[Sherlock BBC] Each man's death diminishes me, for I am involved in mankind

Jan 03, 2012 03:03

Titolo: Each man's death diminishes me, for I am involved in mankind
Fandom: Sherlock BBC, Doctor WhoPersonaggi: Master!Sherlock Holmes, companion!John Watson
Rating: Nc-17
Betareader: mikamikarin
Avvertimenti: slash, DW!Au, sort of H/C
Conteggio parole: 2148 (fiumidiparole)
Riassunto: Urla, e la sua voce rimbomba nelle pareti rovinate, nelle schegge di una macchina del tempo che non ha più vita, in mezzo alla polvere. Il silenzio inghiottisce la sua voce, trasformandola in nulla.
Nelle sue orecchie, il cuore batte talmente forse che non si accorge nemmeno della porta d’ingresso che si apre alle sue spalle.
“Il Dottore è morto.”
Note: Era da un po' che volevo scrivere una (altra) DW!Au, così ne ho approfittato e tra maritombola e p0rn fest, les jeux son fait. *ride* Dunque, scritta per il prompt 32 della Maritombola, Fandom!Au, e per il p0rn fest, companion!John/Master!Sherlock "Il Dottore è morto:"
Buon 2012 a tutti!

L’odore acre di qualcosa di bruciato - gomma, forse? - invade le narici di John con prepotenza, obbligandolo ad aprire gli occhi. C’è un ronzio nelle sue orecchie che non gli ispira assolutamente fiducia - sta diventando sordo, forse? Il suo cuore comincia a correre nel petto, nelle orecchie, nella pancia, dappertutto.
Che diavolo è successo?
Tenta di mettersi sulle gambe, ma la testa gli gira come una trottola, per cui non può che limitarsi a sedersi sulle ginocchia in attesa che la sensazione si nausea si attenui. Fa ancora difficoltà a mettere a fuoco l’ambiente che lo circonda, ma stringendo gli occhi riesce a ricordare qualche flash, il Dottore che gli parla di universi lontani, di andare a fare un giro a New New New New York, che è tempo di saldi ora che il Natale è passato. E poi il TARDIS ha iniziato a fare un rumore strano.
È quasi buio.
Il ronzio si attenua, dando spazio solo al silenzio.
È quasi buio.
“D-Dottore..?” prova a chiamare con voce flebile, senza ricevere risposta. Il Dottore non lo lascerebbe mai solo - il Dottore lo ha lasciato solo innumerevoli volte, in realtà, ma sempre e solo quando era sicuro che non gli sarebbe successo mai niente. E adesso la sua fronte sta sanguinando, ha chiaramente un trauma cranico, e probabilmente anche un polso slogato, a giudicare dal pulsare persistente della sua carne.
È quasi buio.
Con la mano sana preme sul pavimento, pezzi di qualcosa che non riesce ad identificare che pungono contro il palmo. A fatica si mette in piedi, allungando le braccia sulla prima cosa che trova, uno dei corrimani del TARDIS. “Dottore?” prova di nuovo, alzando la voce, mentre il suo cervello lotta per mantenere la calma.
Gli fa male la gambe, sta per entrare nel panico.
C’è troppo silenzio, troppo buio. C’è una luce fredda e fioca al centro della sala, l’anima del TARDIS che tenta di tenersi in vita. John avanza seguendo la luce, pestando tubi, mattonelle spezzate, pezzi di qualunque cosa.
Dov’è il dottore?
Quando sfiora il pannello di controllo del TARDIS, sentendo tasti saltati e metallo distrutto, un grumo di dolore gli si forma in gola, impedendogli quasi di respirare. Accarezza la macchina e guarda la luce farsi sempre più debole, gli occhi velati di lacrime.
Non può essere successo davvero.
“Dottore!”
Urla, e la sua voce rimbomba nelle pareti rovinate, nelle schegge di una macchina del tempo che non ha più vita, in mezzo alla polvere. Il silenzio inghiottisce la sua voce, trasformandola in nulla.
Nelle sue orecchie, il cuore batte talmente forse che non si accorge nemmeno della porta d’ingresso che si apre alle sue spalle.
“Il Dottore è morto.”
C’è un singhiozzo straziante, che riempie il silenzio tombale, John curvo sul pannello di contro che si morde un labbro, e strizza gli occhi. Adesso sente meglio, sente la morte buttarsi addosso alle sue spalle come una coperta, i passi del Master che lenti scandiscono il ritmo di un cuore - due cuori - che ha cessato di battere per sempre. Non si gira, mentre l’altro si fa più vicino, non si sforza nemmeno di scappare - e perché farlo poi? Non può tornare a casa, non può stare col Dottore, non può fare più niente, nemmeno lasciarsi andare a quel briciolo di interesse che prova verso l’uomo che adesso gli sta strizzando la spalla, perché, Cristo, il Dottore è morto, è morto, è mo-
“Il Dottore è morto.” bisbiglia John, riaprendo piano gli occhi. È tutto sfocato, come se si trovasse sott’acqua. Sente una lacrima solleticargli la guancia, il respiro che si blocca a metà percorso.
“John. Ehi John.” gli dice il Master piano, accarezzandogli la spalla. John si volta piano e lo guarda, i riccioli neri che gli cadono sulla fronte, gli occhi freddi che lo fissano quasi senza sentimento. “Non preoccuparti, John. Non sforzarti di pensare. Non c’è niente da fare. Posso assicurarti che non ha sofferto, questo consola sempre voi umani.” continua, guardando sconsolato il soffitto distrutto del TARDIS. “Vieni con me John. Vieni, non preoccuparti.”
John lo fissa per qualche secondo, senza battere le palpebre. Sente qualcosa che lo sta mangiando da dentro, un dolore così acuto da trasformarsi in vuoto. Guarda quell’uomo come se fosse un estraneo e allo stesso tempo come l’ultimo appiglio che gli rimane a una vita che non è né reale né fantastica - si ritrova a galleggiare in un cumulo di niente, fermo in una città che non esiste più, nella sua mente.
Il Master gli tende una mano, il viso neutro, pulito, pallido. “Vieni con me.” gli ripete, e prima di riuscire a dire qualunque altra cosa John è lì, tra le sue braccia, a premere la fronte contro il suo petto ossuto e a singhiozzare come l’essere umano che è. Sente le braccia dell’uomo stringerlo sulle spalle, una mano che scorre lenta sulla schiena. “Va tutto bene, John.” mormora soltanto, chinandosi sul suo orecchio. “Va tutto bene.”
Sentire il suo nome lo fa sentire ancora parte della realtà.

