Titolo: Il Cielo resta a guardare
Fandom: Originale (
snightmare )
Coppia: Atlas/Elehim
Rating: Nc17 (Corposo)
Genere: Dark, Angst, Romantico
Avvertimenti: Non consensuale, Non per stomaci delicati, Slash, Scene di sesso, Morte di personaggi secondari, Sovrannaturale, Violenza descrittiva.
Capitolo: Capitolo 4/25
Prompt: Malattia per
bingo_italia Note: Valgono quelle al primo capitolo.
BUONA LETTURA
Capitolo 3: L'odore del suo sangue Capitolo 4
Malattia del corpo e Malattia dell'anima
Erano passati un paio di giorni e la vita, lì sulle sponde del İdel non era diversa dal solito andirivieni consueto in un accampamento di quelle proporzioni che si apprestava a tornare in patria dopo schiaccianti vittorie su tutti i fronti, ma per Atlas era tutto diverso. E ciò che cambiava del tutto la prospettiva era la presenza del suo trofeo, Danile Elehim, e il fatto che si ostinasse a non voler ingerire nulla. La sola cosa che era riuscito a fargli scendere in gola era stata un po' d'acqua a tradimento. Come ben sapeva, si poteva sopravvivere anche a lungo senza cibo, ma senza bere si sarebbe disidratato molto presto, e il ragazzo aveva sulle spalle già molti giorni di sevizie e di digiuno. Nonostante l'enorme esperienza che aveva alle spalle, come quello scricciolo potesse essere ancora vivo, rimaneva un mistero.
Che poi, in realtà, tanto scricciolo non era. L'aveva visto in piedi - sorretto da un servitore - ed era persino più alto della maggior parte dei Mongoli. Solo terribilmente magro. Per deperire così tanto e così velocemente durante i giorni dell'assedio, il problema non doveva solo essere fisico ma anche mentale. Possibile ci fosse altro, oltre quello che gli era stato raccontato?
Dopo due giorni, Atlas si sentiva già esausto.
Oltretutto si era reso repentinamente conto come, per la prima volta in assoluto, si ritrovasse a far attenzione a tutto quello che faceva: a come si muoveva e a quanto si avvicinasse a qualcuno, agli spazi e a come ci si immergeva. Non che non fosse pienamente consapevole di sé: era un guerriero, dopotutto; ma al di fuori del campo di battaglia, non aveva mai pensato a come avvenivano le interazioni tra il proprio corpo ed il mondo circostante. Dopotutto, se urtava qualcosa era il qualcosa che si faceva male - che fosse oggetto o persona - quindi perché preoccuparsene? E il Khan, solo essere vivente di cui s'era inizialmente preoccupato, non era certo persona da farsi male per una spinta. Se gliene dava una, lui rispondeva con una più forte: era stato assolutamente incapace di lasciar correre qualsiasi tipo di affronto, anche scherzoso, e così piaceva ad entrambi.
Ora invece aveva un intero, nuovo, inospitale universo da dover imparare a gestire. Un universo senz'anima. Un universo che, perlomeno, sembrava essersi quasi abituando al suo tocco.
Non aveva mia trovato nessuno con la stessa repulsione ad ogni forma improvvisa di contatto fisico come quel ragazzino. Non accadeva solo col suo tocco, ma anche con quello della servitù: si divincolava e provava ad attaccare non appena il calore di un altro corpo si avvicinava troppo al suo. Fortunatamente - e non avrebbe mai pensato di poter esser felice di questo - era ancora troppo debole per poter causare dei danni a qualcuno.
Il solo che non aveva scacciato era stato Khenebish, ma persino il suo mastino si era avvicinato al prigioniero con misurata lentezza, come se avesse capito qualcosa che evidentemente agli uomini sfuggiva. O forse, semplicemente, il suo cane aveva capito che il ragazzo era senz'anima. In quei due giorni, di notte, era rimasto acciambellato ai suoi piedi, dopo aver abbaiato a lungo e ringhiato al nulla. E Atlas s'era reso conto che finché Khenebish non s'addormentava, Danil dormiva tranquillo.
Altro fatto assolutamente inspiegabile.
Ma non era finita lì: quando poche ore prima aveva sciolto le bende per rifare il medicamento si era accorto come le ferite sembravano richiudersi in fretta, forse persino troppo in fretta, come gli fece notare il portantino che ormai s'era incaricato di badare a Danil quando Atlas lasciava la tenda. A lui non sembrava così veloce, ma dopotutto lui aveva la capacità di recupero di un Demone, quindi non poteva certo esser preso come termine di paragono.
O forse sì?
Se quella era una maledizione avallata da un Dio, quanto a fondo avrebbe potuto modificare l'essenza stessa di un essere umano? Poteva ancora esser paragonato agli altri umani? Si sentiva diverso? O, semplicemente, si sentiva in qualche modo? E gli altri? Come percepiva le presenze degli altri?
Tante, tantissime domande e nessuno cui porle.
