Titolo: Il Cielo resta a guardare
Fandom: Originale
Coppia: Atlas/Elehim
Rating: Nc17 (Corposo)
Genere: Dark, Angst, Romantico
Avvertimenti: Non consensuale, Non per stomaci delicati, Slash, Scene di sesso, Morte di personaggi secondari, Sovrannaturale, Violenza descrittiva.
Capitolo: Capitolo 3/25
Prompt: Sangue per
bingo_italia Note: Valgono quelle al primo capitolo.
BUONA LETTURA
Capitolo 2 - Il Peccato: la furia del loro Dio CAPITOLO 3
L'odore del suo sangue
Quando Atlas rientrò nella sua tenda, Danil Elehim, il suo prigioniero, era profondamente addormentato, immobile nella stessa identica posizione in cui l'aveva lasciato, il busto un poco sollevato dalle pelli e il corpo avvolto da coperte calde. O almeno questo fu ciò che riuscì a dedurre perché, oltre l'odore del sangue e di bisogni stantii, null'altro avrebbe potuto smascherare la presenza del ragazzo. I suoi sensi, perennemente all'erta, sembravano essersi d'un tratto spenti.
Contrariamente a quanto aveva supposto però, il sonno era tutt'altro che profondo e i sensi del ragazzo erano pienamente funzionanti ed all'erta. Atlas non poté avvicinarsi più di un passo che due occhi di un verde malachite striato di viola si aprirono fissandosi nei suoi. Freddi laghi ghiacciati spazzati dal vento siberiano, immobili e profondi. Si sentì improvvisamente nuovamente a casa; eppure quella casa sarebbe dovuta essere tutt'altro che accogliente. Nemmeno un tremito ne scalfiva la rigidità, nemmeno uno scintillio dimostrava l'esistenza di qualcosa di vivo al suo interno. Vuoto, solo ed esclusivamente il vuoto di un'anima maledetta da un Dio.
Perché non c'era alcun dubbio su questo: Dimitri aveva invocato il suo Dio e quello gli aveva prontamente risposto. O questo, o il ragazzo di appena venti inverni che aveva innanzi era completamente impazzito dopo più di dieci giorni nelle mani dell'armata più potente del continente e gli Dei avevano avuto pietà di lui, strappandogli l'anima dal corpo.
Ma quegli occhi fissi su di lui erano ancora troppo vivi per aver ceduto alla pazzia. Ma la prima opzione... beh, la prima era terrorizzante, persino per uno come lui.
Non si mosse, aspettò per qualche lungo istante una reazione da parte dell'altro, ma nulla sembrò intaccare quella calma ascetica. Calma apparente, solo per il suo istinto anestetizzato; ma gli occhi blu del mezzo-demone potevano vedere come tutti i muscoli di quel corpo emaciato fossero rigidi per la tensione.
E d'un tratto, come un fulmine che illumini la notte, si rese conto che un principe non poteva essersi ridotto in quello stato solo in dieci giorni. Di più... era rimasto in mano ai Mongoli...
Cercò di far mente locale su quello che aveva sentito riguardo a quella fuga e a quando era avvenuta e si ritrovò ad esser grato di avere il sostegno semi-rigido della tenda. Danil Elehim Romanovich, era nelle mani di Batu Khan dall'inizio dell'assedio.
Risollevò gli occhi che si erano persi nelle sue elucubrazioni e tornò a fissare quelli freddi del suo trofeo sentendo un rispetto crescente salirgli al petto.
Un guerriero spezzato, ma non piegato e che, nonostante tutto, aveva ancora la forza per alzare la testa di fronte al nuovo pericolo.
"Sono Nikolaj Zephanovich." si presentò quando ritrovò l'uso della parola, parlando piano e posando una mano sul proprio petto "E sono un mezzo-demone." concluse.
Gli occhi di malachite non si spostarono di un millimetro, sembravano diamanti intagliati tra le palpebre, circondati da una selva di ciglia nere e lucide, immobili nella loro fissità.
Provò ad avvicinarsi di un altro passo e vide quegli occhi allargarsi impercettibilmente, il piede scoperto e legato alla trave centrale contrarsi e distendersi, come a cercare di saggiarne la consistenza senza dar troppo nell'occhio. Non appena gli occhi di Atlas vibrarono in direzione del suo piede, questo si tese nuovamente. Immobile.
"Non voglio farti del male." aggiunse alzando le braccia in segno di resa, ma i muscoli del ragazzo rimanevano granitici.
Si sedette accanto al legno centrale della sua tenda, stando attento a non toccare la catena.
Ammaestrare il suo cane era stato più semplice. Forse perché, dopotutto, i cani vogliono un padrone. Lui... lui se pure non fosse stato un maledetto senz'anima, era pur sempre un principe, l'erede della dinastia dei Romanovich: uno come lui non avrebbe mai potuto voler un padrone.
