente fiero del fatto che il criminale fosse riuscito a batterlo, ma i fatti erano i fatti - e mentre si trova in acqua Sherlock pensò a tante cose: a come l’acqua fosse incredibilmente gelida, a come si suoi vestiti si stessero appesantendo costringendolo ad annaspare per tornare in superficie.

Poi all’improvviso qualcuno gli aveva preso il braccio e lo stava tirando fuori, trascinandolo a galla.

Quando emerse dall’acqua e si rese conto che quella persona era Anderson e che, ora, si stavano quasi abbracciando, pensò che morire annegato non sarebbe stato poi tanto male.

«Cosa stai facendo, Anderson?» chiese, cercando di mantenere un minimo di controllo.

«Stavi affogando, pazzoide! Affogando, dovresti essermi grato!» sbraitò quello, cominciando a nuotare verso la riva, seguito a ruota da Sherlock.

«Non stavo affogando, stavo cercando di capire per quanto tempo potessi trattenere il respiro prima di…» cominciò, perché non avrebbe mai ringraziato Anderson e perché ricordava ancora i punti in cui l’aveva toccato. Dio, si sarebbe dovuto fare una doccia.

1.

Per una volta nella sua vita a Sherlock non interessava analizzare ogni singolo particolare, ogni singolo avvenimento. Come fossero arrivati lì, come fossero sopravvissuti, qual’era la forza del colpo, quanto esplosivo c’era. Non gli interessava (anche se il suo cervello continuava a fare calcoli che lui non voleva sapere, come quali erano le probabilità che John ne uscisse vivo, che non perdesse un occhio e cose simili).

Quando si era alzato in piedi, la gamba che gli faceva un male cane, sangue che gli colava sull’occhio e aveva visto John, pieno di sangue e di ferite, ma vivo, incredibilmente vivo, non era riuscito a fare altro se non andare davanti all’altro e piegarsi davanti a lui.

S-sto bene, Sherlock, aveva detto John, a voce troppo bassa e troppo ansante. E Sherlock l’aveva abbracciato, così, perché aveva sentito il bisogno impellente di sentire il battito di John contro il suo petto e il respiro caldo sulla pelle e stava bene, stava bene.

E poi aveva realizzato che c’era qualche parte di lui che era terrorizzata dal fatto che John lo respingesse, che non lo abbracciasse a sua volta - e non capiva perché, dato che Sherlock odiava gli abbracci - e si chiese se anche Anne si era sentita così quando Sherlock non aveva ricambiato l’abraccio.

Poi John aveva portato il braccio - l’unico che sembrava in condizioni quantomeno decenti - a circondargli le spalle, poggiandogli una mano sulla schiena e Sherlock si era sentito immediatamente meglio.

Forse il problema era che, fino a quel minuto, non aveva mai risposto agli abbracci, forse il segreto era che per essere una cosa bella un abbraccio doveva essere voluto da entrambe le persone. Forse era bello solo perché era John, Sherlock ancora non lo sapeva, ma in quel minuto non gli importava.

!fanfiction, *maritombola, character: sherlock holmes, fandom: bbc!sherlock

Previous post Next post
Up