John si risveglia da un sonno agitato, le gambe attorcigliate attorno alle lenzuola che lo fanno sentire in trappola per istanti lunghi eternità. Si guarda attorno con gli occhi spalancati, mentre lentamente la stanza viene inghiottita dal buio della sera che si trasforma rapidamente in notte. Le pareti bianche, le tende di un verde tenue, la scrivania davanti al letto, non c’è nulla che gli faccia capire dove si trova, e in preda al panico comincia a urlare, stringendo la testa tra le mani.
“John!” e subito la porta si apre, e lui fissa il Master tenendo la bocca aperta, finché l’altro non gli si siede accanto e lo guarda, poggiandogli una mano sulla coscia, “Ci sono io, va tutto bene.”
Non era un sogno. L’esplosione, la luce fioca del TARDIS, ”Il dottore è morto”, non era un sogno.
Sente un grumo di dolore bloccargli il respiro.
Apre la bocca per dire qualcosa, ma non ci riesce. La spalla gli fa male: è come avere mille aghi che lo trapassano, è come se lo avessero appena colpito. Se la stringe appena, guardando l’uomo negli occhi, il cuore che pulsa nelle orecchie. Che cosa farà d’ora in poi?
“Non ci pensare, John. Non è il momento adatto per porsi certe domande.”
È come se gli leggesse nella mente - lo fa ogni volta che lo vede, lui, capace di leggere le persone, capace di leggere lui come un libro aperto.
Non resiste più.
Si poggia sul petto dell’altro, trattenendosi per non fare rumore, mordendosi le labbra perché il dolore fisico alleggerisca quello che preme con forza contro il petto. Il Dottore è morto, è morto davvero, niente rigenerazione, niente nuova faccia, solo un cumulo di polvere e un cacciavite sonico rotto che si è ritrovato nella tasca del suo parka. Non ci sarà più nessuno a portarlo avanti e indietro nello spazio, nessuno che lo aiuterà ad evadere da una vita fatta solo di psicologi e fisioterapia, e di sogni macchiati di sangue e armi e sabbia e caldo e dolore.
Un singhiozzo, lungo, quasi un rantolo. Il Master lo stringe alle spalle e chiama il suo nome sottovoce, ogni volta che John trattiene troppo a lungo il fiato. Il Master è la figura più fugace e instabile che conosca, l’unica ancora con una realtà senza il Dottore.
“Non ci pensare, John.” gli ripete. John sente due dita premere contro il suo mento e obbligarlo controvoglia ad alzare il viso; lo osserva e non riesce a percepire nulla, eppure non ha modo di pensare a niente.
Le sue labbra, rosa, piccole, particolari, si poggiano sulle sue e le strofinano appena, bloccando per un momento la tempesta della sua mente. “Ci sono io. Non hai bisogno di pensare. Non hai bisogno di far rumore.”
Il suo tono è così calmo, piatto, primo di emozioni. John socchiude gli occhi e si lascia baciare, lo lascia entrare nella sua bocca senza opporre resistenza, muovendo la lingua contro quella dell’altro e sentendone il sapore buono, appena dolce.
Si è sempre sentito attratto da quell’uomo; il Dottore aveva fatto spallucce, quando glielo aveva detto; “Sei umano,” gli aveva detto, “e sei bellissimo per questo.” e poi aveva sorriso e non gli aveva fatto nessuna domanda, non lo aveva messo in guardia perché il Dottore era sempre pronto a tirarlo fuori da qualunque pasticcio andasse a cacciarsi, con o senza il Master a sedurlo semplicemente con lo sguardo.
Si aggrappa alla sua spalla, gemendo appena dentro la bocca dell’altro. Il rumore umido del loro bacio lo tiene ancorato alla terra, un peso legato al suo stomaco che spinge verso il basso, dandogli un minimo di stabilità. Sente il Master giocare con le sue labbra, tenerle appena tra i denti per succhiarle prima di accarezzarle con la lingua, prima di scivolare dentro di lui. È lento, morbido, e quasi non ci fa caso. È perso nella sua mente, raggomitolato in un angolo della sua testa mentre il Master lo tocca e lo bacia regalandogli una parentesi di tranquillità.