Atlas scossa la testa e i suoi lunghi capelli neri gli scivolarono sulle spalle. In quel momento alzò lo sguardo incerto sui capelli del suo prigioniero. Neri. Nonostante il sudiciume erano irrimediabilmente neri. Non aveva mai visto uomini dell'ovest dai capelli scuri come i suoi. O così lisci. Persino aggrovigliati dalla sporcizia si capiva che quei capelli dovevano avere la sinuosità degli spaghetti crudi.
"Devo lavarti." gli disse "Quindi tu te ne resti qui e io vado a prendere la tinozza." si alzò facendo forza sulle sole gambe ignorando il sobbalzo istintivo dell'altro. Gli diede le spalle e uscì, dandosi dell'idiota. Come poteva pensare che il Principe di Kiev conoscesse il dialetto mongolo? Sicuramente non aveva afferrato nemmeno una parola di tutto ciò che aveva detto e, se era fortunato, sarebbe stato semplicemente troppo debilitato per poter anche solo pensare di scappare. Sbagliato un'altra volta. Un pensiero in tal proposito l'aveva già fatto nell'esatto momento in cui lui s'era avvicinato.
Sperava solo di non esser costretto ad andar a caccia del fuggiasco, o questa volta quello scricciolo non si sarebbe salvato: sembrava che il solo a volerlo vivo fosse Batu Khan, per capire quanto il Dio delle popolazioni dell'ovest fosse potente, ma in una caccia non era così raro che la preda venisse inavvertitamente uccisa.
Ordinò a dei portantini di preparargli una tinozza calda, direttamente nella sua tenda, e tornò indietro a cercare di stabilire un rapporto con il proprio insensibile coinquilino.
Quando rientrò in tenda Elehim era ancora immobile sulle pelli di lupo. Il cristiano aveva un'altra volta gli occhi fissi sulla sua figura e sentì tutta la tensione accumulata per la presenza dell'altro abbandonarlo immediatamente, come se non fosse mai esistita.
Il labbro inferiore finì per un istante tra i denti: non aveva altra scelta, doveva avvicinarsi per poterlo pulire e lavare via il sangue rappreso per disinfettare quelle piaghe che, altrimenti, l'avrebbero portato alla morte. Forse era proprio quello che voleva, ma lui, al momento, non l'avrebbe permesso.
Il primo approccio fu a dir poco disastroso: molte delle numerose ferite infette che aveva disseminate su tutto il corpo si riaprirono per via dei movimenti improvvisi e violenti di Danil ogni volta che Atlas provava a sfiorarlo.
Assomigliava ad una delle molle delle loro catapulte, tesa al massimo, in bilico tra lo spezzarsi e il vibrare il colpo decisivo. Quando finalmente riuscì a bloccarlo se lo tenne stretto a sé, immobile, deciso a imporre una sorta di imprinting a quella creatura indomabile. Non ci volle molto perché Danil Elehim perdesse i sensi, per colpa della perdita di sangue o per lo shock d'essere intrappolato tra le braccia di qualcuno. O forse per entrambe le cose.
I portantini che non avevano smesso un attimo di riempire la tinozza fuori misura del loro guerriero avevano osservato, di sfuggita, tutta la scena. Prima che voci infondate si spargessero per tutto l'accampamento, Atlas ordinò a uno di loro di andare a riferire a Batu Khan che, la prossima volta che fosse interessato a fargli un dono, s'accertasse almeno che non fosse rotto.
Il portantino sbiancò, ma mentre usciva, la voce di Atlas lo riportò tra i vivi.
"Poi torna con bende pulite." un'ipoteca sulla propria vita.
Con uno sbuffo stanco il mezzo-demone tornò ad occuparsi del proprio trofeo, togliendogli la catena dalla caviglia e stracciandogli con un coltello i pochi stracci che aveva addosso.
Il corpo era una costellazione di ferite e lividi, tumefazioni ed escoriazioni.
Raramente aveva visto corpi ridotti allo stesso modo ancora in grado di ribellarsi ed agitarsi così come aveva fatto Danil.
Lo prese in braccio e lo depose nella tinozza: non pesava nulla.
Con una spugna recuperata da chissà quale bottino, massaggiò piano la pelle martoriata mentre l'acqua diveniva via via più torbida. Prima che il portantino tornasse con le bende richieste - e con cinque segni di frusta sulle spalle magre - aveva dovuto cambiare l'acqua tre volte.
La schiuma del sapone ereditata assieme alla spugna, aveva restituito ai capelli la perduta lucentezza e la pelle, dov'era ancora intatta, era bianca esattamente come si aspettava.
Un ragazzo fatto di notte e di luna.
Con un unguento dall'odore nauseabondo coprì tutte le piaghe e le fasciò accuratamente per poi adagiare il suo paziente sulle nuove coltri pulite.