Khenebish gli trotterellava accanto, abbaiando felice della giornata di sole. Era un bel cane*, grande e forte. L'aveva adottato alla morte del Khan: era uno dei cuccioli dell'ultima figliata della coppia amata da Temujin. In quel momento aveva bisogno di compagnia, di non sentirsi del tutto solo. Khenebish era stato un fedele alleato contro la noia e la disperazione. Quando la necessità di allontanarsi da tutto era diventata un fatto di vita o di morte, quando la persona più importante al mondo, quella per cui avrebbe sacrificato se stesso, la sola che lo trattasse come un essere umano non era più in questo mondo, cosa avrebbe dovuto fare? Cosa, se non la si riesce a seguire in nessun modo?
Peggio di una malattia che consuma il corpo, la solitudine consuma l'anima. E quando Khenebish era entrato nella sua vita si sentiva già consumato. Aveva appena seppellito l'uomo che aveva amato per una vita, colui cui avrebbe dato la propria, che avrebbe seguito su un campo di battaglia anche da cieco, ed era tornato in patria che si sentiva dentro più morto che vivo. Ma un mezzo-demone non può morire come gli esseri umani, non può farla semplicemente finita perché, se non fa attenzione, c'è la possibilità nemmeno così remota che la propria metà demoniaca prenda il sopravvento, che il suo istinto di conservazione impedisca, ancora una volta, di lasciare queste terre. E faccia una strage per recuperare le forze. E no, la sua coscienza era sufficientemente macchiata di delitti immotivati da non volerne aggiungere ancora, così gratuitamente. Per questo aveva deciso di adottare uno dei cani del Khan, per onorarne il ricordo. Ma un cane, per quanto magnifico, restava un cane e non poteva dargli, in nessun modo, l'ardore o la passione che gli dava cavalcare accanto all'uomo cui aveva dedicato la propria vita.
E Danil?
Danil poteva dargli quella passione di cui l'aveva sempre sfamato Temujin? Da quello che i racconti dei guerrieri avevano detto era un condottiero implacabile e appassionato, un uomo orgoglioso e inarrestabile, dotato di una profondità di sentiment- oh. No. Non più.
Khenebish lo guardò, quelle due macchie chiare, proprio sopra gli occhi sembravano due sopraccigli preoccupati e davano al muso scuro dell'animale molta più espressività di molti esseri umani.
Di uno in particolare, sicuramente.
Come finiva a pensare sempre ed esclusivamente a quel ragazzino era una cosa che non si capacitava. Non era mai successo che un altro essere riuscisse a catalizzare i suoi pensieri come quel cristiano dai capelli scuri con le sfumature della notte come quelli di un mongolo. Insomma, dopo Temujin nessun altro gli aveva mai affidato la vita - e non è che il ragazzo gli avesse propriamente affidato la sua - quindi magari era solo per quello che Danil era costantemente nei suoi pensieri... logico e lineare: doveva capire come fare ad occuparsi di lui, poi sarebbe tornato se stesso e avrebbe ricominciato a fare ciò che gli piaceva fare, ovvero combattere.
Un piano perfetto.
Ghignò tra sé, e Khenebish abbaiò interlocutorio alla sua risoluzione: quello sguardo nero e profondo dopotutto aveva ragione. Atlas scrollò la testa e i capelli scompigliati gli solleticarono il collo scivolando armoniosamente oltre le spalle. Il cane aveva ragione: il piano sarebbe stato perfetto se non fosse che non era sicuro di riuscire ad abbandonare Danil Elehim, almeno non al momento, non con quella maledizione a pendere su quelle spalle troppo magre a poterla sostenere. E quella parlava di "mille anni al mondo, e mille ancora". Un corpo umano non può sopravvivere tanto, anche il più resistente, anche un corpo come quello di Temujin alla fine aveva ceduto il passo alla malattia, alla vecchiaia e, infine, alla morte. Possibile che lui potesse durare di più? Che quel Dio che aveva risposto a quelle parole fosse tanto potente da poter modificare la struttura fisica dell'uomo incatenato nella sua tenda, fino a renderlo simile a lui, un mezzo-demone?
Domande. Ancora tante, troppe domande.
E sempre nessuno cui porle.
Rientrò nella tenda, il cane dalla folta criniera avanzava maestoso nell'accampamento, abbandonando l'aria scherzosa che aveva avuto fino a poco prima, lontano da occhi indiscreti. L'aveva addestrato bene.
Atlas non s'era mai preoccupato dell'impressione che potesse suscitare negli altri, dato che fino a quel momento non era mai stato battuto da essere vivo o morto che fosse, ma Temujin aveva insistito molto sull'immagine che doveva dare agli uomini che formavano il suo esercito. Un'immagine di forza, potenza ed intransigenza. Che poi lui si divertisse a giocare, ridere e scherzare come tutti gli altri, questa era una cosa che dovevano sapere in pochi, pochissimi, possibilmente solo lui. E così s'era adattato a quella farsa, quel duplice se stesso che, da una parte lo rassomigliava a un demone incazzato col mondo, dall'altra ad un semplice uomo troppo cresciuto.