“Vieni qui.” gli dice, quando i vestiti sono ormai inutili, accumulati sul letto e sul pavimento in modo disordinato, e John obbedisce, sedendosi sulle sue gambe, le cosce corte che lo obbligano a tenere le ginocchia appena sollevate. L’erezione di entrambi è ancora morbida, ma non importa a nessuno dei due.
Le mani del Master sono pallide, le dita lunghe e affusolate. Si insinuano tra i suoi capelli, accarezzano la testa, provocando un sospiro di piacere che scivola dalle labbra di John alla bocca dell’altro. Si muovono lente poi, lungo la schiena, fino ad accarezzare il solco stretto e caldo delle natiche, soffermandosi appena prima di scivolare sulle cosce. Risalire fino all’inguine e sfiorare la sua erezione, baciarlo con un impeto crescente, ingoiare sospiri e gemiti, questo fa mentre John si stringe alle sue spalle e ondeggia contro la sua mano, gli occhi semi aperti, lucidi, arrossati dal pianto.
Lasciando una mano sul suo fianco sinistro - c’è una ferita che si sta cicatrizzando, residuo di un’esplosione che gli rimarrà tatuata a vita - stringe entrambi i sessi con quella libera, muovendola piano, lasciando che carne sfreghi contro carne. John osserva le labbra dell’altro farsi a cuore, qualche ricciolo scuro attaccarsi alla fronte appena sudata, e il suo cuore ha un tonfo disperato, un cumulo di piacere che si divide e va un po’ alla bocca, un po’ al basso ventre. Comincia a ondeggiare sul corpo del Master, incapace di tenere la bocca chiusa, gemiti che si fanno sempre più intensi man mano che il suo amante aumenta il ritmo, più alti quando il suo pollice si ferma appena sulla punta del suo sesso già pulsante, mandandogli brividi di piacere alla schiena, al corpo, alla mente.
Egoisticamente vorrebbe rimanere bloccato in quel lasso di tempo. Egoisticamente vorrebbe sentire le mani del Master sul suo corpo per sempre, per evitare il resto del mondo, per rendersi totalmente incapace di pensare.
Potrebbe chiederlo, potrebbe implorarlo, forse l’ascolterebbe.
Si morde il labbro, mentre una scossa più forte lo fa tremare, e mentre una mano si stringe alla spalla dell’uomo, l’altra scivola tra le loro gambe, ad accompagnare i movimenti del Master, a sentire anche lui come la carne sia calda, e la pelle scivolosa, umida di piacere.
Si inarca richiudendosi a riccio e cercando sostegno nel petto dell’altro, quando il suo corpo non riesce a reggere la velocità delle loro mani e viene con un gemito lungo, basso, interrotto a tratti dal piacere troppo forte che pulsa nel suo sesso e nella sua gola. Sente la sua mano diventare ancora più umida quando il Master si china su di lui e baciandolo vicino all’orecchio sussurra il suo nome, senza far altro rumore.
Quando tutto finisce, quando tutto sfuma nel buio della stanza, nella bocca di John non resta che il sapore d’amaro in bocca, la speranza di poter rimanere bloccato lì per sempre che si trasforma in disillusione.

“Puoi stare con me.”
John ha gli occhi chiusi, il braccio sotto il cuscino, il cuore che finalmente batte lento e gli da pace. La luce dei lampioni filtra opaca dalle finestre, le tende aperte perché la lascino entrare e riempire la stanza; il Master non vuole che si svegli nel buio, non vuole che si senta da solo.
Sa fin troppo bene cosa significa.
Accarezza la testa del soldato, portandosi via tutti i brutti sogni.
“Puoi stare con me.” ripete, sdraiandosi al suo fianco, fuori dalle coperte. Porta un braccio al suo fianco e lo accarezza, riuscendo quasi a sentire il tepore della sua pelle attraverso le coperte. Si avvicina al suo orecchio, annusa l’odore dei suoi capelli, un misto di shampoo neutro e cenere. Socchiude gli occhi e si obbliga a non pensare - per una volta le mille parole che affollano la sua mente potranno andare a dormire, e lui potrà illudersi di essere una persona normale, un essere umano.
Bacia la conchiglia, la pelle tiepida e piacevole al tatto.
Il Dottore è morto.
“Puoi stare con me.”

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