Il ragazzo dormì per una veglia appena, prima di svegliarsi di soprassalto. Per tutto il tempo, Atlas l'aveva visto agitarsi e gli occhi, sotto il velo sottile delle palpebre, non si erano fermati un solo istante. Pugni fasciati in bende maleodoranti s'abbatterono, innocui, sul torace del mezzo-demone che l'aveva prontamente afferrato.
Un braccio robusto venne passato dietro le spalle per schiacciarselo addosso e far terminare la pioggia di pugni; la mano libera andò ad afferrargli la mascella.
Gli occhi si persero negli occhi per un lunghissimo istante prima che il presente scacciasse l'incubo.
I muscoli si rilassarono tutti, uno per volta, finché anche le palpebre non tornarono a calare a mezz'asta su quegli occhi vuoti.
Danil Elehim si lasciò toccare, maneggiare, manipolare senza che mai, nemmeno un muscolo s'irrigidisse. Atlas esaminò la distorsione alla spalla, se lo rigirò tra le mani sciogliendo le bende e rifacendo i medicamenti.
"Come ti senti?" gli chiese andando a cercare con due dita la carotide. Il ragazzo lo osservò, con quegli occhi un po' sgranati e aperti sul mondo come a volerne assorbire ogni particolare, ma non disse nulla.
Da una parte Nikolaj non era minimamente stupito del fatto che non avesse risposto, dopotutto non parlavano certo la stessa lingua, ma ce n'era un'altra che gli suggeriva come invece non fosse normale che non avesse ancora detto nulla, nemmeno per insultarlo cosa che, date le circostanze, sarebbe stata decisamente normale.
Lui invece rimaneva in silenzio, qualunque cosa gli succedesse intorno, non aveva mai aperto bocca se non per gridare di dolore.
Con due dita gli afferrò la mandibola e tirò dolcemente indietro la testa, di modo da esporre il collo niveo al proprio sguardo, ma nulla: non vi erano cicatrici o altri segni esterni che potessero giustificare il suo silenzio e, anche quando gli fece spalancare la bocca per controllare, gli sembrò che tutto fosse al proprio posto.
Lui si fece fare di tutto e Atlas rasserenato dalla sua ispezione, provò a dargli una ciotola colma di una zuppa calda, ma l'altro non volle saperne.
S'era spento.
Il mezzo-demone cercò di trovare un modo per farlo mangiare, ma a meno di non usare la forza - e anche in quel caso aveva dei dubbi che avrebbe funzionato - non vedeva come poterlo indurre a prendere un boccone. Da quanto tempo non mangiava? Da quanto, effettivamente, era in mano ai suoi commilitoni? Cosa gli avevano fatto?
Tutte quelle domande necessitavano di una risposta. Ma sicuramente questa non sarebbe venuta da Danil.
Legò nuovamente la caviglia dell'uomo alla catena e uscì, dirigendosi a passo svelto verso i tre che gli avevano portato il nuovo dono. Loro, sicuramente, avrebbero parlato. E, altrettanto sicuramente, non avevano nemmeno bisogno di un incentivo per elogiare la propria crudeltà.
Stette ad ascoltare le loro chiacchiere per quasi una veglia e l'idea che si fece delle condizioni del suo trofeo non fu delle più rosee. Tutt'altro.
Danil Elehim era rimasto nell'accampamento alla periferia di Kiev, tra la palude che li aveva traditi e il fiume fin dal primo giorno d'assedio. Da quanto aveva capito quella stupida della sorella - o dell'amante, le versione erano discordi in questo - aveva pensato bene di uscire a pattinare sul fiume ghiacciato, nonostante il coprifuoco e lui e la sua scorta erano andati a riprenderla.
Ovviamente erano finiti tutti nelle mani dei mongoli.
La cosa che lo lasciò perplesso fu sapere che, prima di catturarli, Danil e la sua scorta avevano fatto fuori quasi venti guerrieri e che il Principe, da solo, aveva avuto la meglio su tre combattenti.
Per questo, ovviamente, la ritorsione fu atroce.
Non stentava a credere al fatto che ora il ragazzo volesse morire. Quello che doveva aver visto, lo giustificava a pieno. E capiva anche il perché degli incubi. Se poi a questo quadro idilliaco ci si aggiungeva anche vedere la propria ragazza - che fosse sorella, amante o moglie, poco importava - data in pasto ai cani... beh, non c'era molto da potergli contestare.
A parte il troppo amore.
Perché che si stesse colpevolizzando di qualcosa era chiaro persino ai suoi occhi e nonostante il poco tempo passato assieme. Ma la colpa, era evidente, non ce l'aveva lui.
Fine Capitolo 3
Capitolo 4: Malattia del corpo e Malattia dell'anima