La morte del Khan aveva ucciso anche il suo essere nulla più che un uomo e, per tutti, era rimasto solo il demone.
Un demone che, al momento, si sentiva il cuore di panna.
Danil Elehim dormiva nel suo letto che sembrava volerlo inghiottire da un momento all'altro, l'espressione sul viso era imbronciata, gli occhi vagavano senza sosta sotto palpebre sottili come carta velina, il corpo, scomposto, era una macchia bianca tra le lenzuola scure e i lunghi capelli neri, sparsi sulle coltri, splendevano come gioielli. Una mano era artigliata alla coperta di pelle di lupo: aveva lo stesso colore della garza con cui aveva fasciato le stigmate che i soldati mongoli gli avevano inflitto.
Khenebish abbaiò un paio di volte, e il volto del prigioniero si distese, le labbra si aprirono un poco rilasciando un sospiro silenzioso, le sopracciglia nerissime tornarono dritte e il movimento di quelle pupille cessò immediatamente. Atlas accarezzò il testone del proprio cane, prima di andare a sollevare il corpo magro dal proprio letto per ricomporlo in una posizione meno scomoda.
Qualcuno mi prende in braccio. È massiccio. Vorrei oppormi, ma non ci riesco e forse nemmeno voglio... non riesco nemmeno ad avere paura... è questo morire? Non è poi così male.
Incredibilmente il ragazzo non si svegliò.
Aveva nuovamente la febbre e il cuore nel suo petto batteva come un tamburo mentre piccole gocce di sudore iniziavano ad imperlargli le tempie.
Il mezzo-demone chiamò a gran voce uno dei suoi servitori e gli ordinò di andare a chiamare il medico in capo dell'esercito. Il ragazzetto corse fuori come un ossesso, come se avesse tutti i demoni dell'inferno pronti a seguirlo.
Atlas prese dell'acqua e ne fece cadere alcune gocce tra le labbra aride del malato: iniziava a pensare che, più che dormire, al momento Danil Elehim fosse più che altro svenuto. E non c'era modo che il suo sesto senso riuscisse a dare una risposta a quest'ennesimo interrogativo.
Mi sembra di essere cullato. Tento di aprire gli occhi, ma non riesco comunque a vedere: l'oscurità m'avvolge come un caldo mantello...
Il medico arrivò dopo che il mezzo-demone fosse riuscito ad abbassare appena un po' la febbre.
Lei è tornata a volarmi tra le braccia viva come un bocciolo di rosa fresco e profumato. La sua pelle bianca come la Luna, i capelli di seta morbida del colore del Sole e i suoi occhi, verde mare, come i miei, ma più dolci. La mia piccola principessa.
La mia dolce sorellina.
Non doveva finire così.
L'uomo provò a toccare appena il corpo del paziente che questi si ritrasse, come scottato da un dolore troppo forte.
Non doveva finire così.
Sangue. Troppo sangue.
E mani. Mani che mi fermano.
"LASCIATEMI!!!" il latino esplose nella tenda, prendendo il mezzo-demone completamente alla sprovvista e lasciandolo imbambolato e basito. Khenebish abbaiò forte, indeciso se scagliarsi contro gli uomini che stavano torturando l'ospite del suo padrone o scagliarsi contro le figure che infestavano i suoi incubi.
Danil aveva parlato.
Il medico tentò di afferrare le braccia che frustavano l'aria nel tentativo di scacciarli "Cercate di tenerlo fermo!" urlò al servitore del mezzo-gigante che era entrato nella tenda con lui
"Non ci riesco!" gli gridò di rimando, cercando di afferrargli le mani, o di bloccargli le gambe, in qualche modo.
"LASCIATEMI! FERMI!!!"
"Le ferite si riapriranno!" gridò il medico cercando nella sua borsa una qualche pozione in grado di bloccare il movimento convulso del paziente "Non posso guarirlo se si continua a muovere." sibilò fulminando il portantino con lo sguardo.
Questi era appena riuscito a bloccargli i polsi, ma non riusciva a far nulla per le gambe e il torso, a meno di non lasciare le mani. Si guardò attorno, come alla ricerca di qualcosa mentre l'uomo sotto di lui continuava a urlare "NOOO! LACIATEMI, LASCIATEMI!!!"
Atlas intervenne in quel momento, riprendendosi dallo stupore di aver sentito la sua voce.
Spostò il ragazzino che stava bloccando i polsi di Danil e li afferrò lui con un'unica mano. Il maledetto si bloccò quasi subito, gli occhi ancora turbinanti oltre le palpebre.
Il guaritore osservò quel risultato sgranando gli occhi: il prigioniero, in braccio al suo carnefice, era tranquillo come un bambino. Osservò gli occhi del mezzo-demone, trovandoci lo stesso sgomento, prima di iniziare la visita.
Fine Capitolo 4
* Immagine qui:
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